"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Stato di eccezione

Campo di Jesenovac

di Simone Casalini *

Il tempo della città è sospeso, scardinato. È saltata l’organizzazione interna, il metro unico che la regola, il moto perpetuo che cambia solo alle leggi dell’economia. Il “tempo vuoto e omogeneo” descritto da Walter Benjamin, modellato dal capitalismo, si è insabbiato. Si sono annullate anche le coordinate culturali, i diagrammi del pregiudizio che si espandono ora con altre direttrici. Nemesi del virus. Anche se i soggetti vulnerabili restano tali, ultimi anche nell’epidemia. Con il loro recipiente di pietà sempre più vuoto, accasciati lungo le vie del centro, o nella resilienza quotidiana di una disabilità o nella diagonale della precarietà e della massa, quella che non può rispettare le misure di sicurezza. La malattia conserva le gerarchie, non omologa.

L’emergenza sta generando, come è ovvio, visioni differite, binarie, contrastanti. “Nulla sarà più come prima” è un verdetto che si depone con facilità perché l’emozione è viva e pulsa. Ma, a parte la lacerazione della morte, è improbabile che il coronavirus spinga il sistema economico e sociale in un punto di caduta tale da rovesciarne gli addendi. Non è avvenuto nemmeno con la Grande crisi del 2008 che ha stimolato una manutenzione o poco più. E ora le imprese chiedono un Piano Marshall per uscire dal buio dell'isolamento e la politica offre pacchetti di resistenza che servono a mitigare la traversata nell’epidemia, a ricomporre lo status quo. Il Covid-19 non aprirà e non chiuderà un ciclo storico-economico.

Non ci sarà alcun salto antropologico né una rigenerazione dei collettivi né una distruzione – come nella esteticamente insuperabile sequenza finale di “Zabriskie Point” di Antonioni – del consumo di massa che si è inghiottito in questi decenni chili di coscienze. Che hanno danzato fino all'ultimo sulle nevi per consegnare alla storia una goccia di nulla, per ricordarci il cortocircuito in cui viviamo – a proposito di modelli economici – dove da un lato riduciamo le fessure di diffusione del virus e dall'altro le riapriamo per sostenere le categorie che reificano l'inverno, trasformandolo in oro.

Ci saranno piuttosto, nel momento della necessità, piccole pratiche di solidarietà che si affermeranno a intermittenza e poi scompariranno o rimarranno appannaggio di chi le ha nel proprio orizzonte. Il coprifuoco serale, dettato dal nuovo decreto del governo Conte, cancellerà tempi e riti della città, ma ne schiuderà altri. Più intimi e familiari, relazioni di prossimità affettiva. E poi? Questa forma ingenua di romanticismo distillerà le ultime gocce con gli ultimi secondi del decreto. Chi riflette criticamente sulla Storia e sul suo tempo, sui processi di verità e sulla liquefazione della società, troverà nuovi motivi per cercare di decostruire il presente, per sovvertire lo status quo. E forse anche nuove prassi. Ma saranno confinati a sé perché la fine del virus non sarà l'inizio di una nuova storia, ma del ritorno alla normalità. Con i suoi archetipi di stampo individuale.

Ora siamo nella zona rossa. Finalmente diranno i filocinesi (anti-comunisti). Siamo in quello che Agamben definirebbe “stato di eccezione”. Libertà e diritti limitati, in questo caso per un'emergenza sanitaria. La gradualità con cui sono arrivate le decisioni riflettono anche la delicatezza del tema. Non si sospendono con leggerezza le libertà, individuali e collettive, tanto più in un quadro di grande incertezza e contraddittorietà delle informazioni sul coronavirus. Anche se l’impiego di tali libertà è spesso svilente. Attraversiamo questo deserto sociale, necessario, per riconquistare l'unica libertà (e normalità) che sembra avere un valore. Quella di sognare un mondo diverso, più giusto. Forse un giorno capiterà.

* L'editoriale di Simone Casalini nel Corriere del Trentino di oggi 12 marzo 2020

 

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