"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Dal Corriere della Sera del 3 dicembre 2016 un significativo editoriale di Dario Di Vico.
di Dario Di Vico
Raccontando in anteprima ai suoi amici cosa aveva scritto nel cenquantesimo Rapporto Censis, Giuseppe De Rita ha ricordato il senso del dibattito che nel lontano 1973 divise Aldo Moro e Giulio Andreotti. Mentre il primo sosteneva che la politica dovesse orientare la società, il secondo rispose esattamente il contrario: «Deve solo assomigliarle».
In epoca di web dominante e di post verità può sembrare colpevolmente retrò ritornare a un dibattito tra i cavalli di razza della vecchia Dc ma De Rita lo ha fatto con lo scopo preciso di parlare dell’oggi e della circostanza per cui «chi governa sembra più populista di chi sta in piazza».
Il potere tende quindi, nella visione del Censis, a specchiarsi nella società civile per paura di sembrarle diverso, e come temeva l’Andreotti d’antan, di perdere irrimediabilmente consenso. Il presidente De Rita non ha voluto ufficializzare nemmeno in zona Cesarini cosa voterà domani al referendum costituzionale: agli endorsement preferisce le analisi socio-economiche vecchio stampo che lo hanno portato però a maturare una critica serrata al renzismo di governo. Ai bonus concessi a pioggia, ai «fantasmagorici patti territoriali» firmati uno dopo l’altro, alla tambureggiante polemica anti casta.
Tante scelte che gli paiono intrise di populismo, nemmeno tanto dolce. È chiaro che se proprio vogliamo parlare di populismo di governo il caso limite (da monitorare) sarà quello di Donald Trump, della sua inattesa vittoria e della diabolica capacità di fare il pieno tra i forgotten men per poi portare un uomo di Goldman Sachs nella casella chiave del Tesoro. Nell’attesa di capirne di più De Rita commenta come in Italia non veda nessuno capace di mettere in campo una politica che non segua gli istinti della pancia. «E il pericolo è che alla fine vada in scena un derby tra populisti che finisce per forza con la vittoria di un populista». Il presidente del Censis non cita esplicitamente né Renzi né Beppe Grillo ma il riferimento ai due sembra sufficientemente chiaro.
Il sociologo romano è tutt’altro che pessimista sul corso degli avvenimenti, la sua Italia è quella capace di ruminare gli input esterni, volta per volta rimuovendoli o assimilandoli. Si chiamino anche migranti o digitalizzazione, la società digerisce.
L’Italia di De Rita è un Paese che sa cicatrizzare in fretta le avventure e gli squilibri propri e altrui, anche se appaiono giganteschi come la crescita delle disuguaglianze o persino la Brexit. L’Italia del format Censis è capace di reggere quasi esclusivamente in virtù del funzionamento quotidiano della vita collettiva. «Ognuno di noi ogni mattina ha continuato ad aprire ditta, bottega o computer e la stessa cosa accadrà anche domani. Non è una passività scettica, è far leva sul primato dell’impegno quotidiano per la propria crescita». Le imprese continuano a operare nelle dinamiche di filiera in cui sono inserite, le famiglie continuano a coltivare i loro risparmi e i loro patrimoni, il sistema di welfare continua a far quadrare le proprie variabili, il territorio continua a essere un fondamentale fattore e soggetto dello sviluppo e i flussi turistici continuano a confermare una prosperante attrattività del nostro Paese. De Rita dunque sdrammatizza: vede che la storia si è messa a correre ma sottolinea come non abbia ancora cambiato le carte in tavola. «Il resto continua a vivere senza drammi».
Se quindi il 50mo Rapporto Censis è portato a segnalare le continuità – in critica nemmeno velata con i media specializzati nel vedere discontinuità ovunque – De Rita alla fine una grande preoccupazione comunque la esplicita. A suo dire stanno saltando le cerniere tra élite e popolo ed è proprio il venir meno delle giunture che alimenta i populismi. «Sembra un tempo lontano quello in cui la potenza e l’alta qualità delle istituzioni faceva la sostanza unitaria del Paese, oggi invece sono inermi, incapaci di svolgere il loro ruolo di cerniera, propense a lasciare alla politica e al corpo sociale un confronto diretto o addirittura la tentazione di fare da soli». Ma senza istituzioni un Paese per quanto possa essere virtuosamente anarchico non può vivere a lungo. Quantomeno resta un’opera incompiuta.
0 commenti all'articolo - torna indietro