"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Per vivere meglio dobbiamo imparare a ridurre

Wolfgang Sachs

di Giuliano Battiston *

Dalla petroliera alla barca a vela. Con questa metafora Wolfgang Sachs spiega il passaggio che abbiamo di fronte. Un passaggio obbligato, se vogliamo sopravvivere: dalla modernità espansiva alla modernità riduttiva. Da una società fondata sull’accumulo, sull’accelerazione, sull’espansione senza limiti, sulla dipendenza da un flusso crescente di materie prime finite, a una società che sappia razionalizzare i mezzi in modo efficiente e soprattutto interrogarsi sui propri fini, sulle proprie aspirazioni, sul “quanto basta?”.

Allievo di Ivan Illich, già membro del Club di Roma e dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, sociologo del Wuppertal Institute for Climate, Environment and Energy e animatore di molte utopie concrete, da decenni Sachs studia come conciliare giustizia sociale ed ecologica. Pensatore di riferimento dell’ecologismo politico europeo, è arrivato a una conclusione: lo sviluppo della civiltà euro-atlantica è dovuto a circostanze storiche uniche e irripetibili, ed è incompatibile con la finitezza della biosfera. Se aspiriamo a una civiltà capace di futuro, quel modello di modernità espansiva va archiviato. Per farlo, occorre mettere in questione innanzitutto la nozione di “sviluppo” che ne è alla base. Da lì siamo partiti, nell’intervista concessa all’Espresso.

Quasi trent’anni fa, nel 1988, con alcuni amici e colleghi lei ha avuto l’idea di un Dizionario dello sviluppo - pubblicato alcuni anni dopo e diventato un libro molto letto e discusso - in cui dissezionare criticamente una parola-chiave del ventesimo secolo: sviluppo. Per quali ragioni vi opponevate a quell’idea, che per altri era sinonimo di progresso e speranze?

«Innanzitutto, il pregiudizio che certe aree del mondo siano sottosviluppate è relativamente nuovo. L’idea è stata coniata dal presidente Truman circa 70 anni fa. Nei decenni successivi, “sviluppo” è diventato il concetto egemonico che ha guidato le relazioni tra Nord e Sud del mondo. Noi ci opponevamo a quest’idea perché conduceva su binari sbagliati. Se si osserva il mondo con le lenti dello “sviluppo”, infatti, è come se l’umanità intera si muova su un unico cammino di progresso e benessere. Le nazioni sviluppate tracciano la rotta, e si suppone che i Paesi più poveri seguano l’imperativo di mettersi al passo, mimeticamente. Inoltre, lo “sviluppo” misura il grado di civiltà con il grado di performance economica, in altri termini con la crescita del prodotto interno lordo. Per tutte queste ragioni, già alla fine degli anni Ottanta intendevamo scriverne un necrologio».

Lo sviluppo è stato strettamente associato – se non equiparato – con la “crescita”. Da dove viene questa equazione? E quali conseguenze comporta?

«Sviluppo può significare qualsiasi cosa, dal costruire grattacieli al prendersi cura dei vivai. È un concetto di monumentale vuotezza e vacuità, con una connotazione vagamente positiva. Molti lo interpretano nel senso di “sviluppo come crescita”, un concetto insieme illusorio e fatale. Ormai demolito dalla consapevolezza che l’uso di carbone, petrolio e gas stia mandando all’aria il clima della Terra così come le riserve biotiche del pianeta. Secondo i calcoli del Global Footprint Network, il pianeta è già stato drasticamente sfiancato, e l’umanità consuma ogni anno 1,6 volte più risorse di quelle disponibili. Il sistema economico del Nord globale non può funzionare senza il sistematico sfruttamento della natura. Lo sviluppo come crescita sta conducendo a un pianeta inospitale per la vita umana».

Eppure, l’idea di sviluppo sembra riscuotere ancora consenso, ed è sopravvissuta a tanti epitaffi prematuri. Attraverso quali torsioni concettuali ha potuto farlo?

«Non avevamo compreso quanto l’idea di sviluppo fosse carica di speranze di riscatto e autoaffermazione. È stata senz’altro un’invenzione dell’Occidente, ma non si è trattato soltanto di un’imposizione sul resto del mondo. Al contrario, il Sud ne è diventato il più strenuo difensore, perché il desiderio di riconoscimento ed equità è stato modellato nei termini di civilizzazione mutuati dalle nazioni più potenti. In genere, i Paesi non aspirano a diventare più “indiani”o più “brasiliani”, ma a raggiungere la modernità industriale occidentale. Uno sguardo sulla Cina lo dimostra. L’ascesa della Cina nei ranghi delle potenze mondiali è un unguento sulle ferite inflitte in due secoli di umiliazione coloniale. E il successo della classe media è percepito con orgoglio, perché mette le élite cinesi alla pari con quelle di altre zone del mondo».

Si tratta dunque di mimetismo socio-industriale: l’adozione di un modello particolare adottato universalmente, che lei definisce come “modernità espansiva”. Ci può spiegare meglio questo concetto?

«Dalla fine della Seconda guerra mondiale, viviamo in società contrassegnate dalla “grande accelerazione”. Il carico umano sulla natura non è mai cresciuto tanto quanto nella generazione successiva al 1945. Gli esempi abbondano: il numero dei veicoli a motore sulla Terra è aumentato da 40 a 850 milioni, il numero degli abitanti delle città è cresciuto da 300 milioni a 3,7 miliardi. Allo stesso tempo, la quantità di idrogeno di sintesi è passata da meno di 4 milioni di tonnellate a più di 87 milioni di tonnellate, senza contare che la popolazione è triplicata. E non dimentichiamo la soddisfazione sempre più veloce di bisogni che aumentano, o l’accumulazione senza fine del capitale. Siamo dentro una cultura senza limiti, frutto della modernità espansiva. Che dobbiamo abbandonare in favore di una modernità riduttiva».

Per spiegare il passaggio dalla modernità espansiva a quella riduttiva, così come da un’economia energivora, fondata sull’uso di combustibili fossili a un’economia ecologica, fondata sulla sufficienza e sul limite, lei ha fatto riferimento alla metafora della petroliera e della barca a vela. Perché ha scelto proprioquesta immagine?

«Perché non occorre essere esperti di mare per capire la differenza, fondamentale. La petroliera, un gigante di acciaio, fornisce un importante servizio di trasporto, ma è difficile da manovrare, è adatta solo alle rotte marittime e consuma ingenti quantità di carburanti fossili. La barca a vela è tutta un’altra cosa. È sicuramente più piccola, ma più leggera e maneggevole, è alimentata dall’energia solare sotto forma di vento, anche se in termini di capacità di carico e di velocità non può certo competere con una petroliera. Una società riduttiva assomiglia a una barca a vela. Vuol dire che la priorità deve essere la leggerezza. Tutti i prodotti dovranno essere leggeri di risorse e durevoli, dall’arredamento fino alle automobili. Il secondo principio è quello della eco-compatibilità. La tecnica dovrebbe basarsi sui flussi della natura come il vento, il sole, l’acqua o altre forme di crescita organica. Le celle solari, le reti elettriche intelligenti e l’agroecologia sono esempi in cui l’alta tecnologia sposa le forze della natura. C’è un altro aspetto importante: una barca a vela è certamente leggera ed ecocompatibile, ma rispetto a un’imbarcazione a motore è anche limitata nelle prestazioni. Questo vuol dire che il terzo principio da seguire è la moderazione. Bisogna cercare la lentezza, l’economia regionale. Insomma, il benessere frugale. Con un duplice vantaggio: il risparmio di risorse e una vita migliore perché più autonoma».

Ma la modernità riduttiva è davvero desiderabile per tutti, anche per il cosiddetto Sud del mondo che sembra avere aspirazioni diverse, di natura espansiva, piuttosto che riduttiva?

«Sono convinto che i Paesi del Sud dovrebbero approfittare dell’opportunità di saltare all’economia solare, molto prima e molto più solidamente delle economie del Nord. Per loro, sarebbe autolesionista passare attraverso le stesse fasi dell’evoluzione industriale dei Paesi del Nord. Oggi molti Paesi sono ancora nella condizione di poter evitare quel corso insostenibile, optando senza ulteriori ritardi per infrastrutture che portino su una traiettoria fatta di basse emissioni, leggera di risorse. Investimenti in infrastrutture come sistemi ferroviari leggeri, produzione energetica decentralizzata, trasporti pubblici, abitazioni localmente adattate, agricolture rigenerative possono condurre un Paese verso modelli di produzione e consumo più puliti, meno costosi e più equi. Verso una modernità riduttiva, ormai necessaria».

* http://espresso.repubblica.it

 

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