"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (77)
di Michele Nardelli
(23 febbraio 2018) Sono passati quasi dieci anni dall'uscita di “Darsi il tempo”1, saggio nel quale con Mauro Cereghini ponemmo il tema di un cambio profondo nell'intendere la cooperazione internazionale.
La tesi che ponevamo con quel pamphlet era, in buona sostanza, che nella globalizzazione la tradizionale divisione fra paesi sviluppati e sottosviluppati (o in via di sviluppo) era ormai obsoleta, che i luoghi di massima deregolazione (la guerra in primo luogo) rappresentavano il terreno più funzionale alla finanziarizzazione dell'economia, che nel tempo dell'interdipendenza tali processi entravano nella nostra quotidianità a prescindere dalla nostra collocazione geografica, che – infine – la costruzione di relazioni (e non l'aiuto allo sviluppo) avrebbe dovuto rappresentare la nuova frontiera di una cooperazione fra comunità parte – loro malgrado – di un destino terrestre.
Quel libro rappresentava altresì una critica radicale alla cultura dell'emergenza che già allora invadeva in maniera pervasiva una cooperazione sempre più smarrita e alla continua ricerca di finanziamenti per mantenere apparati altrimenti insostenibili, laddove l'emergenza costituiva l'orizzonte che opacizzava le ragioni delle crisi e indicava nella sua verticalità la rinuncia a porsi come fattore di cambiamento.
Un testo che ad una rilettura odierna mantiene pressoché intatto il proprio valore di denuncia e di proposta nel rivedere in profondità i paradigmi attraverso i quali leggiamo il nostro tempo.
Non eravamo i soli a pensarla così. Si sviluppò in quegli anni una comunità di pensiero che, a partire dall'esperienza sul campo, poneva il problema di indagare l'insostenibilità di una cooperazione internazionale che creava dipendenza, deresponsabilizzava le comunità locali e raramente era in grado di costruire percorsi di elaborazione dei conflitti, ineludibili per qualsivoglia processo di riconciliazione.
Nella letteratura che ne venne, un testo più di altri ha saputo affrontare la questione cruciale che gli avvenimenti di cui parlo in questa nota pongono in rilievo, ovvero il potere che si esercita attraverso l'industria dell'umanitario. Mi riferisco al romanzo di Luca Rastello “I buoni”, feroce ritratto della retorica del bene, non a caso guardato con diffidenza ed osteggiato in questo mondo di “altruisti egoisti”2.
Perché è questo, a saper guardare, il nodo cruciale che pone il “caso Oxfam”. Certo, fa scalpore che una delle più grandi ONG globali (nel caso di Oxfam International, una confederazione di 19 organizzazioni non governative che opera in novanta paesi), con migliaia di dipendenti ed un budget di diverse centinaia di milioni di dollari, sia sul banco degli imputati per il comportamento dei suoi funzionari e dirigenti accusati di violenza e abusi sessuali (o di averne taciuto). Ma questa vicenda non rappresenta che la punta di un iceberg di un arcipelago che da tempo ha smesso di leggere il mondo e di interrogarsi sul ruolo della cooperazione internazionale. E che non a caso ha scelto di appiattirsi sull'azione di emergenza, ambito nel quale le ONG si sono ritagliate un ruolo sostanzialmente tecnico, come fossero diventate braccia operative di decisioni assunte dalle cancellerie.
Non si richiede pensiero, capacità di analisi o di visione, perché nella ricerca spasmodica di linee di finanziamento la cornice è sempre decisa altrove, talvolta da soggetti per nulla estranei alle dinamiche che sono all'origine delle situazioni di crisi nelle quali si è chiamati ad operare. Già nel 1999, riflettendo attorno alla crisi del Kosovo e alla Missione Arcobaleno, con un'immagine che vedo ripresa in questi giorni, lo chiamai “circo umanitario”3 per descrivere un ambiente fatto prevalentemente di “programmi Frankenstein” (pronti per ogni latitudine), improvvisazione e cinismo.
Se dunque nel passaggio di secolo avevamo colto la crisi profonda che attraversava la cooperazione internazionale, negli anni successivi questa tendenza si è andata oltremondo confermando. E anche laddove si sviluppò un confronto talvolta doloroso sul valore politico della cooperazione, si è preferito allinearsi all'industria della pietà che vediamo esibita senza pudore nel marketing televisivo laddove «essere angelo costa otto euro al mese»4.
Non ne posso più della “banalità del bene”, delle “partite del cuore” e delle immagini di Kayende o di altri bambini usate per il fundraising. Perché è così che Ucodep è diventata Oxfam Italia. E che anche le esperienze più di frontiera del nostro stesso territorio, che pure avevano fatto della cooperazione di comunità il loro tratto di diversità, si sono ridotte nel migliore dei casi all'aiuto allo sviluppo.
Impariamo dunque a guardare dentro le cose. Perché se sono gravi gli abusi di cui ci parlano le cronache, quasi che il velo di omertà – come nel caso Weinstein nel mondo dello spettacolo – anche qui si fosse spezzato investendo il mondo dei “buoni”, altrettanto grave è il non rendersi conto che all'origine di queste stesse cronache c'è l'esercizio (e il fascino) del potere, insieme all'idea che in fondo il nostro sia il migliore dei mondi possibile (e non una delle ragioni di tanta diseguaglianza e violenza).
1Mauro Cereghini, Michele Nardelli, “Darsi il tempo. Idee e pratiche per un'altra cooperazione internazionale”. EMI, 2008
2Tony Vaux, “L'altruista egoista. Analisi critica degli interventi umanitari in situazioni di guerra e carestia”. EDA, 2002
3Michele Nardelli, in “La crisi dell'umanitario”. Numero monografico della rivista Communitas, 2005
4Luca Rastello, “I buoni”. Chiarelettere, 2014
2 commenti all'articolo - torna indietro