di Federico Zappini
C’è vita oltre i referendum convocati da Zaia e Maroni. E’ c’è spazio per discutere di autonomia e autogoverno senza dover necessariamente andare a ruota della propaganda – tutta economica e opportunistica – leghista. Dentro “Il viaggio nella solitudine della politica” abbiamo già avuto modo di incrociare la questione in diverse occasioni. Attraversando il Trentino, e le sue difficoltà nell’affrontare il percorso di scrittura del Terzo Statuto. Incontrando cittadini e cittadine che nell’area dolomitica e alpina da anni – in Veneto come in Friuli, o nelle valli Lombarde – si interrogano e praticano sul fenomeno delle proprietà collettive e la gestione dei beni comuni. Ne emerge un interessante – e non privo di contraddizioni – movimento di persone, tra loro anche molto diverse, che guardano con curiosità e attenzione alle prospettive federaliste. Sarebbe sbagliato non tenere in considerazione questa ricchezza di punti di vista, lasciando che ognuno approcci i prossimi referendum senza una minima riflessione collettiva.
Nel corso del fine settimana che condurrà alla scadenza referendaria il viaggio ci porterà sulle strade della Padania (concetto politico dal dubbio significato, ma utile per inquadrare lo spazio geografico che visiteremo) parlando di immigrazione e cooperazione internazionale, di petrolio e nucleare, del mito della velocità, della politica civica e delle sue possibili declinazioni. Per la data del 22 ottobre abbiamo immaginato una tappa nel paese di Pieve di Soligo, luogo di nascita e di vita di Andrea Zanzotto, cantore del territorio e del limite. Concetti che devono essere cari a chi oggi è interessato a mettere in campo seriamente un discorso che faccia della responsabilità dell’autogoverno un tratto distintivo del prossimo futuro a livello quantomeno europeo. Il testo che segue è un invito a chi ne abbia voglia di partecipare ad una conversazione mattutina (dalle 10.00 alle 13.00, in un luogo che segnaleremo al più presto) che vuole sortire l’effetto di spostare in avanti il dibattito, stabilendo relazioni significative tra territori e comunità diverse.
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Venti di indipendenza. Propositi di autonomia. Provo almeno ad abbozzare, come contributo a un più ampio confronto necessario e urgente, una riflessione su due temi – affini e pure distanti, spesso confusi e mal interpretati – tornati alla ribalta dentro la fitta agenda di consultazioni popolari che ci attende, la più riconoscibile e attesa delle quali è quella prevista per il primo di ottobre in Catalogna.
Lo faccio cercando di orientarmi all’interno di uno scenario che – in Catalogna come in Scozia, in Italia o nel Kurdistan iracheno – sta alzando in maniera significativa i toni dello scontro senza però garantire un impatto rilevante sul dibattito legato alle prospettive dell’Europa da un lato e alle articolazioni – non da oggi in difficoltà – della politica, rappresentativa e non, a livello locale come globale.
Vale quindi la pena di tenere l’inquadratura larga, non lasciandoci sopraffare dal particolare che distoglie l’attenzione dalla visione d’insieme, e procedere con la dovuta cautela lungo un tratto di strada dal fondo dissestato. Coltivando l’ambizione di evitare da un lato il politically correct – e le zone di confort che normalmente abitiamo – dall’altro il riflesso condizionato che genera l’automatico posizionamento su uno dei due fronti contrapposti, dando per scontato che tale polarizzazione tra pro e contro l’attivazione – in termini anche radicali e diffusi – di processi volti all’autogoverno territoriale esaurisca tutte le possibili alternative in campo. Praticare la terza via, un pensiero non allineato e (possibilmente) originale, è in queste condizioni l’unica strada percorribile, benché metta nella posizione perfetta – sia che si parli dell’autodeterminazione catalana che del referendum veneto e lombardo – per finire schiacciati tra incudine e martello. In una posizione di disagio, ma obbligata dal contesto di partenza. Né per l’unità indissolubile dello Stato. Né per l’indipendentismo che tende a alimentare fratture e chiusure identitarie.
Elefanti in una cristalleria, questo siamo. Una cristalleria stracolma di storie e memorie (spesso conflittuali e altrettanto spesso frutto di ricostruzioni parziali, fantasiose o addirittura false), di fragili equilibri (politici, sociali ed economici), di tentazioni plebiscitarie – ah, il popolo! – e uguali e contrarie tensioni conservatrici e neo-nazionaliste. Affollata di retorica e altrettanto conformismo, a volte ammantato di obbligato realismo, altre di presunta radicalità. Un bel guazzabuglio, figlio anche dell’impatto avuto dalla globalizzazione sui territori, trasformati – anche in questo caso estremizzando le opposte visioni – in piccole patrie dai tratti romanticamente (iper)identitari, con l’ipotesi autarchica sullo sfondo, o in rami d’azienda che possono essere gestiti secondo le logiche delle economie di scala, dei costi standard, della riduzione, o peggio cancellazione, di tutti i corpi intermedi. Il tutto attraverso processi decisionali sempre più centralizzati e verticali.
Da dove partire quindi per sbrogliare questa matassa? Forse dovremmo cercare le motivazioni dell’autonomia nel futuro e non nel passato e rendere l’autogoverno un’utopia politica piuttosto che la riproposizione di miti etnici fondativi. Solo così potremo riconoscere le opportunità offerte da una futuribile gestione a più livelli della governance europea (con rinnovato spirito federalista) tentando di intestarci il “ruolo di sperimentatori curiosi di meccanismi democratici, partecipativi e inclusivi di autogoverno, in nome di un territorialismo cosmopolita capace di muoversi dentro le geografie variabili che il tempo che viviamo richiede.“ [1] Adriano Olivetti – nel suo “Ordine politico delle Comunità”, anno di pubblicazione 1944 – si esprimeva così a riguardo:
“Nè lo Stato né l’individuo possono da soli realizzare il mondo che nasce. Sia accettato e spiritualmente inteso un nuovo fondamento atto a ricomporre l’unità dell’uomo: la Comunità concreta.” [2].
Giuseppe De Rita [3], qualche anno dopo, ritornando sul tema della prossimità come concetto non solo geografico, ma sociale e politico, rilanciava la necessità di tornare al piccolo (ma non solo e isolato) come cellula di partenza ideale di un modo altro di intendere il ruolo della politica:
“E’ sul territorio che oggi si formano interessi e identità collettivi; è sul territorio che si esplica la voglia di viver bene su cui si radica oggi buona parte del consenso sociale; è sul territorio che si può richiamare la responsabilità di tutti (imprese, enti locali e singoli) a rilanciare lo sviluppo e a razionalizzare spese e interventi […]”
Bisogna ripartire dalla prossimità perché é lì che sta il valore. Serve ripartire dal vicino. Non perché vada riaffermata una tendenza al localismo, ma perché sarà solo descrivendo percorsi comuni che ricompongano comunità (ibride per composizione e destino, capaci di contaminarsi in maniera virtuosa per attitudine) che sapremo articolare riflessioni all’altezza delle sfide dell’interdipendenza globale e capaci di sorpassare la dimensione – troppo piccola e troppo grande nello stesso tempo – degli Stati nazionali, impegnati in questa fase storica a riaffermare la propria (pericolosa) centralità. Non chiusura o esclusività, non privilegio ma diffusa pratica dell’autogoverno e valorizzazione delle specificità di ogni contesto, arricchite da continuo dialogo e confronto.
Dialogo e confronto intesi come strumenti utili – ecco la seconda provocazione metodologica da cui muovere il “che fare” – ad accompagnare il pensiero e l’azione di una futura Europa federale ricompositiva di autonomie cooperanti per futuri scenari, valoriali e pratici, dai tratti condivisi piuttosto che concorrenti nella rilettura rancorosa e rivendicativa del proprio passato.
Questo modo di vedere le cose corrisponde alla domanda “E poi?” che pone Michele Kettmajer e alla proposta che Davide Buldrini, da Bruxelles, avanza invitandoci a essere produttori di un cambio di paradigma nell’avvicinarci ai concetti di Nazione e popolo:
“Cominciamo tutti quanti col non guardare solo il cortile di casa, e non pensare che la nostra identità finisca dove finisce il quartiere, il fiume o il confine della nostra nazione. Oltre i confini le identità si rafforzano e si arricchiscono a vicenda. E’ la natura umana. Perché nessun uomo è un isola. E non lo è nemmeno l’Europa.”
Gli accadimenti di questi giorni – gli arresti e la prova muscolare del governo spagnolo, l’indignazione delle autorità e dei cittadini catalani, la scadenza del prossimo primo ottobre – non hanno a che fare (solo) con il referendum che divide Barcellona e Madrid. Parlano ai territori che già sono autonomi e che, come nel caso trentino, vivono una crisi di crescita delle condizioni sociali, culturali e partecipative che sono alla base, molto più dei documenti formali, della specialità autonomistica. Parlano alle città – tra queste anche la Barcellona della sindaca Ada Colau – che negli ultimi anni sono state laboratorio per una nuova stagione municipalista, innovativa e sostenibile, solidale e inclusiva. Parlano alle aree interne, alle terre alte, alle zone (diventate) marginali che hanno subito processi di impoverimento, spopolamento e omologazione e che vedono nell’autogoverno una possibile via per riaffermare la propria particolarità e il proprio bisogno di attenzione e cura. Parlano a tutti quelli che credono ci sia bisogno di una stagione politica contemporaneamente territoriale ed europea, che respinga il riemergere dei sovranismi in nome di un nuovo modello democratico, aperto e orizzontale, caratterizzato da pratiche di responsabilità, di mutualismo, di reciprocità.
Ciò che sta succedendo – anche rispetto al prossimo referendum veneto/lombardo, che in molti osteggiano, sottovalutano o addirittura deridono – non va interpretato come un rischio per la tenuta delle entità statuali di tradizione novecentesca e, di conseguenza, dell’architettura europea, ma come uno stimolo per mettere entrambi positivamente sotto pressione. Per immaginare – in opposizione alla strenue difesa delle Costituzioni vigenti e dei confini nazionali, dell’integrità culturale e dell’omogeneità etnica – l’inizio di un percorso costituente che sappia coniugare autogoverno dei territori e sovranazionalità, cura per il Bene Comune che si riconosce all’interno di una propria comunità di destino e nuovo approccio cosmopolitico che ci vede tutti parte di una comunità sola che abbraccia il mondo intero.