"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Riprendo da www.ilpost.it questa interessante riflessione di Lorenzo Ferrari attorno all'adunata degli alpini che si è svolta nei giorni scorsi a Trento.
di Lorenzo Ferrari
Non avevo mai visto tante bandiere italiane, neanche la volta che abbiamo vinto i Mondiali. Migliaia di bandiere tricolori, su quasi ogni edificio della città. Nell’anno del centenario del passaggio all’Italia, lo scorso finesettimana Trento ha ospitato l’adunata nazionale degli Alpini. Con l’anniversario di mezzo, le memorie ancora combattute, l’Alto Adige qui di fianco, una tale celebrazione dell’italianità è stata un affare delicato – ma anche un’ottima occasione per vedere come si combinano localismi, patriottismo ed europeismo in questi tempi complicati.
Ancora una volta, l’adunata degli Alpini ha mostrato che sono poche le distanze politiche che non possono essere colmate da dosi massicce di grappa. In Trentino la bandiera italiana sventola poco pure quando c’è l’Italia che gioca ai Mondiali, ma lo scorso finesettimana sembrava possibile essere allo stesso tempo dei convinti autonomisti e dei patriottici ferventi, e di passaggio rimpiangere pure un po’ gli Asburgo e lasciare un pensiero per l’Europa pacificata. Un processo di ricomposizione e sovrapposizione delle identità è attualmente in corso anche nel resto d’Italia e d’Europa, con esiti apparentemente contraddittori.
Forse l’esempio più chiaro di questo processo sta nella svolta “sovranista” della Lega di Matteo Salvini: da varie parti è stata fatta notare la contraddizione tra lo storico messaggio settentrionalista (o al più localista, con le felpe del leader che di volta in volta aderiscono a una singola città) del partito e il suo recente messaggio nazionalista. In realtà le identità multiple che la Lega di Salvini va di volta in volta ad attivare non sono in contraddizione tra loro – o meglio, vengono attivate in modo selettivo secondo una logica lineare.
Ogni volta che bisogna scegliere tra due identità potenzialmente in contrasto, la Lega sceglie quella di livello più basso. E quindi essere (o stare coi) veneti è meglio dell’essere settentrionali, essere del Nord è meglio dell’essere italiani, essere italiani è meglio dell’essere europei, essere cristiani è meglio dell’essere esseri umani. È un messaggio che passa con facilità e che riesce a gestire le potenziali contraddizioni che produce: se si parla delle violenze di origine islamica si può agevolmente rivendicare la propria identità cristiana o europea, ma se si parla di politica monetaria si può rigettare quella stessa identità europea e accentuare quella italiana, e così via.
La diffidenza e il pregiudizio sistematico verso chi viene da più lontano – possono essere 50, 500 o 5000 chilometri di distanza, dipende dai casi – sta dietro a tutto il messaggio della Lega e le conferisce un’invidiabile coerenza interna. Quella stessa logica sta dietro a uno dei paradossi più affascinanti dell’ultimo decennio di storia europea: le destre localiste o nazionaliste che riescono a mettere in piedi la più efficace campagna paneuropea della storia. L’abilità con cui Le Pen, Orban, Farage hanno giocato coi diversi piani e le diverse identità per influenzare l’agenda politica non ha eguali tra gli altri partiti. In teoria, il messaggio delle sinistre europee dovrebbe essere speculare al loro (empatia, simpatia e credito non solo a chi ci sta accanto, ma anche a chi sta qualche centinaio di chilometri più in là), ma finisce per incartarsi in mezzo a questi molteplici livelli.
La preferenza per le genti e le tradizioni di casa propria su quelle che vengono da qualche luogo più in là è strettamente legata a un altro sentimento che sta sotto a molti degli sconvolgimenti dell’opinione pubblica europea negli ultimi anni (e al successo dei populisti e delle destre): il sentimento di sentirsi stranieri a casa propria. Tra le dinamiche politiche in atto, una delle tensioni più forti è quella tra chi si sente a casa anche all’estero e chi si sente straniero persino a casa: gli uni sono attrezzati e ottimisti, mentre gli altri si vedono inadeguati e spaesati. Non è uno scontro tra europeisti e euroscettici, quanto piuttosto tra apocalittici e integrati. E il problema è che il messaggio europeo e quello delle sinistre sono pensati per gli attrezzati e gli integrati, non per chi si ritrova spaesato.
Che identità multiple possano convivere in uno stesso soggetto non è una novità: le identità personali e collettive vengono costantemente rimodellate e rinegoziate a seconda del contesto, non serve l’adunata degli Alpini di Trento per rendersene conto. Ma alcuni dei problemi che sta incontrando il progetto europeo derivano proprio da una sottovalutazione di questi meccanismi. Anche se il sentimento di appartenenza all’Europa è tra i più alti di sempre, il sentimento di attaccamento dei cittadini al proprio stato nazionale rimane ancora più elevato. Nonostante le aspettative dei decenni scorsi, è evidente che un aumento del sentimento europeo non implica un indebolimento del sentimento nazionale: prima o poi bisognerà farsene una ragione.
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