"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini *
Si può pensare seriamente di disinteressarsi di una tornata elettorale che riguarda il territorio che si abita, decidendo di osservarla con totale distacco? E’ possibile sorvolare sulle differenze fra le proposte politiche in campo accettando di rimanere alla superficie del dibattito pubblico? La risposta a entrambe le domande è ovviamente no, a meno che non si voglia tentare – inutilmente – di contraddire l’adagio che recita: “se non ti occupi della politica sarà lei ad occuparsi di te”. Non esiste però un unico modo di avvicinarsi al voto (o al non voto, anch’esso un diritto) e fondamentale è proprio il “come” si può – o si sarebbe potuto, o dovuto – approcciare le elezioni provinciali ormai imminenti.
Annunciate come storiche (da qualcuno per la discontinuità che dovrebbero generare, da altri per i danni che potrebbero arrecare al Trentino) appaiono invece deboli proprio nella capacità di determinare innovazione. Da un lato perché tendono a riproporre il ricorrente – e non del tutto onesto intellettualmente, perché totalmente semplificatorio – scontro tra non populisti e populisti, tra europeisti e antieuropeisti, tra buoni e cattivi. Dall’altro perché il grande assente, pur se richiamato in molti modi, è proprio il futuro. É paradossale che la stessa malattia, la retrotopia – un’utopia dallo sguardo bloccato rivolto al passato – , colpisca i due principali fronti che si sfidano, accomunandoli nell’incapacità di uno sguardo visionario e prospettico, progettuale e non emergenziale.
Se per la componente leghista – e relativa costellazione di liste collegate – il richiamo è ai “bei tempi andati” (Make Trentino great again?) per la rabberciata coalizione di centro-sinistra nel ciò che è stato c’è la rivendicazione di una buon governo (vero o presunto, misurabile o smentibile) e di una continuità messi a rischio da una prossima irresistibile calata di barbari, fino a oggi tenuti fuori i confini della provincia trentina. Una visione distorta e strumentale la prima, dove il “prima noi” altro non è che l’emersione di un nuovo egoismo radicale. Un progetto politico fragile il secondo, perché non in grado di fare i conti con i propri errori (anche i miei, non ne ho dubbi) e le proprie contraddizioni oltre che con la necessità di un cambio di paradigma profondo, oggi non più rimandabile.
E’ il tempo della disperanza, neologismo coniato da Treccani per spiegare il senso di spaesamento che è sentimento dominante dell’ultimo decennio. Il vecchio sta crollando e il nuovo non si vede nascere segnalano diversi commentatori, citando Gramsci e sfidando politica e società alla costruzione del ciò che ha da venire piuttosto che al guardare con nostalgia a ciò che non potrà più essere. Difendere esclusivamente lo status quo – in Trentino come in Europa – riduce oggi all’irrilevanza politica perché impedisce di assumere la responsabilità delle sfide epocali che attendono un pianeta in rapida transizione – ambientale, economica e tecnologica, sociale e culturale, demografica e democratica – e di riconoscere che, citando Walter Siti, “i desideri (e i sogni) che marciscono diventano odio”.
Le promesse di futuro che il Novecento ha instillato dentro ognuno di noi (crescita illimitata vs sostenibilità, individualismo vs dimensione collettiva, disintermediazione assoluta vs mutualismo e cooperazione, deterritorializzazione vs prossimità, tecnica vs politica) si ripropongono oggi come frutti avvelenati. Come cultura avariata e violenta che non è disposta a mettere in discussione ciò che ha avuto per immaginare – su basi alternative – ciò che vuole essere. Un corto circuito che – la contraddizione è fragorosa, al limite dell’impostura – mette nelle condizione i Trump, gli Orban, i Salvini di vestire i panni degli utopisti (pur distopici e regressivi) che sfidano il mondo e le sue evidenti ingiustizie mentre contro di loro si mobilitano fronti – “da Macron a Tsipras” nell’ultimo schema proposto in ambienti di centrosinistra – che sposano in pieno l’idea suicida che non esista alternativa al modello economico/politico che abbiamo conosciuto fino a oggi.
Un altro mondo è impossibile teorizzava Mark Fisher nel suo prezioso e spigoloso “Realismo capitalista”, saggio che spiega quanto il capitalismo sia stato in grado di fare proprio – mettendolo a valore – ogni aspetto delle nostre vite. Filosoficamente una visione lucidissima, e meno oscura e pessimista di quanto si sarebbe tentati di interpretare. Un altro mondo è possibile gridava l’ultimo movimento globale – quello che si ritrovò nelle strade di Genova nell’estate del 2001 creando le premesse per un’alleanza ampia e composita di soggetti dai tratti inediti e moltitudinari – capace di non rivendicare unicamente per sè ma per il pianeta intero, ambendo all’universalità. Descrivendo in anticipo le crisi di rigetto della globalizzazione iperliberista, dalle bolle finanziarie alle devastazioni ambientali, dalle diseguaglianze sociali ai rigurgiti nazionalisti e razzisti, fino alle contraddizioni oggi totalmente emerse della pervasività tecnologica. Un altro mondo è necessario perché è questo livello di tensione al cambiamento – rivoluzionario e utopico, pur senza perdere il contatto con la necessaria pratica quotidiana dell’agire politico – che dobbiamo esercitare in questo confuso momento storico, incerto ma interessante allo stesso tempo. Sempre Mark Fisher ci ricorda che “una cultura che tende a preservare se stessa non è una cultura”. C’è poco o nulla da salvare. C’è tutto da costruire. Esagero volutamente, per rendere meno conciliante questo ragionamento, avendo ben chiaro quanti spezzoni di cultura e ricerca politica – più o meno dimenticate, più o meno rimosse, più o meno derise – ci siano da rimettere insieme e valorizzare e quanti esperimenti di politica del quotidiano – come la chiama felicemente Ezio Manzini – vadano intrecciate dando forme a progettualità collettive capaci di trasformare i connotati della Politica.
E’ il momento – anzi, siamo certamente già in ritardo – di rileggere Thomas Sankara quando scriveva che “non si possono cambiare radicalmente le cose senza una certa dose di follia. In questo caso, la follia viene dal rifiuto di conformarsi, dal coraggio di voltare le spalle alle vecchie formule, dal coraggio di inventare il futuro”. Inventiamolo insieme, la storia non finirà lunedì mattina, qualunque risultato emergerà dalle urne.
* dal blog https://pontidivista.wordpress.com/
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