"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Far depositare la polvere. Aggiustare la bussola. Politicizzare la società.

dal blog di Federico Zappini

di Federico Zappini *

Un mattino di primavera. Il sole che taglia in due la stanza. Un tappeto sbattuto che rilascia un pulviscolo infinitesimale. Correnti invisibili che ne determinano andamenti confusi. Un movimento caotico di particelle.

Questo è lo stato dell’arte del mondo che ci circonda. Il tappeto è la società così come la conoscevamo, scossa da una serie di crisi che ne minano le certezze, mescolano le caratteristiche fondanti, disarticolano la composizione. La polvere siamo noi, cittadini/elettori spaesati. Le spinte che frullano questa realtà a grana sottilissima sono i fattori che generano l’entropia contenuta in quel limbo che Antonio Gramsci poneva tra ciò che non è più e ciò che non è ancora. Disintermediazione e comunicazione iper-accellerata. Frammentazione delle relazioni e apparente impossibilità di dare forma a ipotesi credibili per futuri desiderabili.

Le dinamiche sociali e politiche degli ultimi anni ci dicono che a questa volatilità è corrisposta una generale incapacità delle forze politiche di aiutarne il deposito, preferendo farsi esse stesse correnti che trasportano il pulviscolo tentando di intercettarne volta per volta – per il consenso qui e ora – l’ultimo svolazzo. Un atteggiamento dal respiro corto.

Non è tempo di mappe rigide dice Joi Ito, direttore dell’MIT di Boston. Meglio dotarsi di una buona bussola e mettersi in cammino. Per farlo serve però ridarsi il Nord, dentro il rarefarsi delle ideologie e a valle della presunta dissoluzione della dicotomia tra destra e sinistra.

Serve una rivoluzione ecologica che proponga, dagli stili di vita agli schemi di produzione e consumo su scala globale, una relazione diversa con il pianeta Terra. Un progetto articolato che si faccia carico delle conseguenze dei cambiamenti climatici mettendo sotto stress il modello economico e culturale capitalista. Quel modello che ha dominato il Novecento e che ancora, pur tra mille scrichiolii, è l’insostenibile status quo di questo opaco e contraddittorio presente.

Serve un piano per aggredire le diseguaglianze sociali fatto di un inedito rapporto tra reddito (universale e incondizionato?) e lavoro che sarà, rivoluzionato nelle quantità richieste e nelle forme assunte. Una relazione virtuosa tra welfare istituzionale e comunità di cura, esperienze puntiformi del tener insieme. Una strategia che coniughi redistribuzione della ricchezza, oggi privilegio di una minuscola minoranza, con l’emersione di metriche di valutazione del benessere individuale e collettivo da fissare con indicatori altri rispetto al PIL e alla crescita.

Serve infine un approccio alla cittadinanza fatto di modelli democratici – autonomie territoriali e città in connessione con le istituzioni europee – che guidino al superamento della centralità dello Stato-Nazione. Attivazione multiforme della partecipazione e del farsi comunità politica frutto di rinnovato sincretismo tra diversità, di nuovo assemblearismo che si opponga a ritmi di vita sempre più frenetici, di un incedere collettivo conflittuale e generativo.

Detto del cosa fare (ecologismo radicale vs Antropocene, giustizia sociale e mutualismo vs capitalismo, cittadinanza cosmopolita vs identità nazionalista) uno spunto sul come dargli forma.

Massimo Cacciari richiama al concetto filosofico di amicizia come base del riconoscimento dell’altro e propensione all’incontro. Ezio Manzini consiglia di ripartire dalla politica del quotidiano, dal progettare e fare che si attiva. Mauro Magatti invita alla messa in rete dei campi dell’innovazione sociale che cambiano i paradigmi consunti dal secolo scorso per un patto sociale coinvolgente e ambizioso, sostenibile e radicalmente democratico.

Nessuno risolve da solo la situazione. Questo è chiaro. Nessuno si può bastare e va cercato un terreno di riconoscimento ampio, di dialoghi profondi, di complicità e alleanze inedite. Le manifestazioni che si oppongono all’imbarbarimento del reale e gli scioperi – quello femminista dell’8 marzo e per il clima del 15 marzo – sono laboratori interessanti perché offrono contesti valoriali e di immaginario larghi e porosi. Nel bene e nel male, ancora pre-politici. Rallentano il ritmo (a questo serve lo sciopero), mettono in gioco la fisicità dei corpi nel tempo della virtualità, rivendicano l’impossibile perché a fare la differenza sarà lo stare insieme desiderando il futuro e non facendosi investire da esso.

In queste piazze aperte la polvere trova una sua forma più definita ed emergono le condizioni minime per la necessaria ri-politicizzazione del sociale che rivoluzioni – sovvertendoli e sostituendoli – linguaggi, pratiche e organizzazioni del politico.

Ne abbiamo bisogno, per ridarci un ordine che sembra smarrito ma che è dentro di noi.

* http://pontidivista.wordpress.com

 

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