"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Michele Nardelli
(3 giugno 2017) In questi giorni si svolge la dodicesima edizione del Festival dell'Economia di Trento, quest'anno dedicata al tema per nulla banale della “Salute diseguale”.
Ospitare un evento annuale di riflessione sulle cose del mondo ha un valore in sé, considerato che la conoscenza è il tratto che consideriamo decisivo per abitare la “metamorfosi” del nostro presente. Cosa per nulla scontata nel delirio del “fare”. Eppure l'ossessione delle ricadute non ha smesso di interrogare decisori e finanziatori sugli effetti del festival in termini di presenze e di produzione di PIL. Ma su questo piano non c'è che dire, il festival dello scoiattolo rappresenta una kermesse di successo, misurabile dalla capacità di attrazione e di pubblico presente, dall'indotto sull'economia locale, dalla qualità dei relatori provenienti da tutto il mondo e, infine, dall'aver fatto di Trento la città del Festival dell'Economia.
Andrebbe poi considerato che vedere centinaia, talvolta migliaia di persone in fila (e in allegra compostezza) per assistere agli eventi proposti in un contesto di forte crisi delle forme partecipative è decisamente un fatto che qualifica positivamente la nostra città. Insieme ad altre manifestazioni di qualità che si svolgono nel capoluogo trentino – penso al Filmfestival internazionale della Montagna, alla straordinaria capacità attrattiva del sistema museale e del Muse in particolare, alle giornate di Trento Smart City o dell'Europa... – il Festival dell'Economia ha contribuito a fare di Trento una città migliore e più bella.
Nell'affermare questo, credo sia altresì opportuno – dodici anni sono un arco di tempo sufficiente per farlo – provare ad interrogarsi su come questa manifestazione abbia saputo lasciare il segno, interagendo con il pensiero (economico, ma non solo) di chi oggi ha nelle proprie mani il destino di milioni di esseri umani o anche solo di piccole comunità come la nostra. Ovvero sull'autorevolezza che il Festival dell'Economia ha saputo esercitare nel produrre quei cambiamenti di paradigma che il presente richiede con sempre più drammatica urgenza.
Questi dodici anni, anche “solo” sul piano dei processi dell'economia, non sono stati un tempo qualsiasi. Anzi. Potremmo dire che il Festival è stato positivamente stressato da “tempi interessanti”, per usare l'espressione tanto cara ad Hannah Arendt.
Epperò sotto questo profilo a me sembra che il bilancio non sia altrettanto positivo. Non ho visto uscire dai luoghi del festival quel cambio di sguardo, tanto meno premi Nobel o esponenti di primo piano del mondo politico o della cultura usare questo palcoscenico per cogliere i segni del tempo. Nemmeno l'incombere della crisi finanziaria globale venne compreso, così come i grandi avvenimenti che l'economia non poteva certo considerare estranei, come le primavere, i processi migratori, la crisi ecologica, l'involuzione dell'Europa politica.
E poi c'è un'altra questione, non meno significativa. Il Festival dell'Economia è stato ed è un evento frequentato, certamente interessante, ma pur sempre un evento. Nel senso che non ha saputo rappresentare un percorso di una comunità che avrebbe potuto crescere con il suo festival non da un'edizione all'altra ma in un itinerario capace di pulsare con il territorio lungo i suoi dodici anni di vita. Così il Festival avrebbe potuto misurare il suo impatto non solo nelle sue ricadute materiali ma anche in termini formazione di una comunità esigente anche verso i propri decisori.
E' ora che il Festival s'interroghi su questi aspetti oltre la propria autoreferenzialità. Che provi a darsi delle tesi rischiose da sottoporre a verifica piuttosto che galleggiare. Che provi a stressare i personaggi che invita piuttosto che questi stessi personaggi vengano sin qui a riproporre il proprio compitino già collaudato e di sicuro effetto. Che provi dunque ad essere più esigente con se stessi e con gli altri.
Se il Festival dell'Economia saprà fare questo non sarà solo uno fra i tanti espedienti con cui le città si promuovono in un moltiplicarsi di eventi competitivi. Motivo per cui non solo esserne orgogliosi ma anche per pulsare con la città e non di fuggirne. Come noi in queste giornate di viaggio lungo il limes alpino del difficile rapporto fra città e montagna.
1 commenti all'articolo - torna indietro