"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Trento, tra déjà-vu e paura dell’innovazione

Capovolgimenti

 

di Federico Zappini *

«Un déjà-vu è un’imperfezione di Matrix, capita quando cambiano qualcosa». Così Trinity spiegava a Neo il passaggio ripetuto di un gatto nero nel primo capitolo di Matrix. Le sembianze di un déjà-vu assume anche la discussione attorno ai temi riguardanti le criticità nella gestione dello spazio urbano della città di Trento. Articoli di cronaca (numerosissimi, quasi riusciti nell’impresa di saturare lo spazio informativo), editoriali e dichiarazioni – di politici, esperti, comitati, ecc. – sembrano sempre riportare allo stesso punto. Il tempo passa e il gatto nero – sotto l’etichetta passpartout del “degrado” – si ripresenta davanti a noi, sempre uguale. Accettare il ripresentarsi del déjà-vu è un modo comodo per non impegnarsi mai nell’immaginare il passo capace di rompere la circolarità di un movimento che ci sta dando un po’ alla testa.

Il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro “L’espulsione dell’altro” concentra la sua attenzione sui temi della prossimità e dell’ascolto, ragionando sul come – ecco l’aggancio al tema delle città – si possono rifondare comunità oggi frantumate e spaventate. «L’ascolto – scrive – ha una dimensione politica, è un’azione, un’attiva partecipazione all’esistenza degli altri, e anche alle loro sofferenze. L’ascolto stringe relazioni fra gli uomini formando così una comunità». Dialogo quindi e – necessariamente – il tempo adatto per poter dialogare. A tal proposito mi ha favorevolmente colpito una serie di prese di posizione di Beppe Sala, sindaco di Milano – città simbolo della frenesia, del primato degli affari e della crescita – rispetto alla necessità di rivedere i nostri tempi di vita, nell’ottica di un necessario rallentamento, e le metriche con cui valutiamo il benessere dei cittadini. Più lenti e più attenti al Noi di cui facciamo parte. Sta forse cambiando qualcosa?

Ho indirizzato in questa maniera il mio sguardo non per scappare da Trento (anche se a volte ne sono tentato) ma per introdurre delle variabili che ci tolgano dall’imbarazzo di doverci riferire esclusivamente a ciò che la città è e non a ciò che potrebbe essere. Perché se il déjà-vu è l’effetto perverso del non saper/voler imboccare la strada verso il futuro, la vera forza centripeta che tiene ancorata Trento alla sua stretta orbita è la mancanza di propensione all’innovazione. Una sorta di paura di fronte al cambiamento. Un atteggiamento pericoloso. Un atteggiamento perdente.

Ecco che allora sull’innovazione, sociale ancor prima che tecnologica, ognuno deve investire in base alle proprie possibilità. L’Amministrazione è chiamata a ridefinire il proprio ruolo e a declinare in maniera meno vaga le caratteristiche della città che immagina (se la immagina!) in nome di un’azione politica che non si accontenta di gestire il possibile ma ambisce a realizzare domani ciò che oggi appare impossibile. Non mancano i suggerimenti su quale sia l’orizzonte da inseguire. Per generare coesione sociale e sviluppo diffuso e sostenibile è necessario che gli amministratori siano fattori abilitanti della cittadinanza – dal professionista che può mettere a disposizione le proprie competenze ai ragazzi che si ritrovano nel giardino del proprio quartiere – per dare, come benissimo descrive il filosofo e designer John Thackara «supporto alla creatività sociale e ai luoghi dove questa può fiorire: maker space, progetti e officine di riciclo, forni collettivi, distillerie artigianali, orti urbani, cucine comunitarie aperte al pubblico e cose simili. Ogni città ha bisogno di molti spazi come questi e altri luoghi basati sui commons. Nei loro programmi di sostegno all’economia e lo sviluppo economico, le città devono focalizzarsi su platform co-ops, piattaforme cooperative in cui il valore è redistribuito in parti eguali tra le persone che contribuiscono a produrre quel valore. Valore in questo caso significa case, trasporti, cibo, mobilità, acqua, cura degli anziani…». Un suggerimento utile per guardare in maniera diversa a Santa Maria Maggiore e più in generale alla situazione del centro storico di Trento, interrogandosi sul ruolo del commercio di prossimità e più in generale della cittadinanza, che faticano a rivendicare il proprio protagonismo nei processi di rigenerazione urbana.

Fa riflettere l’enfasi con cui si è raccontato delle vie cittadine invase da centinaia di persone accorse per partecipare all’inaugurazione della nuova boutique firmata Alessandro Del Piero. A tal proposito forse servirebbe chiedersi se sia un segnale positivo che in città esistano molte più birrerie bavaresi che librerie o che per due mesi all’anno le piazze cittadine siano monopolizzate dai sempre più precoci e invadenti Mercatini di Natale. E ancora, se non ci sia un problema quando il numero di piani terra e vetrine in cerca di utilizzo è superato solo dalla quantità di attività in franchising, segno evidente di una crescente omologazione dell’offerta commerciale e una perdita generalizzata di unicità. Aprirsi a queste domande serve soprattutto per riflettere sul progressivo venir meno di soggetti – del commercio e non solo – che sappiano riconoscere e trattare le persone come cittadini prima che come consumatori. Una mancanza pesante e decisiva rispetto alla residua capacità della comunità di “tenere insieme”, di rispondere allo spaesamento e alle tensioni che il tempo presente propone.

Abbiamo bisogno di restituire alla città il ruolo di campo privilegiato delle relazioni che diventano punto di contatto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale. Per Santa Maria Maggiore sarebbe naturale il ruolo di piazza “conciliare”, del confronto e di riconoscere alle relazionio un significato rilevante in termini di responsabilità collettiva sul contesto di vita a noi più prossimo.

* Questo intervento è apparso sul Corriere del Trentino sabato 11 novembre 2017

 

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