"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Entrambi i governi stanno gettando benzina sul fuoco, chi con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza chi con l’uso della mano dura. Un’impasse che potrebbe avere conseguenze pesanti per tutti. Perché la crisi catalana è una declinazione della crisi di Stato che sta vivendo la Spagna. E può risolversi solo rinnovando il patto costituzionale del 1978. Ma per farlo serve il dialogo.
di Steven Forti
(6 ottobre 2017) Muro contro muro. Questo in sintesi è il riassunto della situazione catalana. Il governo di Mariano Rajoy continua arroccato nella difesa della legge e della Costituzione, mentre quello catalano tira dritto verso una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Non c’è dialogo. Non c’è mai stato. Perché è sempre mancata la volontà politica. La Politica, con la P maiuscola, è stata e continua ad essere inesistente, almeno tra le classi dirigenti di Barcellona e di Madrid. Ognuno responsabilizza l’altro, senza proporre nulla, senza offrire una via di fuga a un’impasse che potrebbe avere conseguenze pesanti per tutti. In primis, per la società.
È indubbio che il referendum dell’1 ottobre ha segnato un prima e un dopo nella questione catalana. L’entrata in scena della violenza inaccettabile della Guardia Civil e della Policía Nacional contro cittadini inermi – si calcolano oltre 900 feriti – che opponevano solo e unicamente resistenza pacifica ha cambiato le carte in tavola, mobilitando la cittadinanza e internazionalizzando la questione catalana. Ieri due importanti banche (Sabadell e La Caixa) hanno deciso di spostare la loro sede fuori dalla Catalogna, cosa a cui anche molte imprese e multinazionali stanno pensando. Le immagini che hanno fatto il giro del mondo hanno reso quello catalano un affare che non è più solo spagnolo, ma è anche europeo.
Un referendum o una mobilitazione popolare?
L’1 ottobre nessuno dei due governi ha raggiunto il proprio obiettivo perché il referendum si è effettivamente svolto – al contrario di quel che ripeteva instancabilmente il Partido Popular – ma la sua validità è praticamente nulla perché non c’è nessuna garanzia sui risultati – e dunque non si è votato “con normalità”, come ribadiva il governo catalano. Nel momento in cui si scrive questo articolo, non si hanno ancora i dati ufficiali: sappiamo solo che, secondo il governo catalano, hanno votato il 42% degli aventi diritto, pari a 2,2 milioni di persone. Di queste il 90%, ossia poco più di due milioni, hanno votato “sì”. Il portavoce del governo catalano, Jordi Turull, ha assicurato che non si sono potuti contabilizzare altri 770.000 voti per la chiusura dei seggi elettorali (più di 400 su oltre 2.300) o per la requisizione delle urne da parte della polizia spagnola. I dati sono da prendere con le pinze perché non c’è nessun organismo esterno, a parte il governo catalano, che li può certificare. Una cosa però è importante: né l’ONU, né l’UE hanno mandato degli osservatori internazionali poiché il referendum era incostituzionale. L’unico piccolo gruppo di osservatori, l’International Limited Observation Mission (Ilom) guidato dall’ex ambasciatore olandese Daan Everts e pagato dalla Generalitat catalana, ha comunque confermato che il referendum non rispetta gli standard internazionali per “i metodi anonimi e senza trasparenza utilizzati dall’amministrazione elettorale”. Il sistema informatico è stato bloccato per diverse ore, in molti seggi si segnavano a mano su un foglio di carta i nomi dei votanti, i controlli per sapere se la stessa persona aveva votato più volte erano di conseguenza inesistenti, in molti casi si sono trafugati i voti per timore che potesse arrivare la polizia a requisirli… Teniamo poi presente che il governo catalano un’ora prima dell’apertura dei seggi aveva cambiato le regole del gioco – stabilendo il censo unico – e che la giunta elettorale si era dimessa alcuni giorni prima del referendum per evitare di pagare la multa comminatagli dalla giustizia spagnola.
Il primo ottobre non è stato dunque un referendum, ma una grande mobilitazione popolare, una giornata di protesta che ha riunito una parte importante della società catalana. Non solo gli indipendentisti, ma anche chi, e non sono stati pochi, voleva condannare le dure misure del governo di Rajoy (l’arresto di 14 alti funzionari catalani, poi rilasciati; le perquisizioni in cerca di urne e schede elettorali; le denunce a sindaci che appoggiavano il referendum…) ed era scesa in strada per chiedere maggiore democrazia, a partire dal diritto di decidere del popolo catalano. Non è un caso che la sindaca di Barcellona Ada Colau, che si è sempre dichiarata non indipendentista, sia andata a votare. E come lei tanti altri. La riprova l’abbiamo avuta martedì con uno sciopero generale molto partecipato che ha riunito centinaia di migliaia di persone per condannare la violenza della polizia: non era raro vedere in strada, a fianco delle esteladas degli indipendentisti, anche bandiere spagnole e cartelli che chiedevano dialogo o che criticavano non solo Rajoy, ma anche Puigdemont.
Soffermiamoci ancora un momento, però, sui risultati del referendum. Anche se è indubbio che alcune migliaia di voti sono andati persi per le azioni della polizia – calcolare quanti è impossibile – sembra che l’indipendentismo non sia cresciuto molto. Nel macrosondaggio del 9 novembre 2014 i “sì” erano stati 1,86 milioni (pari a circa il 30% degli aventi diritto), mentre alle elezioni regionali catalane del 27 settembre 2015 i voti ai partiti indipendentisti – che avevano convertito le elezioni in una sorta di plebiscito sull’indipendenza – erano stati 1,97 milioni (pari al 47,8%). La società catalana è dunque molto spaccata: la maggioranza non vuole l’indipendenza. Sarà comunque importante capire se le immagini delle cariche della polizia nei seggi dell’1 ottobre porteranno maggiori voti all’indipendentismo.
Una dichiarazione unilaterale d’indipendenza?
È evidente che nessuno sa leggere la realtà, almeno tra chi sta al governo a Madrid o a Barcellona. Rajoy ha dichiarato che il referendum non si è realizzato e ha invitato il governo della Generalitat a rientrare nei confini della legalità e del rispetto della Costituzione. Il premier spagnolo non vuole accettare che questo è un problema politico, che non si risolve solo con i tribunali o con la polizia: è necessario tentare di riconquistare con un’offerta politica e un nuovo progetto condiviso quella fetta importante della società catalana che vuole abbandonare la Spagna. Dal canto suo, il presidente catalano Puigdemont ha dichiarato che porterà al Parlamento regionale i risultati del referendum, il che implica, secondo la Legge del Referendum di Autodeterminazione approvata a inizio settembre, che nelle 48 ore successive si deve dichiarare l’indipendenza della Catalogna. Puigdemont non vuole rendersi conto che non si può continuare sulla strada dell’unilateralità, quando per di più oltre la metà dei catalani sono contrari all’indipendenza. Il fatto è che i due governi sono incastrati nelle strategie e nei discorsi che si sono costruiti senza la capacità di cambiare direzione. Sono dei sonnambuli, riprendendo l’immagine che lo storico Christopher Clark ha coniato per descrivere i governanti europei che portarono allo scoppio della Grande guerra.
È difficile prevedere che cosa succederà nei prossimi giorni. Tutto è estremamente liquido, oltre che incredibilmente veloce. È stata convocata una sessione straordinaria del Parlamento catalano per lunedì, in cui si potrebbe dichiarare unilateralmente l’indipendenza. Ieri però il Tribunale Costituzionale ha annullato la sessione, dopo un ricorso presentato dai socialisti catalani: secondo diverse fonti, non ci sarà la polizia a bloccare l’ingresso ai deputati indipendentisti nella Camera di Barcellona; semplicemente la sessione non avrà nessun valore giuridico. Si acuirebbe però in questo modo lo scontro tra legalità catalana e legalità spagnola, come si è visto negli ultimi mesi. Stamattina poi Puigdemont ha chiesto di poter comparire martedì nel Parlamento catalano, senza fare accenno alcuno a una possibile dichiarazione unilaterale di indipendenza.
Il fatto è poi che le formazioni indipendentiste sono molte divise sul da farsi. Gli anticapitalisti della Candidatura d’Unitat Popular (CUP) spingono per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza immediata; settori del Partit Demòcrata Europeu Català (PDeCAT), la destra guidata dal presidente Puigdemont, preferirebbero dilatare il più possibile i tempi nella speranza dell’avvio di negoziati, possibilmente con la mediazione internazionale; Esquerra Repubblica de Catalunya, l’altro socio di governo, mantiene un profilo basso al riguardo. Aumentano le voci di una dichiarazione d’indipendenza che non entrerebbe in vigore subito, ma solo dopo tre o sei mesi. Nel mezzo si potrebbero convocare nuove elezioni regionali con l’obiettivo da parte degli indipendentisti di ottenere una maggioranza non solo in seggi – come in questa legislatura – ma anche in voti. E si potrebbero aprire spiragli per dei negoziati, dimostrando alle proprie basi ipermobilizzate che non si è fatto nessun passo indietro. Dichiarare unilateralmente l’indipendenza però toglierebbe la legittimità internazionale che l’indipendentismo si è guadagnato l’1 ottobre: nessun governo riconoscerebbe mai il nuovo Stato e le istituzioni europee, che hanno sempre ribadito il loro appoggio a Rajoy, chiuderebbero qualunque possibilità – già di per sé estremamente difficile – di porsi come mediatori nel conflitto.
Il punto però è che a Madrid non c’è nessuna intenzione di fare un’offerta politica all’indipendentismo, possibilità che si concepisce come una sconfitta. Rajoy ha deciso di usare la mano dura e il re Felipe VI, nel discorso alla nazione di martedì sera, non si è scostato dalla linea del governo del PP: nessuna menzione al dialogo, ma solo la condanna del modus operandi degli indipendentisti che si sono posti “al di fuori del diritto e della democrazia”, mostrando una “slealtà inammissibile” nei confronti delle istituzioni spagnole. Ciudadanos, il partito di centro-destra che appoggia Rajoy, ha chiesto al governo l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione che prevede l’assunzione di alcune competenze regionali da parte dello Stato centrale. La stessa richiesta fatta dalla destra del PP, con Aznar nell’ombra, che crea non pochi grattacapi a Rajoy che nel suo partito, è bene ricordarlo, non rappresenta il settore più a destra. Il PSOE è invece immobile: Pedro Sánchez, che è l’ago della bilancia nel caso di una mozione di sfiducia nelle Cortes di Madrid, ha condannato le violenze della polizia, ma si è allineato con il governo nella difesa della legalità. Un colpo al cerchio e uno alla botte, preoccupato di essere defenestrato una seconda volta: Susana Díaz e la vecchia guardia socialista, dopo lo smacco della sconfitta nelle primarie di maggio, aspettano un passo falso di Sánchez per impallinarlo.
In caso di una dichiarazione unilaterale di indipendenza, differita o meno, è praticamente sicuro che il governo applicherebbe l’articolo 155. Si tratterebbe di una parziale sospensione dell’autonomia catalana che avrebbe una duplice conseguenza: da un lato, il governo centrale potrebbe sciogliere il parlamento catalano e convocare nuove elezioni regionali con la possibilità, da non scartare, dell’illegalizzazione dei partiti indipendentisti (come si fece nei Paesi Baschi nei decenni passati); dall’altro lato, fomenterebbe le proteste non solo degli indipendentisti, ma anche di molti non indipendentisti. Entrambi i governi stanno gettando benzina sul fuoco, chi con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza chi con l’uso della mano dura e la minaccia dell’applicazione dell’articolo 155. Ed entrambi ne sono coscienti, ma nella loro ottusa cecità sono convinti che si rafforzeranno.
Una società più intelligente dei propri governanti
In questi giorni non mancano però iniziative a favore del dialogo. Stanno nascendo spontaneamente nella società come “Hablamos?” [“Parliamo?”], lanciata attraverso le reti sociali, che invita i cittadini a manifestare nelle piazze principali di tutta la Spagna sabato a mezzogiorno, portando delle bandiere bianche. Ricorda in un certo qual modo il modo di convocare manifestazioni del 15-M, il movimento degli indignados. Che cosa diranno Rajoy e Puigdemont se sabato ci saranno centinaia di migliaia di spagnoli che chiedono il dialogo occupando le piazze di mezza Spagna?
Ma si sta muovendo anche l’associazionismo, sempre molto vivo in Catalogna: il Col.legi d’Advocats insieme ad altre nove entità si è proposto come mediatore e sta già lavorando a un testo. Anche il Barça si è detto disponibile. Nel frattempo la Chiesa, che già la settimana scorsa aveva reso pubblica una dichiarazione in cui invitava al dialogo, non è rimasta con le mani in mano: l’arcivescovo di Barcellona, Juan José Omella, si è incontrato con Rajoy e con il vicepresidente catalano, Oriol Junqueras.
Ma c’è anche chi cerca di fare politica tra i partiti spagnoli. Il presidente basco Íñigo Urkullu – il cui partito ha votato la finanziaria del governo Rajoy pochi mesi fa – si è proposto come mediatore alla Commissione Europea. Unidos Podemos si era mosso in anticipo: la settimana prima del referendum aveva convocato a Saragozza un’assemblea di parlamentari e sindaci per trovare una via d’uscita alla crisi catalana. Oltre alle confluenze legate al partito di Iglesias (En Comú Podem, En Marea), hanno partecipato anche il Partido Nacionalista Vasco e gli indipendentisti catalani del PDeCAT e di ERC. La Dichiarazione di Saragozza, firmata dai rappresentanti politici di 6,5 milioni di elettori, è la base da cui partire: dialogo, diritto di decidere dei catalani, accordo per un futuro referendum accordato con lo Stato. Nei giorni scorsi si sono sommati anche i due grandi sindacati spagnoli, Comisiones Obreras e UGT. Iglesias si è proposto come mediatore a Rajoy (che ha rifiutato). Anche la sindaca di Barcellona Ada Colau si è attivata: ha convocato i consoli residenti in città e ha chiesto una mediazione europea. Intanto mercoledì il Parlamento di Strasburgo ha discusso a lungo sul referendum catalano e si sono levate voci di condanna all’operato di Rajoy.
La crisi catalana è una declinazione della crisi di Stato che sta vivendo la Spagna. Una crisi multilivello che ha fatto entrare in cortocircuito il sistema politico nato durante la transizione alla democrazia alla fine degli anni Settata. Di avvisaglie ne avevamo avute molte: il movimento degli indignados, la fine del bipartitismo, l’abdicazione del re Juan Carlos I e, ovviamente, la nascita di una forte rivendicazione indipendentista in Catalogna. È sempre più necessario rinnovare il patto costituzionale del 1978. Si parla non a caso di una “seconda transizione”. Ma per farlo serve il dialogo. Se si aspetta ancora, il rischio è quello di dover raccogliere i cocci di una società fratturata.
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