"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

I limiti della storia (occidentale) e l'avanzare delle altre storie

Schiavismo in America

di Simone Casalini

L’omicidio di George Floyd, soffocato a Minneapolis da un poliziotto bianco, grano di un rosario di violenza «statale» senza fine, ha ridestato il mondo (Trento e Bolzano comprese, con partecipate manifestazioni di piazza) al tema del razzismo quando questo sembrava ormai sdoganato nella forma proteiforme e ambigua della politica contemporanea. Otto minuti e 46 secondi di filmato, il tempo dell’agonia di Floyd pressato dal ginocchio dell’agente Derek Chavin (con un pedigree di 18 denunce per violenza in 19 anni di servizio), reo di aver pagato con una banconota contestata da 20 dollari un pacchetto di sigarette, hanno segnato un principio di smottamento nella coscienza di un Paese, gli Stati Uniti, a cui non sono serviti due mandati del primo presidente afro-americano (Barak Obama) per rimuovere il razzismo di Stato, e più in generale nell’Occidente che ha malcelato le ombre sanguinarie della sua storia, che poi è la Storia. Addirittura scatenando un’ondata iconoclasta e una revisione di giudizio (non revisionismo) su alcuni personaggi di questa Storia universale, ampiamente compromessi dal fenomeno coloniale.

Il problema, però, è proprio questo. Schiavismo e colonialismo — la cui eredità s’incunea fino ai nostri lidi sociali — sono dispositivi che non hanno lasciato colpe né giudizi storici né memoriali e nemmeno statue per le vittime.

Sono temi assenti nella grande narrazione occidentale, marginali nella storiografia, in un certo senso metabolizzati con la variante della «contestualizzazione». Quando il peso degli eventi sopravanza la «missione civilizzatrice» si oppone il contesto storico differente come se uccidere un nero cento anni fa o violentare un’adolescente o esprimere convinzioni razziste fossero reati minori, ascrivibili ad altri costumi e culture.

La nostra cultura rimane ancora oggi fortemente segnata dal tratto di superiorità che ha sostenuto la ragione coloniale, quell’idea di educare l’Altro alla civiltà in una sorta di pedagogismo etico-civile che l’Illuminismo ha rafforzato. E c’era (c’è) l’idea di una naturale inferiorità della «gente di colore» — nella conquista del Nuovo mondo accompagnata dalla dottrina teologica che gli indigeni fossero posseduti da satana e dunque la necessità di convertirli al cristianesimo — che ritroviamo in fondo in tutti gli autori a noi più cari. A partire da Kant — pur critico con le barbarie del colonialismo — che nel secondo volume della «Geografia fisica» (1802) scriveva che «l’umanità possiede la sua massima perfezione nella razza bianca» mentre «gli abitanti di pelle gialla dell’India hanno già un talento minore, i negri stanno ancora più in basso, e l’infimo gradino è quello di una parte delle popolazioni americane». I nativi che sono stati poi ridotti da dieci milioni a poche decine di migliaia e confinati in riserve. Il mercantilismo, il commercio, l’esigenza di attingere a nuove risorse e mercati sono stati la grande spinta all’espansione di modelli coloniali differenti, ma tutti rivolti all’eurocentrismo e al dominio di un continente sugli altri.

Dei crimini coloniali non esiste nemmeno una contabilità e neppure della tratta degli schiavi che per tre secoli ha solcato l’oceano Pacifico. Le cifre sono abbozzate (dieci milioni di morti nel genocidio del Congo belga, ma potrebbero essere venti; 21 milioni di africani morti nella traversata verso l’America, ma qualcuno sostiene 70), gli episodi sgranati singolarmente. Non esiste una filologia delle vite spezzate, non esistono nomi e cognomi mentre dei crimini commessi in Occidente su bianchi — a partire dall’Olocausto — sappiamo tutto. Non esiste nemmeno una giornata della memoria a testimoniare la nostra rimozione. Su questo doppio registro Aime Césaire nel «Discorso sul colonialismo» sosteneva che «in fondo ciò che non si perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano stati prerogativa esclusivamente agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai negri dell’Africa. È questo il grande rimprovero che rivolgo al pseudo-umanesimo, e cioè di aver, per troppo tempo, sminuito i diritti dell’uomo e di averne avuto, e di averne ancora, una concezione ristretta e limitante, parziale ed esclusiva e, tutto sommato, odiosamente razzista».

Tuttavia qualcosa sta cambiando. Ciò che inquieta profondamente le società occidentali è l’elemento postcoloniale, la ricomparsa dell’ex suddito sotto altra veste con la globalizzazione che gli ha fatto ripercorrere a ritroso l’itinerario coloniale, la ricostruzione di nuove classi di storici nelle ex colonie (private fino alla decolonizzazione di una loro storiografia) che stanno cercando di riscrivere le loro storie — in India da decenni il dibattito è aperto — e premono perché queste entrino e stravolgano la Storia universale. Le narrazioni alla Trump, il sovranismo sono anche un tentativo esplicito di fermare questo processo, di ricostituire una differente subalternità dell’alterità, di riaffermare la supremazia del colore sull’uguaglianza. Ma sarebbe semplice circoscrivere ad un campo politico, o a idee proto-fasciste, tali intenzioni. Il pregiudizio razziale e culturale è molto più profondo e alla fine riguarda ciascuno di noi, le nostre esitazioni nell’incrociare uno sguardo, il desiderio di stabilire regole di convivenza non negoziabili, di giudicare e condannare l’errore di chi non ha avuto una paesaggio umano in cui crescere, di non riconoscere i diritti, la piena cittadinanza.

Nei libri di scuola il colonialismo è rappresentato ancora come una delle tante epopee del percorso occidentale, non come una macchia. Riscrivere la storia è, allora, il primo atto di riparazione. Una storia plurale e non univoca dove il peso della sofferenza non si baratti con qualche buona legge. Una storia che in prospettiva sarà sempre più intrecciata e connotata da linee di ibridazione. A quel punto sarà possibile occuparsi delle statue e dei simboli, ri-semantizzarli alla luce di una nuova consapevolezza.

 

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