"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te
e l’altro»
Chandra Livia Candiani
da La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore (Einaudi, 2014)
di Federico Zappini
Il rumore che sale dalla strada. Le strade e le piazze parlano. Lo hanno sempre fatto. Per non tornare troppo indietro nel tempo ci dicevano qualcosa – di importantissimo – le giornate di Genova dell’estate 2001, le insorgenze rivoluzionarie delle Primavere arabe, gli esperimenti aggregativi di Occupy Wall Street e degli Indignados. Nelle ultime settimane – curiosamente agli sgoccioli del cinquantenario del ’68 – una serie di mobilitazioni hanno preso forma in Europa offrendo qualche dato utile a mappare i processi sociali (e potenzialmente politici) in atto. Processi che appaiono alimentati da un lato dalle pulsioni che attraversano il reale, e che ne mettono in crisi la stabilità, e dall’altra da una difettosa lettura delle caratteristiche fondanti di quello stesso reale che fino a oggi è stato il contesto posto a sfondo delle nostre vite.
Scopriamo quindi che esistono le piazze del “popolo del PIL”, o forse come suggerisce Alessandro Robecchi “del profitto”. Composte dalle categorie imprenditoriali, pezzi di sindacato e un variegato mondo di quella che un tempo si sarebbe definita borghesia (con tutti i limiti che Giuseppe De Rita ha mirabilmente raccontato negli ultimi decenni), sono state accolte da stampa e ampia parte del mondo politico come la sollevazione della “gente perbene”. La richiesta è quella di agire mettendo in campo tutto ciò che serve (dalle grandi opere in giù…) per far ripartire la crescita in nome di una obbligata continuità rispetto al modello economico capitalista, totalmente incardinato sul binomio produzione/consumo.
Peccato – o per fortuna, da un punto di vista che più mi appartiene – che lo scenario globale (nuova fase recessiva imminente, impatti dell’innovazione tecnologica sul lavoro, effetti del cambiamento climatico, congiuntura politico/culturale) testimoni l’emersione di un’eccedenza di complessità di cui al momento nessuno riesce a farsi carico e che rappresenta la vera sfida politica del momento.
Come non notare allora la potenza delle piazze francesi animate dai Gilet Jaunes. Possiedono una dinamiche lineare? Certo che no. Sono contraddittorie? All’ennesima potenza. Eppure solo un cieco (o un osservatore in mala fede) può fermarsi alla forma – gli scontri, il conflitto aperto nello spazio urbano – senza accorgersi della sostanza che cova dentro fenomeni di opposizione e rifiuto a un modello politico ed economico che sempre di più certifica e amplifica (paradossalmente anche quando propone interventi come la Carbon Tax, immaginati per mitigare i cambiamenti climatici) le diseguaglianze sociali e una separazione netta tra inclusi ed esclusi. Si può criticare e rifiutare l’aspetto ruvido e non pacificato di quelle piazze dalla composizione spuria, priva di contenitori dai confini sufficienti a circoscriverle oppure si può abbozzare una lettura più ampia e profonda, assumendosi il compito dell’analisi e di una successiva possibile azione.
Ci sono due commenti dalla Francia che vanno nella seconda direzione, che mi hanno colpito e hanno generato in me qualche domanda aggiuntiva, che qui raccolgo.
Il primo: “Le élite parlano della fine del mondo. Noi parliamo della fine del mese” dice una manifestante. Una frattura ampia. Di linguaggio e di urgenze percepite. Una frattura che qualcuno ha la capacità (e l’ambizione) di rimarginare? Una frattura che può essere ricomposta senza “distruggere per ricostruire chi siamo”, come suggeriscono i Colle der Fomento in un bellissimo pezzo e dal titolo evocativo come “Penso diverso”? Una frattura che – è bene ricordarlo – non si esaurisce dentro i contorni nazionali ma si riproduce, come le onde concentriche generate da un sasso lanciato in uno stagno, su scale che si allargano al pianeta intero. Riprendendo lo slogan: “I cittadini europei parlano della fine del mese, noi migranti centro-africani parliamo della fine della settimana, o di quello che succederà domani mattina”.
Il secondo: “Credo che la divisione destra-sinistra permettesse di sottrarsi alla fatalità delle lotte di classe, perché a destra come a sinistra c’erano dei poveri e dei ricchi dello stesso schieramento” commenta il direttore de Le Figaro Alexis Brézet. Che liquidare la distinzione tra destra e sinistra sia stato un terribile errore interpretativo è ormai chiaro a tutti. Premessa all’indistinto affermarsi di posizioni politiche che utilizzavano – e utilizzano – l’ambigua formula né di destra, né di sinistra per tentare di comunicare (omologando le proprie posizioni, facendo leva su un generico e impolitico buon senso) a un popolo inteso come corpo monolitico senza sfumature e tensioni al suo interno. Sono invece proprio quelle tensioni, sfociate nelle piazze, a riaffermare la presenza e la centralità delle classi sociali e delle loro differenti e spesso contrapposte rivendicazioni. Di questo magma in ebollizione deve occuparsi la politica provando a offrirne una sintesi. Lo deve fare descrivendo la propria idea di futuro, proponendo se la possiede – come emerso a margine della nuova edizione del Rapporto Censis – una nuova profezia.
Ecco allora che quando Edgar Morin parla della “crisi di una fede e della necessità di ridare forma al sociale” non si può non interrogarsi sulle piazze identitarie e oppositive (sia reali che virtuali) che punteggiano la cronaca politica di questi tempo. Le classi sociali (le loro energie e le loro turbolenze) dialogano e – più spesso – si scontrano in piazze fortemente polarizzate. Le piazze della cura – della solidarietà e dell’apertura, della partecipazione e dell’inclusione – e quelle altrettanto numerose e rumorose del rancore, dell’odio, della paura e della frustrazione che si fa rabbia. Piazze che condividono un senso comune di smarrimento, che tentano di riconoscersi lavorando su identità (propria) e nemicità (altrui) e che pure soffrono entrambe della stessa malattia che su queste pagine ho più volte richiamato. Quella retrotopia, Bauman la definì così, che ci tiene ancorati a un passato che non passa e a un presente istantaneo e sfuggente, invece che farci desiderare il futuro, contribuendo a costruirlo.
La questione sarà quindi quella di capire quali sono le caratteristiche di questa nuova fede – ancora mancante – adatta a indicare la strada per muoversi verso ciò che ancora non è, sulla (e oltre la) linea di frontiera che con tanta attenzione ha indagato Alessandro Leogrande nel suo prezioso, e troppo precocemente abbandonato, lavoro di osservazione e critica del mondo.
“E’ la frontiera.
Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze.
La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.”
L’inevitabile e l’impossibile da inseguire. Alcune delle piazze che poco sopra ho brevemente raccontato ci suggeriscono che bisogna adeguarsi all’inevitabile, che il pilota automatico (quello impostato dal mercato, dalla crescita, dalle magnifiche sorti e progressive) non vada disinserito in nome di una responsabilità che inchioda il futuro alla sola replica di ciò che fin qui abbiamo visto nel campo delle politiche economiche e del welfare, dei modelli democratici, delle sfide epocali che riguardano la società.
Altre piazze – non senza ambiguità, con difficoltà nel far sedimentare i sogni e nel fare conti con i propri peggiori incubi ed errori – stilano elenchi lunghissimi di richieste che vengono immediatamente bollate come irrealizzabili. Impossibili perché non possono che mettere in dubbio l’esistente, desiderando l’inedito e non il conosciuto, l’eccezione e non la conservazione. Per scartare rispetto alla strada precedentemente tracciata (“There is no alternative”, of course) e per capire se esista la possibilità di un nuovo patto sociale che ci metta di fronte all’esigenza di un radicale cambio di paradigma, di un atto disobbedienza collettiva che si assuma il compito di “distruggere per ricostruire chi siamo”.
Il futuro sta nell’apparentemente impossibile e nella capacità di renderlo concreto, vero, quotidiano. Il futuro sta nel superamento della frontiera che ognuno di noi – ognuno a proprio modo – presidia e difende. Non dobbiamo avere paura di varcarla. Non dobbiamo avere paura di avventurarci in territorio sconosciuto.
*Testo di appunti di cui avevo bisogno. Per mettere ordine, dove possibile. Per rompere la sensazione di impotenza, con il legittimo dubbio di riuscirci davvero. Per l’urgenza di prender parte, di aprire un campo. Per capire se c’è qualcuno in ascolto, disponibile al dialogo.
(da https://pontidivista.wordpress.com)
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