"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini
Questa è l’introduzione che – minimamente editata – ho tenuto prima dell’incontro della Scuola degli spiazzi del 23 marzo scorso con Marco Revelli. Serve da deposito di quella prima mattinata passata in strada.
E’ impossibile iniziare questa conversazione senza fare riferimento a ciò che è accaduto lo scorso venerdì 22 marzo fuori e dentro il Palazzo della Provincia Autonoma di Trento, a margine del convegno promosso dagli Assessori Bisesti e Segnana. Preoccupano i contenuti del convegno stesso, poi ripetuti all’ennesima potenza nel Congresso della Famiglia di Verona. Preoccupa l’uso della forza pubblica all’interno di una sede istituzionale, piegata a uso privatistico e propagandistico. Preoccupa notare che la cifra del nuovo governo provinciale tenda a un significativo restringimento da un lato e radicale polarizzazione dall’altro del campo della discussione politica, con l’obiettivo neppure troppo nascosto di ridurlo al rapporto binario e verticale tra chi agisce il governo e chi ne deve subire – senza poter reagire – gli effetti.
Si tratta di una distorsione della convivenza democratica. La transizione verso le democrazie illiberali cui si rifà Victor Orban è pericolosa perché mina alle fondamenta i modelli democratici (fatti di parlamenti e bilanciamento di poteri, di confronto tra diversi punti di vista e libertà di espressione) per come fino a oggi li abbiamo conosciuti e praticati. Ecco che allora risulta necessario, urgente, decisivo – oltre che segnalare questa deriva – interrogarsi sul ruolo della Politica in questo nostro mondo, nervoso e confuso.
A me, che non credo di essere meno confuso, vengono in soccorso le parole di altri più bravi di me e proprio le parole sono lo strumento più rilevante a nostra disposizione per tentare di dare forma a un discorso comune, oggi assente. Un paio di settimane fa, all’interno di un open mic poetico, ho letto – arrampicato su una scala trasformata in palco improvvisato – un testo tratto da Europa inerme, scritto nel 1922 da Robert Musil:
“E’ un manicomio di Babilonia; da mille finestre si urlano contemporaneamente al passante mille voci, pensieri, musiche diverse, ed è chiaro che l’individuo in tutto ciò diventa il crogiolo di motivi anarchici e la morale si dissolve insieme allo spirito”.
Dentro questo frastuono negli stessi giorni – grazie al corso di francese che si svolge settimanalmente in libreria – ho conosciuto il discorso tenuto da Albert Camus nel 1957 in occasione della consegna del premio Nobel per la letteratura. In quell’intervento sottolineava il ruolo dell’intellettuale che per definizione non può mettersi al servizio di coloro che fanno (bene o male) la storia, ma si deve schierare obbligatoriamente con chi la sta subendo. Per rispettare questo proprio posizionamento all’opposizione, disobbediente, deve lavorare quotidianamente per “riunire il maggior numero di persone” e per farlo “egli non può valersi della menzogna e della schiavitù che, la dove regnano, fanno proliferare la solitudine”.
Proprio dall’esigenza di non sentirsi troppo soli prende le prime mosse l’idea di questa piccola scuola di comunità che ha le sue fondamenta nel terzetto semantico piazza, scuola, politica.
John Freeman, curatore di alcune tra le riviste letterarie più innovative (in Italia da qualche mese c’è Freeman’s, per la preziosa casa editrice Black Coffee), ha proposto un suo personalissimo ABC per resistere dentro i tempi che stiamo attraversando: A come to agitate, B come body e C come citizen. Un’arguta fotografia, che ci indica una possibile strada. Perchè in piazza ci si incontra, ci si riconosce. I corpi si toccano e diventano, nella migliore delle ipotesi, un corpo unico. In piazza ci si scambiamo pareri e sorrisi. In piazza ci si organizza – come cittadini parte di una dimensione collettiva che si ripropone – e si agisce, agitandosi. In piazza (e nello spiazzo) non ci si accontenta di transitare ma si è invitati a sostare, a perdere tempo per imparare insieme e predisponendosi al futuro, lì dove si crede ce ne debba essere uno che ci riguarda ancora tutti, senza che nessuno sia esentato dal pensarci.
Il futuro che va costruito – è questo il primo argomento della scuola che qui nasce – non può fare a meno della Politica, chiamata oggi a un compito improbo perché schizofrenico. Da un lato proporre modelli, alternativi all’esistente, sufficientemente radicali da sviluppare una discontinuità decisa rispetto a un passato che non tornerà e a un presente sbagliato. Dall’altro saper tenere insieme – proponendo un rinnovato e condiviso patto sociale – comunità frammentate che nell’individualismo, tanto del montante rancore che dei diritti soggettivi rivendicati, sembrano avere la propria caratteristica di sistema. La Politica è così chiamata a praticare insieme conflitto e cura, cambio di paradigma e coesione, rottura e rammendo.
Di nuovo le parole mi vengono in soccorso e sono quelle che Ezio Bianchi ha condiviso su Twitter qualche mese fa e che bene descrivono il compito che ci spetta per aggiustare la rotta, muovere i primi passi, trovare qualche compagno di viaggio.
Trova il tempo per ascoltare, imparerai a parlare.
Trova il tempo per pensare, sarai capace di scegliere.
Trova il tempo di leggere, diventerai sapiente.
Trova il tempo per sognare, potrai sperare.
Trova il tempo per fare una carezza, non ti sentirai inutile e solo.
Per una mattina ci siamo sentiti meno soli e ne siamo felici. Vogliamo proseguire INSIEME. Questo sarà il titolo del secondo appuntamento della scuola, previsto per il prossimo 14 aprile, alle ore 18.30 sempre in via San Martino 78. Sarà con noi Michela Murgia.
*Il dipinto riportato all’interno di questo articolo è di Hieronymus Bosch, citato da Marco Revelli durante la sua lezione per descrivere la devastante confusione del tempo che stiamo vivendo.
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