"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Dove voleranno gli uccelli dopo l'ultimo cielo?

Lifta, nei pressi di Gerusalemme. Il borgo della famiglia di Ali Rashid

di Ali Rashid

(20 maggio 2018) Inutile cercare buone notizie provenienti dalla Palestina. Ogni giorno si allunga l’elenco dei soprusi e ogni giorno i soprusi acquistano maggiore legittimità. Vano il tentativo di raccontare settant'anni di inesorabile annientamento di un popolo, la sua terra e la sua storia di fronte alla prepotenza e al trionfo dei coloni conquistatori. Le immagini che arrivano dalla Palestina mettono davanti gli occhi di chi vuole vedere il contrasto radicale tra due realtà, due storie, nonché condizioni, angosce e prospettive.

Sulla parte preponderante dello schermo appare uno Stato trionfante e sicuro di sé, che si è fatto forza in tutti questi anni dell’immagine della vittima per eccellenza della persecuzione e della vessazione di un tragico passato. Arrogante e soddisfatto delle sue conquiste, incurante e impermeabile alla sofferenza che ha inflitto e infligge, circondato e sostenuto dal peggio di ciò che la cultura occidentale ha prodotto, animato da un delirio di superiorità e di dominio che nasconde a malapena l'angoscia latente che il meccanismo di potere si possa inceppare...

Dopo settant'anni lo Stato di Israele ha perso molto delle sua vivacità culturale a favore di una omogeneità selettiva dove prevalgono le tendenze religiose e nazionaliste contro ogni altro da sé (palestinesi in modo particolare), che pure non riesce a nascondere le divisioni interne sulla base delle provenienza etnica o del tipo e grado di religiosità di ogni gruppo. Uno stato etico (l'opposto dello stato di diritto) dove la cittadinanza si misura sull'appartenenza al “popolo scelto” e ad un esercito forte e moderno circondato da un nemico e quindi da temere.

Così un giorno tragico in cui muoiono oltre sessanta palestinesi e migliaia finiscono in ospedale sotto i colpi dell'esercito israeliano può diventare per lo “spaccone” diventato presidente degli Stati Uniti “una grande e storica giornata”. In preda ad un complesso d’inferiorità rispetto al suo predecessore, del quale cerca di cancellare ogni traccia, affida alla figlia e al genero l’inaugurazione dell'Ambasciata USA a Gerusalemme, fra discorsi da analfabeti e l'ostentazione di frugale ricchezza. A coronamento di una settimana densa di successi per Netanyahu e la destra israeliana che, oltre al trasferimento dell'Ambasciata americana a Gerusalemme, ha visto il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare iraniano (cui sono seguite le minacce di intervento militare e i raid israeliani in Siria), l’allineamento di alcuni paesi arabi con Israele per contenere il ruolo dell’Iran nella regione, la partenza del Giro ciclistico d'Italia da Gerusalemme, in onore ai 70 anni dalla nascita dello stato di Israele. E, come se non bastasse, è arrivata pure la vittoria della cantante israeliana all'Eurovision Song Contest 2018 in Portogallo.

Dall'altra parte, in piccolo angolo dello schermo conquistato ad altissimo prezzo di sangue, dentro il più grande carcere a cielo aperto del mondo, appare una moltitudine di tutte l’età che strappa a mani nudi il recinto e varca il confine della sua prigione che si trasforma giorno dopo giorno in una fossa comune.

Nell'inferno di Gaza sono finiti tutti gli abitanti delle un tempo floride città della costa meridionale della Palestina, espulsi dopo la caduta della città di Lud e il massacro di Ramla nel 1948 per mano delle bande armate sioniste nell'operazione militare “le-taher”, ovvero “pulire”; di Ascalan, porto antico sul Mediterraneo, nodo importante dei traffici marittimi in tutte le epoche. Da lì insieme al porto di Tiro e Akka sono partiti i primi fenici per approdare sulle sponde occidentali del Mediterraneo, lì sono arrivati i popoli del mare per invadere l’Egitto in concomitanza della diciassettesima dinastia dando il nome di Palestina alla parte meridionale della terra di Canan. A due passi da dove si insediò Abramo e sua moglie ospitati dal Re cananeo di Gerusalemme Melchisedec (Almalek al sadek) raffigurato nei mosaici romano-bizantini della basilica di San Vitale a Ravenna, prima ancora che nascesse la sua stirpe che diede secoli dopo i discendenti e cugini ebrei e musulmani. Lì sbarcarono le truppe più barbare e sanguinarie delle crociate per dare il via al regno di Ascalan che si estendeva fino alla Giordania. A due passi dal confine settentrionale di Gaza, giacciono le rovine della città di Magdel, dalla quale proveniva Maria Maddalena. Il suo nome in Arabo significa Telaio. In tutte le epoche ha rappresentato la città leader del tessile insieme a Damasco e Safad in alta Galilea. Persino i disegni del ricamo nelle città dell’altra sponda mediterranea portano ancora l’impronta cananea di Magdal.

Le pianure fertili a nord e est di Gaza erano l’habitat ottimale per la coltivazione del Sesamo, fonte di ricchezza, benessere e primi processi di trasformazione: il suo olio veniva esportato in tutto la regione. Il pesce sotto sale di Gaza, conservato in botti di legno sotto terra, era considerato molto pregiato e richiesto in tutta le regione. Oggi la flotta è accatastata da anni sulla spiaggia perché i pescherecci non possono andare oltre 3 miglia in mare profondo.

Gran parte di Gaza fu distrutta durante l’operazione militare piombo fuso del 2008. Le rovine e le macerie sono ancora lì perché Israele non permette il passaggio del materiale edile necessario per la ricostruzione. Per mancanza di carburante, l’unica e vecchia centrale elettrica spesso è fuori uso e la popolazione rimane al buio e si interrompono tutti i servizi.

Israele dal 1967 continua a sottrarre l’acqua dolce dalla falda di Gaza per irrigare le nuove colonie e insediamenti agricoli ai suoi confini, causando l’infiltrazione di acqua salina e privando la popolazione della acqua potabile. Oltre a trasformarla in carcere a cielo aperto, l’emergenza dei rifiuti e delle acque reflue la trasformano anche in una grande discarica.

Degli attuali 1.800.000 abitanti di Gaza, 1.300.000 prevengono da questi territori e città. Accatastati su una striscia di terra lunga 38 km e larga da 1 a12 km. Non possono uscire dalla loro prigione e tutto quello che entra deve essere autorizzato da Israele.

Quando uno di loro si affaccia alla finestra e guarda oltre il recinto, per sfuggire all'opprimente realtà, rivede il racconto mille volte ripetuto di quello che un tempo eravamo, non gli resta che il suo corpo, la carne viva contro un confine inventato, contro lo sbarramento di fuoco dei cecchini, nella speranza che qualcuno possa raccogliere questo grido di dolore contro l’occupazione, l’ingiustizia, il disprezzo di qualsiasi forma di legalità internazionale, la brutalità e la vessazione quotidiana.

Sono questi i motivi della rivolta e di quelle che verranno, perché le ragioni della mia gente sono irriducibili, non si possono cancellare. E questo malgrado l'opera incessante dei governi israeliani nel cercare di negare la questione palestinese e far passare come oggettiva una narrazione di parte che nobilita il sopruso e che agli occhi dei palestinesi non è che la nakba, la catastrofe.

Riguarda la “grande storia” come la quotidianità del vivere, stravolgendo così la verità. Così il neonato di Gaza morto per i gas tossici sparati dai soldati israeliani diventa la negligenza di una madre, la morte di decine di giovani diviene l'esito della lotta per il potere di Hamas. Fino all'assurdo di qualche madre israeliana che arriva chiedere i danni ai palestinesi perché trasformano i loro figli/soldati in assassini. Non ci sono parole.

Una rivolta che impatta anche la crisi politica di una classe dirigente, quella palestinese. Credo infatti che la rivolta dei palestinesi andrebbe letta anche come presa di distanza da Hamas e ANP (Autorità nazionale palestinese), una protesta che ha scavalcato le vecchie rappresentazioni politiche, la loro incapacità di un progetto unitario, di immaginare nuovi scenari e perfino di una buona amministrazione di quel poco che è rimasto. Un profilo politico possibile e che non ha nulla a che vedere con la superiorità militare degli israeliani. Al contrario abbiamo assistito ad un processo di selezione al negativo del gruppo dirigente che paradossalmente tende a confermare gli stereotipi che Israele vuole dare dei palestinesi. Che nella rivolta come nelle resistenza quotidiana si dimostrano ben più dignitosi della loro attuale classe dirigente.

Edward Said nel suo racconto “Dopo l’ultimo cielo” di molti anni fa, scrisse così: «Dal 1948 abbiamo un'esistenza minore. Molta parte del nostro vissuto non è stata documentata, molti di noi sono stati uccisi, colpiti da lutti, azzittiti senza lasciare tracce, l'immagine che ci rappresenta ci diminuisce. Un gruppo umano con tutte le contraddizioni, attivo, simpatico, sensibile, coraggioso, vivace e tenace, ma prigioniero della domanda espressa nell'ultima poesia di Mahmoud Darwish nel settembre 1982: “Dove andremo, passate le ultime frontiere? Dove voleranno gli uccelli dopo l’ultimo cielo?”».

 

2 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Antonella il 25 maggio 2018 15:31
    Articolo molto bello, intriso di amore per un luogo e la sua gente oppressa. La lotta per questi ideali nobili non si deve fermare.
    Saluti solidali!
  2. inviato da mregina il 25 maggio 2018 11:37
    grazie! coraggio
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