"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La crisi dei «progressisti» e le vie nuove da percorrere

papaveri

La sinistra attualmente sembra incapace di parlare a strati ampi dell'opinione pubblica. Un interessante commento del saggista Mauro Magatti

di Mauro Magatti *

In tutto il mondo si assiste a una crisi verticale dei partiti di sinistra. In fondo, i successi della nuova destra, in Italia come all’estero, sono dovuti più all’inconsistenza degli avversari che non ai reali meriti dei nuovi protagonisti. Se non altro i partiti populisti, nelle loro diverse manifestazioni, hanno preso atto che il tempo storico è cambiato. E che sia perciò necessario cercare di trovare nuove vie. Giuste o sbagliate che siano. La cosa sorprendente è che i partiti di sinistra — che negli ultimi decenni si sono autoproclamati «progressisti» — non sembrano in grado di comprendere le trasformazioni in atto. Con risultato che oggi la destra si afferma perché riesce a coagulare il malcontento che serpeggia tra ceti medi e popolari.

Fino al 1989, la sinistra ha avuto il monopolio dell’utopia. Attraverso il grande sogno di un modello sociale radicalmente diverso — o più limitatamente attraverso un’agenda riformista in grado di far pensare a una società più giusta — per decenni è riuscita a mobilitare la speranza di chi si vedeva debole e sfruttato. Poi è caduto il muro di Berlino e con esso le ideologie. Di fronte a quel passaggio storico, la sinistra era stata però capace di trasformarsi. E grazie soprattutto alla presidenza di Clinton, abile nel reinterpretare i processi che si stavano mettendo in moto con la globalizzazione. L’utopia di un mondo nuovo si è così trasformata nella possibilità di una piena libertà di realizzazione individuale. Il progressismo si è sposato con la fiducia nell’innovazione, nella scienza, nei diritti individuali. La metamorfosi è stata profonda. E ha permesso alla sinistra di diventare — tra gli anni 90 e la prima decade del 2000 — leader culturale a livello internazionale.

Tuttavia, come mostrano le tendenze elettorali degli ultimi anni, questo posizionamento è diventato col tempo un problema. Tanto che la sinistra sembra oggi incapace di parlare ad ampi strati dell’opinione pubblica. Il suo consenso si concentra nelle grandi città e tra i ceti medi e istruiti e persino tra gli imprenditori. Raccogliendo di fatto gli interessi dei vincenti della globalizzazione. Per questo, specie con gli effetti di medio termine della crisi, il suo declino sembra inarrestabile. Il problema è che l’immaginario «progressista» non funziona più, dato che a prevalere è un’incertezza esistenziale che alimenta la sfiducia nei confronti dell’economia, delle grandi istituzioni e persino della scienza. Tenuto conto della cronica instabilità degli assetti economici e politici internazionali è difficile pensare che questa tendenza possa cambiare a breve termine.

La fine delle ideologie si è accompagnata alla fine della storia. Cioè alla capacità della politica di tracciare le mappe del futuro. Non viviamo più in un cosmo dotato di senso. E nemmeno in una storia che segue una direzione. Viviamo piuttosto in un sistema che vuole essere efficiente ed espone la vita individuale a diventare scarto. Alla politica, oggi, si chiede una nuova mediazione intelligente. Qualcuno cioè che si metta in mezzo tra le biografie personali, le continue trasformazioni e l’instabilità sistemica. Senza la pretesa di modificare la struttura di fondo della società, ma con la capacità di rendere umana la vita quotidiana e sostenibile lo sviluppo.

Il nuovo spazio politico che è in via di ricostruzione riguarda luoghi, forme e soggetti di questa nuova mediazione. Se non sono la nazione né la religione (o una qualche combinazione delle due) su quali possibili basi si può pensare di ricostruire un modo decente di vivere insieme? Ci sono alcuni elementi che si possono cominciare a indicare. In primo luogo, sappiamo che i benefici della crescita tendono a rimanere concentrati socialmente e territorialmente. Contrastare tale tendenza è una responsabilità della politica. In secondo luogo, c’è il tema centrale della sostenibilità integrale della crescita che si traduce nei temi dell’ambiente e della disuguaglianza. C’è poi la questione del recupero della capacità di regolazione e tassazione verso la finanza e i grandi monopoli economici; e più in generale della capacità di stabilizzare la ricchezza prodotta sui territori. Temi che rimandano alla legalità, nazionale e internazionale. Una grande sfida è la gestione delle profonde mutazioni in corso nel mondo del lavoro, che si intreccia con la necessità di ripensare la formazione, la scuola, le forme di protezione sociale, la sanità: elementi fondamentali per garantire condizioni di vita dignitosa in una società avanzata.

Infine, c’è il ruolo che la politica può e deve svolgere nelle arene internazionali dove si giocano partite decisive per il benessere interno (dalle migrazioni all’ambiente, dall’energia alla pace). In definitiva, lo spazio di una nuova «sinistra» — cioè di una soggettività che compensi le attuali spinte populiste — si può trovare a condizione di superare il progressismo individualista. E se ci si decide per ripensare il tema del limite e del legame sociale. Chiave di volta per pensare una crescita capace di tenere insieme persone e comunità rispetto alle esigenze sistemiche della crescita. Il mondo è davvero cambiato. Vedremo chi sarà in grado di accorgersene.

* dal Corriere della Sera del 20 febbraio 2019

 

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