"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La guerra, i giovani, i vecchi.

Paul Klee amore per la Sicilia

di Francesco Picciotto

(28 marzo 2020) In questo tempo della mia vita le grandi questioni invece di fare nascere in me il desiderio di affrontarle, sviscerarle, discuterle, finiscono invece per ammutolirmi.

Per settimane, mesi, durante i quali assisto a dibattiti accesissimi, leggo tutto quello che redattori prolifici scodellano sulle pagine di social saturi, io non riesco a produrre un pensiero che sia uno, non riesco a definire un unica idea che mi sembri degna di nota e quindi taccio. Poi, magari dopo mesi appunto, magari quando il fatto, la notizia sono belli e decotti a me sembra di scorgere un significato, una “rima” ed è allora che scrivo.

Purtroppo quello di cui voglio parlare adesso non è questione passata e non perché una volta tanto io sia stato particolarmente reattivo ma perché si tratta di qualche cosa che c'è da tempo e che è destinata ad esserci ancora a lungo. Parlo di questa condizione terribile ed innaturale nella quale siamo immersi da settimane, questa condizione che ha rivoltato le nostre vite e che ci costringe ad una sorta di esilio forzato dal quale proviamo a ricucire relazioni, sicuramente difficili e forse impossibili, con le persone a noi care, con il nostro pianeta, con l'universo che si agita dentro di noi, con la nostra storia.

Leggo tante cose che non vale la pena leggere e tante altre che li per li mi sembrano orientate a trovare significati nuovi, a immaginare un futuro diverso per tutti noi una volta superata la tempesta, a ripensare a molti degli errori che hanno caratterizzato il nostro “tempo di prima” per evitare di traghettarli con noi nel nostro “tempo di dopo”.

Questa mi sembra una buon intenzione, mi sembra che sia veramente il risultato che la divinità, l'umanità nella sua visione più astratta, l'universo, che ci hanno, come si farebbe con un ragazzino discolo, chiusi nelle nostre case in punizione, aspettano da noi.

Se allora questo è il compito che ci spetta in questo tempo di quarantena voglio mettere in guardia da tre possibili errori che mi sembrano molto presenti nel dibattito attuale, anche quello più evoluto e conducente. Un errore “antico quanto l'uomo” e che perciò ci portiamo dietro da sempre, e due errori “recenti”, tutti e tre possono essere sintetizzati con altrettante parole: la guerra, i giovani, i vecchi.

La guerra: anche questa volta, per quanto non sia essa stessa, anche se sempre presente sottotraccia alla nostra vita quotidiana, la causa di questa nostra crisi globale, sembra che non si riesca a liberarcene. E anzi essa ritorna nelle nostre visioni, nel nostro linguaggio, nella nostra comunicazione, proprio li dove stiamo mostrando le nostre migliori e più "pacifiche" capacità di reazione. Quello degli ospedali, delle farmacie, della protezione “civile” diventa allora un “fronte”, sono “guerre o battaglie” quelle che dobbiamo vincere, sono sempre “eroi caduti in trincea” le persone che con tutte le debolezze e la forza che connaturano l'essere umano ogni giorno perdono la vita. E quindi noi tutti ci troviamo in un “regime di guerra”, proiettati nuovamente, in maniera assolutamente impropria, in un'epoca “bellica”, e per primi ci riappropriamo di un linguaggio “marziale” fino agli estremi di chi propone l'uso dei lanciafiamme per risolvere gli assembramenti.

E' veramente questo quello che vogliamo per noi? Non possiamo, anche solo vagamente, considerare la possibilità che sia questo il tempo per una nuova narrazione e che questa nuova narrazione possa prevedere la nascita di un nuovo linguaggio buono per scrivere un'epica di pace?

I giovani: in un post di tre anni fa dal titolo “Abbiamo sbagliato tutto” scrivevo: “Richiamiamo i figli alla casa. Invitiamoli a ritornare dal loro pellegrinaggio, ché il mondo è buono per il cimento e per fortificare l’animo, ma il terreno giusto per le radici è qui e non altrove. Richiamiamo i figli da quell’esilio dove con troppa superficialità li abbiamo mandati. Chi si occuperà domani dei vecchi se non ci saranno i figli a farlo? Chi farà in modo che la linea non si spezzi? Noi siamo i vecchi. Richiamiamo i figli”. Parlavo di quei giovani che oggi in fretta e furia, suscitando il disappunto di tutti i passeggeri della “Zattera della Gorgone”, sono rientrati dai luoghi nei quali studiavano e lavoravano. Quei giovani che sono stati pesantemente criticati fino ad essere criminalizzati non sono giovani qualsiasi, sono i nostri figli, sono i figli di questa generazione di cinquantenni/sessantenni (la mia generazione) che io ritengo colpevole delle peggiori nefandezze commesse sul nostro pianeta prima fra tutte quella di commettere il reato e attribuirlo ad altri.

Questi figli li abbiamo mandati noi in giro per il mondo, ci siamo noi riempiti la bocca di frasi come “in questa terra non c'è lavoro...le università della nostra isola fanno schifo...il loro futuro è altrove” senza porci mai il problema che quello che stavamo facendo era proprio togliere a questa terra l'ultima speranza che è costituita appunto dai “suoi giovani”. Ci è piaciuto tanto fare gli “americani”: “a 18 anni via da casa... figurati, non sono più i tempi in cui i figli restano in casa fino a trent'anni... niente bamboccioni per casa... via a farsi la loro vita altrove”, per poi richiamarli subito fra le “cosce della mamma siciliana” (categoria all'interno della quale annovero anche e soprattutto i padri siciliani di questa generazione) appena la situazione si è fatta calda. Quelli però non sono i figli nostri, sono i figli degli altri che attraversano lo stretto come barbari e che ci vengono ad infettare. Anche io domani, se le cose fossero andate diversamente, avrei probabilmente mandato i miei figli a studiare fuori, anche io posso capire l'urgenza di un genitore affinché il proprio figlio abbia opportunità che questa terra non concede, posso capire che molti di noi considerino più pervia la via di tentare “la fortuna” lontani anziché provare ad essere la fortuna di questa terra, ma allora tutto ciò dobbiamo assumerlo in maniera responsabile tagliando definitivamente, anche se con sofferenza, il sicilianissimo cordone ombelicale che ci lega a questi figli che abbiamo voluti lontani “fino a prova contraria”.

E infine i vecchi: in questi giorni i social sono invasi dalla dolorosa giaculatoria su questa orribile epidemia che ci starebbe privando dei nostri vecchi, della nostra memoria storica, e solo alcune nazioni (fra cui l'Italia) starebbero rispondendo “umanamente” a questo rischio e come Enea con il vecchio padre Anchise, stano scegliendo di portare la propria storia, il proprio passato, sulle spalle al di la del guado. Fra tutte le ipocrisie questa è quella che la generazione dominante (appunto i cinquantenni/sessantenni di cui parlavo prima) ha confezionato meglio. E a questa mi sento di rispondere con delle domande: ma sapete di quali vecchi stiamo parlando? Non sono forse quelli che avevamo già seppellito nelle case di cura a disinvestire socialmente durante gli ultimi anni delle loro vite? Non sono forse quelli che avevamo allontanati dagli occhi e dal cuore per costringerli in sepolcri per i vivi? I vecchi ai quali la nostra retorica fa riferimento (si tratta sempre della generazione di cui faccio parte) non sono il buon Anchise, o i vecchi dei miei villaggi africani, riuniti alla sera attorno al focolare a trasmettere ai giovani (che abbiamo mandato a studiare e vivere altrove) l'esperienza maturata in una lunga vita. I vecchi, quelli veri, quelli che questa epidemia sta falcidiando, sono quelli che avevamo già ucciso, che abbiamo chiuso nelle case di riposo che, guarda caso, stanno diventando i peggiori focolai dove imperversa il virus (al quale alla fine stiamo solo demandando il lavoro sporco) che sembrerebbe essere stato portato proprio da quei giovani che dopo avere disperso per il mondo ci siamo premurati di fare rientrare al confortevole focolare.

Se quello che verrà è un tempo nuovo, un nuovo percorso che ci si prospetta e al quale dobbiamo prepararci allora forse vale la pena, come per ogni nuovo cammino da intraprendere, riempire il nostro zaino con vecchi oggetti che hanno dimostrato nel tempo la loro efficacia e con oggetti nuovi, buoni a risolvere problemi, a soddisfare bisogni, che non siamo stati capaci di risolvere e soddisfare in passato.

Allora lasciamo al passato la guerra e proviamo ad immaginarci in un tempo nuovo in cui la guerra non sia più presente nelle nostre vite così come nelle nostre parole e non perché un virus impone il “cessate il fuoco” ma perché noi siamo stati capaci di liberarcene per sempre. D'altra parte però recuperiamo dal passato quell'idea vecchia e solida di aggregazione sociale (come suona strana questa parola in questo tempo) contenuta in parole come: famiglia, vicini di casa, associazioni per provarci a immaginare in un tempo in cui la crescita di una società è tanto più significativa e ricca quanto più questa società sia stata capace di tesaurizzare il contributo, attorno al desco domestico o a quello della politica, dei giovani e dei vecchi.

Ai giovani, d'altra parte, voglio dire di non preoccuparsi: la mia generazione per questioni virali o anche solo di tempo sta scomparendo, la mia generazione che non è stata capace di darvi gli strumenti giusti per liberarvi veramente, sempre pronta però a colpevolizzarvi quando rispondevate al suo richiamo o quando sfilavate sui viali delle città per chiedere maggiore attenzione per il nostro Pianeta, fra qualche anno non sarà più qui a governare questo mondo. Per allora il mondo sarà vostro e spero veramente che riuscirete a fare quello di cui noi non siamo stati capaci.

A tutti gli altri, in questa strana mattina di fine marzo, voglio regalare parole di colui che, come molti sanno, considero il mio faro: Primo Levi. Fra le sue righe cerco sempre consolazione nei momenti di smarrimento, oppure la spinta definitiva che il genitore saggio sa imprimere al figlio perché vada in acque alte per imparare a nuotare da solo.

Da “Se questo è un uomo”:
«Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino voi non gli dareste oggi da mangiare? Nella baracca 6A abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato».

 

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