"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
La società catalana è fortemente polarizzata sulla questione nazionale e il rischio di una frattura è reale: ricucire le ferite potrebbe costare anni, se non generazioni. Ma non è possibile affrontare la questione con arresti e carcere, bisogna avviare un vero dialogo politico che miri ad una riforma della Costituzione e alla possibilità della celebrazione in Catalogna di un referendum di autodeterminazione accordato sullo stile scozzese.
di Steven Forti *
(3 novembre 2017) Tutto è incerto in Catalogna. Tutto traballa. O forse no. Tutto rimane uguale. Quel che è certo è che gli avvenimenti delle ultime settimane, conclusisi con una dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte del governo catalano e con l’applicazione dell’articolo 155 da parte del governo spagnolo, rappresentano una cesura. Il Procés sobiranista – come viene chiamato in Catalogna – è finito. O almeno è finita una fase, lunga e ambigua, di questo processo. Ne inizia ora un’altra, su cui nessuno si azzarda a fare pronostici. Per quanto la situazione sia estremamente liquida e non è da escludere una nuova escalation – soprattutto dopo gli arresti dei membri del governo catalano decretata ieri dalla giudice dell’Audiencia Nacional Carmen Lamela – possiamo però cercare di capire quello che è realmente successo e delineare i possibili scenari futuri.
Due mesi di fuoco…
In primis è importante analizzare quest’ultima intensa fase, che si è aperta a inizio settembre con l’approvazione da parte del Parlamento catalano – con una maggioranza assoluta, e non qualificata, e senza il rispetto delle minime regole democratiche – delle leggi del Referendum e di Transitorietà giuridica. Dopo anni di tira e molla, di dichiarazioni altisonanti ma di poche decisioni reali, è stato in quei giorni che l’indipendentismo – che governava con una maggioranza in seggi, ma non in voti – ha deciso di accelerare, giocandosi il tutto per tutto. L’unico vero obiettivo era quello di provocare la reazione dello Stato spagnolo nella speranza di ampliare le proprie basi di consenso.
E così è stato, almeno parzialmente, nelle settimane successive: le dure e controproducenti misure adottate dal governo di Madrid – arresto di 14 alti funzionari del governo catalano il 20 settembre, violento intervento della polizia durante il referendum unilaterale dell’1 ottobre, ecc. – hanno fatto il gioco dell’indipendentismo, dimostrando la poca finezza politica del premier Mariano Rajoy. Ma la finezza non è di casa nemmeno in Catalogna. Prova ne è la decisione da parte del governo catalano di continuare sulla via dell’unilateralità, prendendo per buoni i risultati di un referendum di autodeterminazione senza alcuna garanzia e in cui ha votato solo il 42% degli aventi diritto. Dopo due settimane di bizantinismi tra dichiarazioni sospese e lettere tra i due esecutivi dal sapore ottocentesco, in pochi giorni l’indipendentismo ha dilapidato le simpatie che era riuscito a raccogliere a livello internazionale, con un’opinione pubblica europea empatica con la causa catalana.
La dichiarazione unilaterale d’indipendenza votata dal Parlamento catalano lo scorso 27 ottobre è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Un’indipendenza che, detto en passant, non è nemmeno stata ufficialmente dichiarata: i deputati indipendentisti hanno votato in realtà una risoluzione che chiedeva al governo catalano di rendere effettiva la dichiarazione votata, cosa che nelle ore successive l’esecutivo, immediatamente sospeso da Rajoy, non ha fatto. Ma al di là di questo, nessuno in Europa e nemmeno nel resto del mondo – se si esclude un deputato dell’Ossezia del Sud e la ambivalente ambiguità di Israele – ha riconosciuto la nuova Repubblica catalana. Un tonfo nell’acqua, nulla più. Se a ciò si somma la fuga di imprese e banche – quasi 2.000 nell’ultimo mese, pari a oltre il 30% del Pil catalano – si comprende ancora meglio l’irresponsabilità di chi ha fatto fare alla regione più ricca della Spagna (19% del Pil spagnolo) un salto nel vuoto senza aver previsto i danni. Senza appoggi internazionali, senza il favore di una maggioranza chiara della popolazione e senza l’imprimatur del potere economico dichiarare l’indipendenza in modo unilaterale è stato un suicidio in piena regola. Il governo catalano privo di un piano, di una strategia e delle “strutture di Stato” a cui diceva di lavorare da un biennio si è affidato solo e unicamente alle mobilitazioni popolari, senza fare i conti con la realtà. Un mix di ingenuità e irresponsabilità senza paragoni.
Altre due cose sono sintomatiche. La prima: il giorno della votazione della dichiarazione unilaterale d’indipendenza le persone che erano in piazza a festeggiare non erano poche – si parla di 30mila persone –, ma nemmeno molte se si pensa che per l’indipendentismo si trattava del giorno tanto atteso. La seconda: l’impreparazione del governo catalano si è palesata nei giorni successivi. Rajoy ha giocato bene le sue carte: alla decisione del premier spagnolo di sciogliere immediatamente il Parlamento catalano e di convocare elezioni regionali per il prossimo 21 dicembre – accorciando così il più possibile il periodo di gestione della regione autonoma da parte del governo centrale, secondo l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, approvato poche ore prima dal Senato – l’esecutivo indipendentista ha risposto prima con il silenzio, poi in modo contraddittorio. Da una parte, il presidente Puigdemont è scappato a Bruxelles, accompagnato da alcuni assessori del suo governo, considerandosi ancora il presidente legittimo (per quanto destituito dal governo di Madrid) e cercando di internazionalizzare la questione catalana, al prezzo di mettere a rischio la fragile stabilità politica belga. Dall’altra parte, una metà del governo catalano, tra cui il vicepresidente Junqueras, è rimasta a Barcellona, accettando implicitamente la propria destituzione, mentre i partiti indipendentisti hanno dichiarato che parteciperanno alle elezioni convocate da Rajoy. La confusione è totale tra chi aveva promesso il raggiungimento della terra promessa in modo rapido e indolore.
… e una settimana cruciale
È estremamente difficile poter prevedere cosa succederà ora. L’unica certezza è data dalle elezioni del prossimo 21 dicembre. Sarà allora che si giocherà una partita fondamentale. La prossima settimana è cruciale al riguardo.
In primo luogo, bisogna capire come si presenterà l’indipendentismo: si manterrà la coalizione di Junts pel Sí (JxSí), formata dal Partit Demòcrata Europeu Català (PDeCAT), da Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e da figure della società civile riconducibili all’associazionismo indipendentista? I due partiti sono ai ferri corti da tempo e le tensioni, esistenti da tempo, possono esplodere. Dentro il PDeCAT, estremamente diviso al suo interno, c’è chi spinge per abbandonare la coalizione con ERC e recuperare una propria identità, come l’ex assessore Santi Vila che si è dimesso poche ore prima della votazione della dichiarazione unilaterale d’indipendenza (e per questo non è stato arrestato ieri). Ma c’è anche chi, come Puigdemont, il cui futuro è estremamente incerto – ancora di più dopo il mandato d’arresto europeo richiesto ieri dalla giudice dell’Audiencia Nacional Carmen Lamela –, vorrebbe che l’indipendentismo si presentasse unito. Per quanto riguarda ERC si sa poco: il partito di Junqueras aspira ad essere il più votato – lo confermerebbero tutti i sondaggi – e punterebbe a presentarsi da solo, ma la pressione delle associazioni indipendentiste è notevole. Il 7 novembre, giorno in cui si devono presentare le coalizioni che parteciperanno alla tornata elettorale, avremo la risposta. Se finalmente l’indipendentismo si presenta unito, si dovrà poi decidere chi sarà il candidato – c’è tempo fino al 19 novembre –: difficile che sia Puigdemont che aveva promesso di non presentarsi in futuro, anche per la sua situazione; impossibile che sia Artur Mas, ancora inabilitato dopo la condanna per la realizzazione del multisondaggio del 9 novembre del 2014; possibile che siano Jordi Sánchez e Jordi Cuixart, i presidenti delle due associazioni indipendentiste, incarcerati da due settimane per i fatti del 20 settembre scorso.
In secondo luogo, sarà fondamentale capire come risponderanno le basi indipendentiste. Dopo una settimana di silenzio, in cui la parola d’ordine è stata unicamente “pazienza e fiducia nei nostri leader”, ieri la ANC e Òmnium Cultural hanno convocato delle concentrazioni in difesa dei membri del governo catalano che hanno dichiarato in tribunale a Madrid accusati dei delitti di sedizione e ribellione e per cui nel pomeriggio è stata chiesta la detenzione preventiva senza cauzione. La risposta è stata tenue, ma ciò non significa che nei prossimi giorni non vi siano manifestazioni di maggiore entità. Puigdemont ha deciso di giocare la carta del vittimismo, denunciando quella che considera la repressione del governo di Madrid. Sarà sufficiente per rianimare le proprie basi? Ciò che è certo è che l’arresto dei membri del governo catalano faciliterà il lavoro a un indipendentismo ancora scombussolato dagli ultimi avvenimenti.
In terzo luogo, bisognerà vedere che cosa faranno gli altri partiti. La proposta lanciata dalla leader di Ciudadanos Inés Arrimadas di creare un fronte costituzionalista – insieme a socialisti e popolari – non ha prosperato: i tre partiti, dunque, si presenteranno da soli. Gli anticapitalisti indipendentisti della Candidatura d’Unitat Popular (CUP), che in un primo momento avevano snobbato le elezioni dicendo che avrebbero organizzato una paella popolare, decideranno in assemblea questo fine settimana se partecipano oppure no. Anche per lo spazio dei Comunes saranno giorni cruciali: se da un lato, Catalunya en Comú – la confluenza guidata dalla sindaca di Barcellona Ada Colau e formata da Barcelona en Comú, Iniciativa per Catalunya Verds, Equerra Unida i Alternativa e alcuni settori di Podem – ha già deciso di presentarsi e ha proposto come candidato Xavier Domènech, attualmente deputato alle Cortes di Madrid, dall’altro lato Podem – la federazione catalana del partito di Iglesias – non ha ancora chiaro che cosa farà. Albano Dante Fachín, segretario generale di Podem, non ha scartato un’alleanza con i partiti indipendentisti: Iglesias, assolutamente contrario, ha immediatamente convocato una consultazione interna proponendo che Podem si presenti alle elezioni insieme a Catalunya en Comú. Anche in questo caso il 7 novembre avremo la risposta.
In quarto luogo, sarà importante capire la capacità di mobilitazione di chi è contrario all’indipendenza. Come risponderà quella che molti definiscono la “maggioranza silenziosa”? Mai a Barcellona c’erano state partecipate manifestazioni a favore dell’unità della Spagna. Le cose sono cambiate nell’ultimo mese: almeno 350mila persone sono scese in strada l’8 ottobre e anche sabato scorso. Non è poco. Come risponderanno questi settori della popolazione catalana a una campagna elettorale che si annuncia estremamente combattuta? Il livello di partecipazione sarà importantissimo, anche se è da tenere conto che all’ultima tornata elettorale, nel settembre del 2015, votò il 75% e sarà difficile superare questa soglia.
Uscire dall’impasse
Mentre la società cerca di recuperarsi da due mesi di fuoco e i partiti decidono che cosa fare, iniziano a essere pubblicati i primi sondaggi. Per quanto siano da prendere con le pinze, confermano una possibilità da tenere molto presente: che tutto rimanga come nell’ultimo biennio. I partiti indipendentisti riuscirebbero a mantenere la maggioranza assoluta (68-72 seggi su un totale di 135) grazie alla legge elettorale che favorisce le zone rurali della regione, dove l’indipendentismo è più forte, ma non otterrebbero la tanto ambita maggioranza in voti, mentre le altre formazioni non guadagnerebbero né perderebbero granché.
Ci sono molte incognite, certo, ma non è da scartare uno scenario di questo tipo. In fin dei conti, è quello che dimostrano anche i risultati dell’ultimo lustro in Catalogna, sia delle elezioni regionali (2012 e 2015) sia dei referendum sull’indipendenza (2014 e 2017): esiste uno zoccolo duro indipendentista che rappresenta il 40-45% della popolazione e, a meno di grandi stravolgimenti nelle prossime settimane, questa percentuale non cambierà. Ci si potrebbe trovare, dunque, in una situazione simile a quella del film “Ricomincio da capo” con Bill Murray, in cui il protagonista riviveva continuamente la stessa giornata.
Il che porta a una doppia riflessione conclusiva. In primo luogo, la società catalana è fortemente polarizzata sulla questione nazionale e il rischio di una frattura è ormai reale. Non solo in ambito politico, ma anche in ambito lavorativo, nelle famiglie, tra gli amici. Ricucire le ferite potrebbe costare anni, se non generazioni. In secondo luogo, l’indipendentismo continuerà ad essere un attore politico in futuro, non sparirà da un momento all’altro. Non è dunque possibile, come ha fatto e come continua a fare il governo del Partito Popolare, affrontare questa questione solo con i tribunali. L’applicazione dell’articolo 155 non è una soluzione. E men che meno lo è la decisione di ieri di arrestare i membri del deposto governo di Barcellona. Quello catalano è un problema politico, che riguarda tutta la Spagna, un paese che sta vivendo una crisi multilivello profonda: è necessario avviare un vero dialogo politico – completamente assente nell’ultimo lustro – con la proposta di soluzioni che permettano di superare un’impasse che potrebbe essere eterna, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Iniziando da una riforma della Costituzione e valutando la possibilità della celebrazione in Catalogna di un referendum di autodeterminazione accordato sullo stile scozzese nel futuro prossimo.
Tutto è possibile. Basta che ci sia la volontà politica, degli uni e degli altri. Senza perdere altro tempo. Senza scaldare di più gli animi. Senza mettere ancora di più a rischio le istituzioni catalane recuperate dopo la fine della dittatura franchista. Senza usare solo i tribunali per risolvere un problema che è politico. Senza rischiare di portare un paese europeo verso il baratro.
* Professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Insituto de Hitòria Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa. Autore con Arnau González i Vilalta ed Enric Ucelay-Da Cal (Eds.) di El proceso separatista catalán. Análisis de un pasado reciente (2006-2017).
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