"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini *
(19 giugno 2018) Ho ascoltato alcuni passaggi del monologo di Roberto Saviano martedì scorso nel programma di Giovanni Floris. Tema i fenomeni migratori e la retorica collegata ai loro effetti sociali e politici. Quasi mezzanotte. Pubblico immagino – come me – sufficientemente assonnato, definitivamente steso cinque minuti più tardi dal riproporsi di argomenti fiscali e pensionistici. Roberto Saviano, questa la mia sensazione, è risultato efficacemente inutile. Inutilmente puntuale. Eppure necessario. E puntualmente emozionante. Sia per chi – in una polarizzazione sempre più evidente e netta dei sentimenti – lo riconosce come coraggioso sostenitore di un’umana solidarietà che per la parte che lo accusa di replicare la sua quotidiana predica “buonista”, così come da nuovo vocabolario sembra intendersi tutto ciò che sfidi lo sdoganamento del politicamente scorretto, di tutto ciò che si esprima – per contrapposizione – in forma di rivendicato “cattivismo”. La vicenda Aquarius da questo punto di vista ci insegna due cose. La prima costituisce il (principale) problema che ci troviamo ad affrontare. La seconda una (potenziale) opportunità da cogliere.
Problema. La politica oggi vive e prospera – anche se in realtà muore suicidandosi, abdicando – su picchi di emotività, dinamiche comunicative frenetiche e continui processi di scomposizione e ricomposizione del dibattito pubblico, o di quel che ne rimane. Un frullatore impazzito perennemente acceso, che moltiplica l’output comunicativo al netto di una riduzione direttamente proporzionale di quello che dovrebbe essere l’obbligatorio input, ossia il tempo dedicato alla riflessione e all’organizzazione di un pensiero minimamente strutturato. Serve – se si vuole stare dentro questo campo di gioco, per me ogni giorno più impraticabile e pericoloso – essere dannatamente smart, nell’accezione più degenerata e brutale del termine. Svelti di testa e di dito (sullo smartphone), spregiudicati nel non avere remore di fronte alle occasioni che si presentano (compresa una nave di disperati in mezzo al mare, paragonata a “una crociera” nel Mediterraneo), disponibili a rimettere in gioco continuamente l’intera posta in palio, in un flusso costante di provocazioni e di frasi a effetto, usate come grimaldello per conquistare da un lato consensi e dall’altro per spiazzare gli avversari, rendendo tossico il contesto dentro il quale ci si muove.
Un ruolo – quello del Ministro/provocatore, del twittatore compulsivo – che in questi giorni Matteo Salvini ha saputo interpretare in maniera efficace, sfruttando l’ascendente che la politica ha sui cittadini nel momento in cui i linguaggi utilizzati si fanno più aggressivi, le dichiarazioni più assertive e taglienti, gli hashtag strumenti di identificazione del nemico contro il quale si cementata l’identità e si radicalizzano le invettive. Più che la qualità dei risultati dell’azione di governo conta qui la capacità di far sentire la propria voce, quanto più possibile rabbiosa nei confronti di qualcuno. Meglio di me nei giorni scorsi ne ha scritto Giuseppe De Rita.
“Chiudiamo i porti”, “fare la voce grossa paga”, “è finita la pacchia”, “basta con il buonismo”, “stop al business dell’accoglienza”, “non c’è posto per tutti”, “aiutiamoli a casa loro”, “i rom italiani dobbiamo tenerceli” sono gli elementi di un campionario verbale che si fa proposta politica, a presa rapida. “Prima noi” è esemplare nel raccontare un periodo di politiche muscolari e aggressive, per le quali il mercato oggi è florido.
A questa spirale (fuori e dentro il web) ci si può – e ci si deve – opporre. Ma non basta. Perché manca, o è fragilissima, un’alternativa capace di pensare e mettere in pratica una sufficiente radicalità utopica, tanto nei contenuti quanto nelle forme proposte.
Una proposta generatrice di un campo altro dentro il quale confrontarsi e immaginare. Non moralista ed supponente nel suo modo di intendersi migliore rispetto a chi oggi è impegnato a urlare, ma capace di trovare gli strumenti – politici e culturali – per abbassare il volume di quelle urla che in questi giorni si fa insopportabile. Sfortunatamente, infatti, non basterà sottolinearne le sgrammaticature, analizzarne le debolezze nella filiera educativa, denunciarne la mancanza di tatto e la violenza verbale. Servirà far prevalere – facendolo emergere e condividendolo – il lato femminile della politica, ancora troppo marginale e silenzioso. Un modo, empatico e creativo, di guardare al mondo. Un approccio gentile che sfida la maschilizzazione, fatta di uso e abuso della forza e dell’aggressività. Il punto di partenza per ricucire gli strappi, per prendersi cura delle vulnerabilità, per promuovere l’incontro e la mediazione dei conflitti. Un’opposizione che ci porti lontano dallo scontro, disarmandolo.
* da https://pontidivista.wordpress.com/
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