"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La città interiore

La prima di copertina del libro

Mauro Covacich

La città interiore

La nave di Teseo, 2017

“La città interiore” è un romanzo che ci aiuta ad accostarci ad un luogo sospeso nel tempo, al quale potrebbe aderire perfettamente quel che Winston Churchill usava dire a proposito dei Balcani a proposito del loro “produrre più storia di quanta ne possano digerire”.

Se poi la città di cui stiamo parlando (Trieste) diviene il paradigma di una vicenda famigliare nella quale la complessità conflittuale è rintracciabile in un cognome che muta con lo scorrere del tempo, la matassa diviene difficile da dipanare.

Conta certo la prossimità dei luoghi e una geografia porosa sul piano delle appartenenze nazionali (ovvero culturali e linguistiche), ma non si può certo dire che le vicende novecentesche non ci abbiano messo del loro.

Perché se già è complicato (e costoso) elaborare un qualsiasi conflitto dove i contendenti sono palesi, figuriamoci scavare nelle diverse anime di una città italiana, slava, ebraica, tedesca e di tutto un po', per di più alle prese con un secolo nel quale queste identità sono state oggetto di un corto circuito pazzesco, fra grandi speranze e avvenimenti tragici, memoria e falsa coscienza.

Accostarsi a Trieste non è affatto semplice, eppure questo guazzabuglio di storie personali e collettive mi affascina. Sarà per le mie frequentazioni balcaniche, sarà che nel corso degli anni mi sono nutrito delle pagine di Claudio Magris, Boris Pahor, Fulvio Tomizza, Franco Vegliani, Paolo Rumiz, Guido Crainz, Melita Richter, Roberto Curci, Marta Verginella ed altri autori e autrici di confine (e forse non è un caso che questo lembo di terra abbia prodotto nel secondo dopoguerra una così intensa produzione letteraria), sarà che in quella sua grande piazza ho un ricordo indelebile del mio ultimo incontro con Predrag Matvejević, sarà che se mi trovo a consigliare un libro per comprendere il Novecento propongo senza indugio “Alla cieca” ovvero il racconto del naufragio di un uomo (Tore Cippico-ipiko), la cui vicenda raccoglie in sé quella dei tanti naufraghi di un secolo ancora non elaborato, sarà che nel tempo ho imparato a considerare famigliari i luoghi di questa complessità, ma Trieste di tutto questo è l'ineludibile crocevia.

E allora come non avvicinarsi con curiosità e perfino con una certa intimità al bel romanzo di Mauro Covacich (o Kovaić, non importa), babele di intrecci famigliari attraverso i quali ricostruire pagine di storia e di vicende politico/letterarie altrimenti oggetto di oblio.

Come quella di un giovane impiegato alle Assicurazioni Generali di Trieste di nome Franz Kafka e l'aneddoto raccontato da Dora, l'ultima fidanzata, che ci aiutano a comprendere la figura di uno dei mostri sacri della letteratura moderna molto di più di qualche saggio biografico1.

O di memorie profondamente divise che sembrano trasmettersi per appartenenze identitarie che la città fatica a scrollarsi di dosso. Come se la falsa coscienza potesse sopravvivere come un virus contagiando i luoghi prima ancora delle persone.

E come in “Alla cieca” i personaggi del romanzo di Covacich si sovrappongono, così come i loro nomi e le loro storie, così come il passato e il presente, come se tutto fosse sospeso. Racconti personali cui fanno da sfondo le vicende ancora non elaborate intorno alla seconda guerra mondiale, le pulizie etniche e i campi di sterminio, la tragedia delle foibe, la guerra fredda, le guerre degli anni '90. Ognuno chiuso nella propria narrazione e nel proprio delirio nazionalistico.

In attesa che la città inizi a fare i conti con se stessa. Anche quella interiore. (m.n.)

1«... Siamo agli ultimi mesi, l'esofago è compromesso. Franz si nutre ormai solo di uva, ananas e birra. Una ventina di giorni prima della morte, la ragazza riferisce a Klopstok (il medico di Kafka, ndr): “Beve birra a ogni pasto e la gusta talmente che è un piacere guardarlo”. Ma al momento dell'aneddoto Franz non è ancora ricoverato in sanatorio ed è in grado di concedersi due passi al parco. Vivono a Berlino, nel quartiere Steglitz, il cui giardino botanico è la loro meta del pomeriggio. Lui ama sedersi sulle panchine e guardare. Un giorno si avvicina incuriosito a una bambina straziata dal pianto. “Che succede piccola?” “Ho perso la mia bambola!” “No, piccola, non l'hai persa”. La bambina solleva lo sguardo sul volto sorridente di quel tizio allampanato. “La tua bambola sta solo facendo un viaggio, mi ha detto di dirtelo. Mi scriverà una lettera per te, ecco, mi ha detto così. Se vieni qui domani, te la porto”. Dora racconta che Franz ha voluto tornare subito a casa per scrivere la lettera. Si è messo alla scrivania con la stessa tensione che palesava durante la stesura dei suoi lavori. Deve guarire la bambina, deve aiutarla a salvarsi dal dolore della mancanza. Ora si direbbe elaborare il lutto, ma in fondo si tratta di mettersi in salvo, salvarsi. Il sentimento di perdita sospinge tutti, anche la bambina del parco sull'orlo oltre il quale le cose del mondo inspiegabilmente spariscono, come il rocchetto dell'infante freudiano in Al di là del principio di piacere. Perché spariscono? Perché finiscono? L'accesso al principio di realtà è una soglia foderata di angoscia, e lui deve aiutare la bambina ad affrontarla. Per questo ha mentito. Una frottola per una verità superiore … inventerà per rimettere in ordine le cose, per restituirle a un senso. Kafka consegna la lettera il pomeriggio seguente. “La bambola” spiega alla bambina “desiderava cambiare aria, girare un po' l'Europa, ma che non smetterà certo di volerle bene, anzi, promette che la terrà aggiornata sui suoi spostamenti per evitarle ogni preoccupazione”. La piccola è perplessa ma incuriosita, la disperazione sembra placata. D'ora in poi riceverà una lettera al giorno nella quale Franz descriverà le avventure della bambola viaggiatrice, i fatti nuovi, gli incontri, la scuola, l'amore, la festa di fidanzamento, il matrimonio, vicende con le quali il giocattolo indurrà la bambina stessa a riflettere sull'impossibilità di riprendere la vita di un tempo, preparandola passo dopo passo alla rinuncia. Kafka moribondo scriverà per lei ogni mattina. Tre settimane di bugie e un'unica lettrice. In fondo, a prescindere dalla diffusione del testo, si scrive sempre per una sola persona, per incastrarla e, al tempo stesso, aiutarla a salvarsi. “Capisci anche tu che non sarà facile rivedersi in futuro”. E' l'ultima frase della bambola, secondo quanto riportato da Dora...». Mauro Covacich, La città interiore. La nave di Teseo, 2017

 

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