"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (76)
di Michele Nardelli
(11 febbraio 2018) Il dovere di far tesoro del passato affinché possiamo imparare dalla storia ha un nemico forse ancora più subdolo del “negazionismo”: l'ipocrisia e la retorica. Per questo non amo le celebrazioni e tanto meno le “giornate internazionali” della memoria.
Ovviamente, non si tratta di un giudizio di merito. Le considero piuttosto parte di quella retorica che per anni ha fatto della pace e dei diritti umani un richiamo formale contraddetto nelle pratiche di ogni giorno, diritti calpestati dalle supremazie e dagli interessi geopolitici ed economici nazionali, propositi di pace cui corrispondevano produzione e commercio di armi o sfruttamento di risorse nelle aree impoverite del pianeta. E di quel richiamarsi alla memoria eludendo la questione cruciale del rapporto con la storia, ovvero l'elaborazione dei conflitti.
Così può accadere che mentre si celebra il 27 gennaio, l'anniversario della liberazione da parte dei soldati dell'esercito sovietico del campo di sterminio di Auschwitz, ovunque si affermi l'idea sovranista, quel “prima noi” che poi è la versione adattabile ovunque e per ogni forma di aggregato sociale del tristemente noto “Dutschland über alles”.
O che il 10 febbraio venga celebrato in Italia il giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe attraverso una storia mutilata, molto frequentemente senza dire una parola di quel che il fascismo e il nazismo fecero nelle terre da sempre abitate da popolazioni slave considerate razze inferiori. E che l'Italia fascista immaginava come parte del proprio destino imperiale.
L'olocausto, le leggi razziali, i sistemi concentrazionari non sono stati un incidente della storia, sono invece l'esito di culture e di politiche (oltre che di interessi) che hanno profondamente segnato il Novecento, quel tempo degli assassini che – contrariamente a quel che afferma il ministro Minniti – non è affatto morto e nemmeno adeguatamente elaborato.
Quel Novecento del quale dovremmo parlare ogni giorno, tanto per la Shoah come per lo sterminio dei nativi americani, per il gulag come per le foibe, per comprendere come sia potuto accadere che a furor di popolo si potessero compiere tali e tanti crimini contro l'umanità. E per cogliere i sintomi del moderno fascismo che risorgono in Europa e nel mondo ogni volta che si considera il proprio stile di vita non negoziabile e la diversità viene guardata con paura ed in sottrazione.
Nel rispetto del dolore di tutti ma anche di una verità che non sia di parte.
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