"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Esiste ancora una politica ambientale?

siusi

Prima ancora serve una cultura del limite. In dialogo con il direttore de L'Adige Pierangelo Giovanetti

In seguito alle conclusioni dell'inchiesta della Magistratura sulla vicenda di Monte Zaccon, il direttore de "L'Adige" Pierangelo Giovanetti ha proposto ai lettori un editoriale dal titolo "Esiste ancora una politica ambientale?" Di fronte ad un tale richiamo alla politica affinché s'interroghi sulla propria capacità di affrontare le questioni ambientali, mi sarei aspettato l'aprirsi di un appassionato dibattito. Invece il silenzio.

Allora vorrei romperlo questo silenzio, perché non credo affatto sia casuale e perché il rapporto fra ambiente e sviluppo continua ad essere un nodo irrisolto per la politica, che richiede attenzione e innovazione del pensiero.

Il monito non è di ieri. Giacomo Leopardi, presumibilmente nel 1836, scriveva

«...Dipinte in queste rive

son dell'umana gente

le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia

Secol superbo e sciocco,

che il calle insino allora

dal risorto pensier segnato innanti

abbandonasti, e, volti addietro i passi,

del ritornar ti vanti

e procedere il chiami...»

Dovremmo leggere e rileggere le parole de "La ginestra" per fermarci a riflettere sulle "magnifiche sorti e progressive", non per negare le straordinarie conquiste del sapere umano, bensì per recuperare il senso del limite, smarrito nell'idea che lo sviluppo avrebbe saputo rimediare anche agli aspetti negativi da esso generati.

Quel che voglio dire è che non abbiamo semplicemente a che fare con una politica che fatica a far proprio il concetto di limite, ma con una cultura consolidata e diffusa come se la natura e la vita fossero totalmente nelle nostre disponibilità.

Poi, di fronte ai segnali che la natura ci invia o agli eventi tragici, ci accorgiamo per un istante che forse il limite è oltrepassato, che bisogna porvi rimedio. E' accaduto con il Vajont, è stato così per Cernobyl o Bophal, e lo stesso potremmo dire con Stava. Non sappiamo andare oltre un approccio emergenziale, rincorriamo gli eventi e non costruiamo gli anticorpi, un po' come è avvenuto nel corso di quest'anno con il terremoto finanziario.

Per la verità, nel riflettere dopo le sciagure, la politica trentina ha saputo anche dar prova di saggezza, realizzando pagine importanti nella pianificazione urbanistica, nella tutela del paesaggio, nella gestione delle acque, dandosi leggi avanzate che pure hanno contribuito a qualificare il nostro territorio. Ma poi, passato il clamore, tutto tende a rientrare nel solco del vecchio paradigma che in nome dello sviluppo (e del profitto) piega le leggi come si trattasse di lacci burocratici e lo stesso concetto di sostenibilità a ciò che è possibile o non è possibile fare.

Quel di cui abbiamo bisogno non è accorgersi dei problemi ambientali quando essi si manifestano, ma di un salto di pensiero, cosa ben più complessa, tanto siamo irritati - come scriveva Hannah Arendt mezzo secolo fa - da quel che non abbiamo prodotto, "da tutto quel che ci è misteriosamente dato". Occorre, insomma, un diverso approccio.

Abita qui la cultura del limite, la consapevolezza della fragilità degli equilibri, il principio di prudenza che dovrebbe guidarci nelle scelte. Una cultura ambientale cui attingere in ogni nostro comportamento, specie se abbiamo responsabilità nella gestione del bene comune. Questo salto non avviene perché ci spaventiamo di fronte a qualcosa che accade nelle vicinanze del "nostro giardino", ma per una consapevolezza più profonda, che sa andare oltre l'immagine bucolica delle nostre montagne e delle nostre vallate.

Altrimenti ogni volta ci scopriremo fragili ed esposti, come ci racconta il 6° Rapporto sull'ambiente trentino. Detta in altre parole, non è solo la criminale trasformazione di una cava in discarica di veleni, ma la produzione stessa di questi veleni che dovrebbe farci riflettere.

La questione rifiuti è paradigmatica. Nei mesi di lavoro della Terza commissione legislativa incaricata di indagare sull'inquinamento ambientale, una delle cose che più ha fatto riflettere è proprio l'emergere di una diffusa sottovalutazione dei problemi fin quando non ne veniamo direttamente investiti. Riguarda i rifiuti speciali come quelli "ordinari", la cava-ripristino-discarica di Monte Zaccon come il Campiello, l'uso dei fitofarmaci in agricoltura come le polveri sottili.

Il che chiama in causa un altro aspetto, l'etica della responsabilità. Ovvero l'incapacità di "farsi carico" dei problemi di un'intera comunità, per cui il problema dei rifiuti non esiste semplicemente spostandoli da sotto casa, senza interrogarsi del costo sociale, ambientale, economico che questo atteggiamento genera.

Non parlo del passato. E' vero che oggi abbiamo raggiunto livelli molto significativi nella raccolta differenziata, ma siamo ben lontani dalla "chiusura del ciclo", tant'è vero che le discariche sono sature e rischiano di scoppiare, che esportiamo rifiuti in diverse direzioni e che l'80% dell'umido va fuori provincia con costi notevolissimi per la nostra comunità. E quando si propone la realizzazione di un biodigestore, quand'anche di ultima generazione, c'è la rivolta delle popolazioni locali in nome della tutela del paesaggio.

Lo stesso dicasi per l'inceneritore. Il non aver avuto il coraggio negli anni ‘90 di fare cultura (della prevenzione e del riciclo) e di realizzare in ognuno dei nostri Comprensori dei piccoli impianti affinché il ciclo potesse chiudersi responsabilmente sul nostro territorio, ha determinato una situazione di emergenza. Ci sono due modi per affrontarla: spostare il problema, in altre parole mandare altrove i rifiuti, magari in fondo al mare come le cronache di questi giorni ci raccontano, oppure farsene carico fin quando una recuperata attitudine civica dei trentini non saprà realizzare l'opzione "zero rifiuti". 

L'impronta ecologica del Trentino, ossia l'impatto del consumo di risorse, è oggi circa il doppio della sua superficie, non se ne prevede un contenimento rapido e definitivo e nemmeno una significativa riduzione in tempi brevi.

Per farsene carico in maniera responsabile servono essenzialmente tre cose. Una, più generale, ovvero interrogarsi sull'idea di sviluppo che vogliamo per questa terra, cercando risposte che valorizzino le sue vocazioni di territorio alpino, le filiere produttive che ne rispettino l'identità, una diverso rapporto fra centro e periferie, il risparmio energetico ed una diffusa cultura della sobrietà. Il che significa implicitamente - è il secondo aspetto - mettere in campo tutte le iniziative possibili per prevenire la produzione di rifiuti, proseguire nella raccolta differenziata spinta, occuparsi di quel che abbiamo nelle discariche e che ancora rimane di rifiuto indifferenziato. Per questo è necessario avvalersi di una "protesi tecnologia", modulata progressivamente per dimensione e compiti ai bisogni del territorio provinciale e che è modulare anche nella sua forma progettuale e quindi tale potrà essere nel suo utilizzo. Uno strumento straordinario e "a tempo", sottratto cioè alla logica del business. Il terzo aspetto è di natura legislativa, una legge che si ponga l'obiettivo della chiusura del ciclo, impedendo cioè che i nostri rifiuti vadano altrove e che la nostra terra diventi una discarica al servizio della criminalità ambientale.

Forse, per ritornare alla domanda iniziale di Giovanetti, potremmo partire da qui.

Michele Nardelli

editoriale Giovanetti

 

0 commenti all'articolo - torna indietro

il tuo nick name*
url la tua email (non verrà pubblicata)*