"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
In dialogo con l'idea di un “inedito inizio” proposta da Federico Zappini
di Michele Nardelli
(7 febbraio 2018) Ho vissuto in prima persona il passaggio dalla “prima” alla “seconda Repubblica”, quando – era l'inizio degli anni '90 – andava in frantumi il quadro politico sul quale si era retto questo paese dalla fine della seconda guerra mondiale. Anni bui. Manette ai polsi dei potenti, partiti storici che si polverizzavano, poteri oscuri che seminavano terrore, istrioni che scendevano in campo. In un suo celebre discorso sulla transizione italiana, Giuseppe Dossetti ebbe a chiedersi, riprendendo il libro di Isaia, «Sentinella, quanto resta della notte?»1.
Eppure anche in quella “notte” non mancarono lampi di luce, la stagione dell'Ulivo ad esempio, forse il primo e significativo tentativo di costruire una nuova sintesi delle migliori culture politiche precedenti. Presenti al nostro tempo, in questa terra vivemmo quel passaggio senza smarrirci, dando il là – nonostante rancorosi conservatorismi – ad una stagione che fece del Trentino un'anomalia politica in tutto l'arco alpino. Ci aiutò un tessuto culturale e sociale dalle radici profonde che faceva da cornice alla sperimentazione politica.
Proprio alla luce di quella difficile transizione in realtà mai conclusa, posso affermare che il passaggio che oggi viviamo mi appare ancora più inquietante, il crepuscolo di un sistema. E' la fine di un contesto – come osserva Federico Zappini nella sua stimolante riflessione (https://pontidivista.wordpress.com/2018/02/01/di-unagenda-politica-comune-e-dei-margini-sensibili-da-cui-partire/) – che non investe solo i partiti bensì l'insieme dei corpi intermedi, è cioè crisi culturale e sociale prima ancora che politica. E' l'offuscarsi dei significati e, con il venir meno delle tradizionali soggettività sociali, lo spaesamento e la solitudine.
In Trentino assume i tratti dello sfarinarsi del blocco sociale che ha reso possibile l'anomalia, quel tessuto fatto di un diverso assetto proprietario che trovava rappresentazione nel movimento cooperativo, nel mutualismo e nella finanza di territorio; di un movimento sindacale che seppe anticipare processi aggregativi oltre le tradizionali appartenenze ideologiche ed innovare le risposte alla crisi industriale nel rapporto lavoro /ambiente; di un volontariato diffuso come forma di autogoverno e di partecipazione responsabile; di una vivace rete di associazioni che nascevano attorno alle grandi sfide planetarie e che ponevano domande alte che investivano il futuro; di luoghi di studio, formazione e ricerca che alzavano lo sguardo oltre le emergenze e sarebbero diventati eccellenze a livello europeo.
Qui dovremmo aprire e chiudere una parantesi sulla fragilità di questo tessuto e sulla crisi delle classi dirigenti, e dunque (almeno per la mia generazione) sulle nostre stesse responsabilità. Tema tutt'altro che banale, ma non è l'oggetto di questa riflessione.
Oggi, a differenza degli anni '90, dal crepuscolo di un sistema non se ne esce inventandosi qualcosa. Voglio dire che la sola sperimentazione politica non basta. Occorre ritessere un tessuto sociale (ci torno) e prima ancora indagare le idee, quella crisi di sguardo – ovvero di chiavi interpretative e di visione – che oggi devasta non solo la politica ma la società nel suo insieme. Perché come ha scritto in questi giorni Ezio Mauro «la mutazione in corso è innanzitutto culturale». E perché, riprendendo la citazione di Roberto Esposito nella riflessione di Zappini, «un intero universo concettuale sta andando in pezzi».
Mutazione profonda, epocale. Che oltrepassa i confini tradizionali che oltremodo si rivelano – malgrado il rigurgito sovranista – una rappresentazione obsoleta del reale. Come gran parte delle categorie usate sin qui per raccontare il presente.
Al crepuscolo del sistema dovrebbero corrispondere cioè nuovi paradigmi, ma invece non c'è ancora né la consapevolezza della fine di un'epoca, né tanto meno una riflessione sull'inadeguatezza degli strumenti interpretativi.
E così, oltre all'avvilente scenario di rappresentanze che si autotutelano, nello spostare l'attenzione sui contenuti si ripropone tutto l'armamentario di banalità di cui sono impregnati i programmi. Parole come crescita, lavoro, sicurezza, migrazioni, famiglia... non significano nulla se non in un rituale simbolico ed ideologizzante.
Perché invocare la crescita quando l'insostenibilità dell'attuale modello di sviluppo porta questo pianeta a consumare dopo sette mesi quel che gli ecosistemi riescono a produrre in un anno? Un approccio responsabile verso il pianeta non dovrebbe portarci al contrario alla riconsiderazione di ciò di cui abbiamo davvero bisogno e quindi dei nostri consumi? Il lavoro è destinato a cambiare, sta già cambiando, e – per effetto delle nuove tecnologie – a diminuire. Il tema è dunque la sua riqualificazione e redistribuzione. E come dare valore al tempo che si libera per le funzioni di cura e di educazione/formazione permanente... Insisto, fare meglio con meno. Sapendo che maggiore consapevolezza significa più sicurezza, ovvero capacità/possibilità di prendersi cura del prossimo, perché questo è il significato di una parola, sicurezza, agitata come un mantra per invocare militarizzazione ed esclusione. E, infine, come immaginare di affrontare i flussi migratori se il nostro modello di sviluppo (e i nostri stili di vita) impoverisce la terra dove queste persone sono nate?
Qui, nell'incapacità di disegnare un futuro in discontinuità con un passato per nulla elaborato, abita il crepuscolo del sistema. E' finito un tempo, ma il canovaccio di quello nuovo sembra per il momento inguardabile, diviso com'è fra liberismo e sovranismo, fra l'autoregolazione del mercato e il “prima noi”, fra Clinton e Trump. Non è forse questa la “dialettica possibile” rappresentata anche recentemente a Davos?
Una dialettica nella quale è faticoso riconoscersi, in fondo non molto diversa dalla rappresentazione elettorale che avviene negli Stati Uniti come in America Latina, in Europa come in Italia. E rispetto alla quale sembra del tutto assente un disegno alternativo. Perché non lo sono certamente le forme del populismo, pur nelle diverse versioni che abbiamo conosciuto in questo paese. E nemmeno quelle forme di neokeynesismo rappresentate da Sanders e Corbyn, espressione di «un vecchio umanesimo narciso e povero di mondo»2.
Ma, lo ripeto, non è solo un problema di narrazione politica. Se non vogliamo cadere nel soggettivismo è necessario interrogarsi sui processi sociali e culturali, laddove l'economicismo ha corporativizzato la società, l'atomizzazione e lo spaesamento trasformato le classi in agglomerati di individui soli e in sottrazione verso il prossimo.
E qui diviene particolarmente interessante la parte costruens della riflessione di Zappini, nel descrivere le forme nuove di cittadinanza e di azione politica. Nel ridisegnare ambiti di impegno sociale, di riappropriazione del territorio, di rigenerazione dei beni comuni... ma anche di «un mondo che attende di prendersi la ribalta che merita, sostituendo il precedente in esaurimento», creando così le condizioni di un «inedito inizio». Comprendere l'esaurirsi del “non più” e rendere possibile quello che sin qui abbiamo descritto come il “non ancora” e che spesso incontriamo nel nostro viaggio alla ricerca di pratiche buone ma soprattutto esigenti.
«Non manca molto» afferma Federico. La ricostruzione di un tessuto richiede pazienza, curiosità (il disporsi alla meraviglia) e, insieme, il coraggio della discontinuità.
La preoccupazione per il vento di destra, pericoloso ed aggressivo, che sembra piegare una società disorientata ed incattivita, non deve in ogni caso distoglierci da questo proposito. Che a ben pensarci è anche la condizione affinché la politica (le istituzioni, i partiti, l'associazionismo...) non diserti la propria funzione pedagogica e sappia fare tesoro del passato.
Non so ancora che cosa farò il 4 marzo, l'esercizio del «depotenziamento»3 di cui parla Marco Revelli in un suo saggio di qualche anno fa dedicato alla necessità di un nuovo paradigma politico, spero possa venirmi in aiuto. Anche perché l'uscita dallo schema della politica verticale costruita ad immagine e somiglianza dello “stato-nazione” non può che essere parte integrante di quel cambiamento di sguardo di cui avverto l'urgenza.
So, invece, che oltre quella data c'è un viaggio ancora largamente incompiuto4, fatto di idee, esperienze e connessioni da realizzare affinché un «inedito inizio» si possa almeno intravedere.
1Giuseppe Dossetti, Sentinella, quanto resta della notte? Riflessioni sulla transizione italiana. Edizioni Lavoro, 1994
2Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati Boringhieri, 2016
3Marco Revelli, La politica perduta. Einaudi, 2003
4Il prossimo itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica” sarà la Catalunya. Per chi fosse interessato, può scrivermi alla mail sol.tn@tin.it
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