"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Nei giorni scorsi si è svolto a Cagliari un interessante dibattito dal titolo "La questione sarda: indipendenza, autonomia, Europa dei popoli”. L'incontro, organizzato dall’associazione SardegnaEuropa, aveva come obiettivo quello di focalizzare la “Questione Sarda” nel contesto spazio temporale europeo. All'incontro (vedi locandina in allegato) ha partecipato fra gli altri anche Lorenzo Dellai il cui intervento riporto volentieri.
di Lorenzo Dellai
Il nostro è un Paese strano, anche per quanto riguarda i temi dell'autonomia dei territori e del regionalismo.
Un anno fa - difronte alla Riforma Costituzionale - l'opinione nettamente prevalente era che "finalmente" si sarebbe modificato il Titolo V del 2001, perché era stata una fuga in avanti e serviva ricostruire un più forte potere centrale. Quella Riforma fu poi bocciata dal Referendum, ma non certo per contrarietà a questo punto, che anzi era da quasi tutti ritenuto necessario.
A un anno di distanza, si celebrano due Referendum Regionali che invece chiedono di attuare quel Titolo V ed altre Regioni stanno dichiarando la volontà di procedere in questa direzione pur senza convocare consultazioni popolari. Siamo un Paese schizofrenico.
Del resto, tutta la partita del Regionalismo in Italia è stata gestita senza un disegno compiuto. L'impianto dello Stato è rimasto fortemente centralista e l'introduzione delle Regioni Ordinarie nell'ordinamento – non a caso attivato con notevole ritardo dalla previsione costituzionale – non ha comportato un ripensamento del modello istituzionale centrale.
Si è semplicemente aggiunto un livello intermedio, senza un progetto organico di Stato Autonomista. Uso il termine "federale" con molta cautela, visto l'uso improprio che di questo nobile termine è stato fatto dagli anni novanta in poi, sopratutto al Nord, dove è stato declinato con un inconcludente "padanismo" ammantato di pulsioni orientate all'egoismo territoriale più che ad un modello avanzato di democrazia.
La scommessa coraggiosa compiuta nel 2001 con il nuovo Titolo V della Costituzione non è stata né colta né interpretata al meglio. Eppure esso conteneva non solo principi di autonomia se non di federalismo, ma anche un meccanismo che avrebbe potuto rappresentare una grande opportunità: quello delle materie concorrenti.
La proposta di Riforma bocciata il 4 dicembre scorso eliminava questa previsione, sulla base del fatto che essa non aveva funzionato.
Ma era una scommessa di grande significato: l'idea di competenze "condivise" poteva essere la vera prospettiva di fronte ad una realtà sociale, territoriale ed economica sempre più complessa, che richiede sempre più integrazione delle responsabilità, condivisione dei progetti, cultura pattizia.
Naturalmente, questo presupponeva una forte ed autorevole guida nazionale, consolidate competenze tecniche a livello regionale, visione e responsabilità politiche che invece hanno fatto difetto: al Sud, al Centro come al Nord, le Regioni potevano chiedere di attuare l'art. 116 della Costituzione con progetti innovativi e non l'hanno fatto.
E' su questa rete istituzionale già fragile e contraddittoria che si è venuta a scaricare la grande crisi della finanza pubblica attorno al 2008/2009. Essa ha agito come acceleratore dei processi di centralizzazione delle responsabilità ad ogni livello, mettendo a serio rischio ogni percorso di autonomia diffusa. Il mantra prevalente è stato quello della semplificazione e del recupero di efficienza attraverso la concentrazione dei poteri e delle responsabilità di spesa.
Ciò si è combinato con la costruzione di un gigantesco apparato normativo di controllo sia finanziario che di legittimità e di legalità. Cosa – quest'ultima – assolutamente sacrosanta, ma tradotta in Italia con misure e regole del tutto irrazionali e deresponsabilizzanti, fino al punto che oggi l'atteggiamento più saggio e prudente per un pubblico funzionario onesto risulta essere quello di non far nulla per tutelarsi e non correre rischi.
Questa spinta alla centralizzazione dei poteri e delle responsabilità in capo allo Stato Centrale – oltre che inefficace – si mostra anche illusoria. Si è pensato di investire tutto sulla dimensione dello Stato mentre i processi globali stavano mettendo in discussione proprio la centralità degli Stati Nazionali nel loro tradizionale assetto.
La globalizzazione dei fenomeni economici, tecnologici e culturali sta erodendo la sovranità degli Stati Nazionali sotto due profili. In primo luogo dall'alto, poiché le vere decisioni economiche, finanziarie e strategiche sono sempre meno nelle mani del livello nazionale. In secondo luogo, dal basso, perché sempre più i cittadini – spaesati da una globalizzazione che appare dominio di poteri sconosciuti e non controllabili – ricercano approdi di identità e di appartenenza in ambiti sub nazionali.
Oppure cadono nella trappola populista del ritorno ad un nazionalismo sovranista che però, come sappiamo bene, non è più ormai in grado di garantire alcuna forma reale e credibile di protezione economica e sociale o di tutela sul piano della sicurezza.
Si sta creando un mix piuttosto insidioso.
Scricchiola in molte parti di Europa la coincidenza tra Stato e Nazione; la democrazia rappresentativa fatica a rispettare la promessa di benessere attorno alla quale si è realizzato il grande compromesso tra mercato e giustizia sociale; le nuove tecnologie della comunicazione cambiano il senso del tempo e dello spazio; la politica arranca nella sua capacità di indicare mete comuni e sintesi efficaci nella mediazione tra percezione dei diritti individuali ed esercizio dei doveri di solidarietà.
Penso che gli Stati Nazionali abbiano davanti solamente una prospettiva per ritrovare la propria legittimazione. Da un lato cedere sovranità all'Europa, senza se e senza ma, se vogliono concorrere a governare i processi globali. Dall'altro, cedere sovranità ai territori, con coraggio e coerenza, se vogliono ricomporre il rapporto "sentimentale" oltre che materiale con i propri cittadini spaesati e impauriti.
E' solamente su questo sentiero che si può trovare e praticare la "terza via" tra indipendentismo e nazionalismo statalista, che sono due facce della stessa medaglia: quella della crisi della politica e della sua proiezione istituzionale.
Tra statalismo e separatismo l'unica alternativa democratica praticabile è quella di una nuova concezione della sovranità: anzi, potremmo dire, quella del superamento del concetto di sovranità come ci deriva dalla storia dell'otto e novecento in favore di una idea di interdipendenza e di autonomie intrecciate e condivise.
Gli scricchiolii che si avvertono da più parti in Europa dovrebbero farci riflettere in questo senso. Ma i segnali non sono incoraggianti.
Personalmente, ad esempio, credo che il Governo di Madrid si sia mosso con pericolosa approssimazione e miopia: per questo, pur vedendo i tratti evidenti della loro indole all'avventura, non posso che essere solidale con i legittimi rappresentanti della Comunità Autonoma Catalana oggi sottoposti addirittura a misure di limitazione della libertà che fanno pensare al peggio.
C'è una esperienza in Italia che può essere un importante laboratorio per costruire questa "terza via". Sono le nostre Autonomie a Statuto Speciale.
Invece che sottoporle ad una inaudita e pregiudiziale polemica (copiosa ormai da anni da parte di molta classe politica e di quasi tutti i salotti del potere mediatico) esse andrebbero guardate come un esempio di come si possono affrontare fasi delicate come quella che stiamo vivendo.
Sappiamo bene che non sempre e non ovunque esse sono state all'altezza delle aspirazioni, dei sogni e dei valori espressi dai Padri Fondatori. E tuttavia marcano un sentiero che non possiamo abbandonare.
Mi è capitato di leggere in questi giorni un recentissimo saggio dei professori Gianmario Demuro (vostro concittadino) e Robert Louvin, nel quale ripropongono la testimonianza culturale, morale e politica di due grandi Padri dell'Autonomismo: Emile Chanoux ed Emilio Lussu.
Due personaggi molto diversi, che scrissero pagine di straordinario valore e di enorme attualità a proposito di Valle d'Aosta e di Sardegna uniti nella comune visione di un autonomismo integrale, inteso come unica via per la costruzione di uno Stato veramente democratico.
Emilio Lussu, nel saggio sul Federalismo del 1933, scrive: «L'Autonomia deve essere l'idea animatrice della rivoluzione antifascista democratica. Una tirannide non la si può combattere vittoriosamente che nel nome della libertà: né si può parlare di libertà col proposito di sopprimerla poi. Teocrazia, paternalismo, dittatura, centralismo burocratico totalitario sono per noi termini analoghi. Secondo essi tutto un popolo deve marciare a passo militare o di processione dietro l'Unto del Signore o l'inviato della Provvidenza o il Genio della stirpe o il Principe degli archivi; tutto viene dall'alto. Autonomia significa esattamente il contrario. Tutto deve venire dal basso: le capacità e le forze si esprimono e sviluppano alla base. Senza questo, il concetto di libertà è una chimera».
«L'autonomia concepita come decentramento – aggiungeva – non è più autonomia: gli autonomisti della Sardegna, della Sicilia e del Mezzogiorno in genere si chiamavano autonomisti perché per autonomia intendevano dire federazione, non già decentramento».
Lo stesso spirito si coglie leggendo la Dichiarazione dei Rappresentanti delle popolazioni alpine, del 1943, più nota come Carta di Chivasso.
Naturalmente conosco di più il caso della mia Regione e delle due Provincie Autonome che la costituiscono. Dall'Accordo di Parigi tra Alcide Degasperi e Karl Gruber, ministro degli Esteri Austriaco, nel 1946, si è avviato un lungo percorso di sviluppo sociale ed economico e sopratutto si è evitato che l'area attorno al Brennero potesse deragliare verso situazioni di conflitto e di scontro a base etnica.
Contro gli opposti nazionalismi, abbiamo costruito una situazione di equilibrio e di convivenza di forte respiro europeo. Non era scontato. Altrove, in Europa, non è andata così.
Ma non voglio evocare solo questi aspetti di natura storica, benché come sappiamo il tarlo del nazionalismo e dello scontro è sempre all'opera e richiede di non scordare mai ciò che abbiamo alle spalle.
Voglio anche rivendicare tutto il percorso della nostra Speciale Autonomia sul piano delle politiche concrete messe in campo in questi decenni sopratutto attraverso lo strumento formidabile delle Norme di Attuazione dello Statuto.
Con quelle emanate negli ultimi anni, sono state trasferite all'Autonomia funzioni e competenze di fondamentale importanza, che sfiorano la sfera di una sorta di "statualità": la scuola, con tutto il suo personale insegnante; il lavoro; l'università statale; la gestione amministrativa della Giustizia, solo per citarne alcune che sono andate ben oltre la stessa definizione dello Statuto.
E anche sotto il profilo finanziario, si sono raggiunti patti importanti con lo Stato, all'insegna della responsabilità e della solidarietà verso il Paese, non meno che dell'autonomia finanziaria.
Le nuove competenze assunte, infatti, sono tutte a carico totale della finanza dell'Autonomia e di conseguenza hanno sgravato il bilancio dello Stato di somme considerevoli. Il concorso delle due Province Autonome al riequilibrio della finanza pubblica nazionale è stato definito con regole chiare e trasparenti e il continuo tentativo degli apparati statali di metterle in discussione in via surrettizia ha trovato normalmente la sanzione della Corte Costituzionale.
Voglio ancora segnalare che questo percorso si è accompagnato alla progressiva costruzione di un originale quadro di collaborazione transfrontaliera tra le due Province Autonome di Trento e Bolzano ed il Land Tirolo. Anche questa esperienza credo sia di grande interesse e sopratutto di forte respiro europeo.
Ribadisco con grande convinzione che la strada delle Autonomie Speciali è tutt'altro che da abbandonare e men che meno da "normalizzare".
Ma le sfide sono tante ed insidiose. E non solo per il ricordato spirito centralista del nostro apparato statale e di gran parte dei poteri politici nazionali. Ci sono anche le sfide che derivano dai nostri territori, dalle nostre comunità. Essere abitatori e costruttori di Comunità Autonome è un impegno spesso gravoso. Comporta assunzione di rischi e di responsabilità. Richiede la voglia e la capacità di inventare cose nuove e di aprire piste inesplorate.
Non esiste l'Autonomia Speciale "fotocopia". E neppure quella della sola lamentela e della pura pretesa. Serve una comunità che riscopra ogni giorno il proprio spirito di appartenenza e rinnovi la propria scommessa su un destino collettivo.
Prima della Costituzione formale (in questo caso, i nostri Statuti) deve essere viva e costantemente alimentata la Costituzione materiale, cioè il peculiare modo di essere della società, con i suoi valori e la sua "anima".
Sempre Emilio Lussu, nello stesso saggio del 33, ammoniva: «L'Autonomia è coscienza di se stessi, consapevolezza della propria funzione, conquista e difesa delle proprie posizioni etiche, sociali e politiche che consente il più ampio sviluppo delle proprie capacità individuali e collettive in ogni campo».
Questa visione, che richiama – seppur da altre coordinate ideali – le concezioni cristiano sociali mitteleuropee alla quali si era formato, durante l'Impero, il mio conterraneo Alcide Degasperi, offre della scommessa autonomista una prospettiva non solo freddamente istituzionale, ma anche sociale. Afferma cioè il primato della persona, della comunità, delle formazioni sociali attraverso le quali si esprime una democrazia che non voglia diventare vuota di valori e disconnessa dal suo popolo.
Ma anche la politica deve essere all'altezza della Specialità. Non solo con l'intelligenza, la correttezza e la sapienza nel gestire i poteri rilevanti di cui dispone, ma anche con la capacità di immaginarsi e strutturarsi non semplicemente come "emanazione" locale di apparati politici nazionali. Serve piuttosto che essa dimostri nei fatti che il territorio – specie se organizzato in forma di una Comunità Autonoma – non è un consumatore, ma un produttore di politica.
Permettetemi una notazione finale legata all'attualità delle prossime scadenze elettorali.
Risulta evidente la difficoltà del sistema politico italiano ad interpretare compiutamente il proprio ruolo di guida del Paese. Difficile pensare che il voto faccia emergere solide e chiare maggioranze politiche capaci di garantire stabilità di governo. Lo stesso campo culturale e politico nel quale da sempre io mi riconosco – il centro sinistra – appare non solo diviso, ma anche incerto sulle grandi coordinate da seguire.
Si avverte che un ciclo è terminato, ma il ciclo nuovo è piuttosto di là da venire. Cambiano i paradigmi attorno ai quali le grandi culture politiche del novecento hanno costruito scenari di democrazia e di sviluppo sociale ed economico in Italia e in Europa. E non sarà certo né dal semplice nuovismo pragmatista né dalla nostalgia dei vecchi assetti e delle vecchie formule che nascerà una prospettiva di futuro.
Anche sul piano della rappresentanza politica e delle sue infrastrutture – come su quello istituzionale, come ho cercato prima di dire – io penso che solo la dimensione europea e quella territoriale potranno offrire veri spunti rigenerativi al sistema.
Sarebbe importante se già nelle elezioni politiche della prossima primavera si potesse esprimere una presenza organizzata di forze territoriali ed europeiste, motivate ed aggregate nella ricerca della terza via tra centralismo e disgregazione.
Quanto meno nel campo nel quale io mi riconosco, ritengo che ciò sarebbe un valore aggiunto di grande novità e significato, che potrebbe svolgere una funzione decisiva per tenere viva – nel prossimo Parlamento – una idea autonomistica dello Stato e per dare rappresentanza ad una crescente porzione di cittadini che faticano a riconoscersi nei soli partiti nazionali.
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