"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Ugo Morelli
“…l’infinito bisogno di discorso
in una società democratica
in cui il consenso
non può mai essere raggiunto in maniera definitiva,
né dovrebbe…”
[Michel Foucault]
“Affondava le radici nel futuro”
[Pierluigi Cappello]
Ripensare e rivoluzionare il lavoro
Quando si giunge al limite, per proseguire bisogna tornare all’originario. Ogni soluzione che si proponga originale non solo non può bastare, ma distoglie e distrae dal fare quello che va fatto. Tornare all’originario vuol dire cercare di dare vita a una nuova origine della storia, di ogni storia. La storia che ci interessa è la storia del lavoro. Una storia, appunto, e come tale scrivibile in modo diverso da come è stata scritta in un’esperienza precedente e, soprattutto, in quanto storia di un fenomeno fatto da noi umani, da noi stessi modificabile.
Quella storia, la storia del lavoro, così come più o meno la conosciamo, ha le sue origini con l’affermazione dell’agricoltura e della sedentarietà e, quindi, con il consolidamento della divisione del lavoro. Una lunga durata con tali e tante trasformazioni da rischiare di renderne irriconoscibile l’epistemologia e le prassi di base, le costanti, insomma, che sono rimaste le stesse fino a noi.
Abbiamo iniziato a svolgere la nostra azione di esseri appartenenti ad una specie che nel primato dell’azione e nella vita activa trova una sua distinzione, traducendola nel fenomeno che chiamiamo lavoro, allorquando nelle forme cooperative, eusociali, imitative e emulative, abbiamo fatto uso del nostro comportamento simbolico per iniziare a dare forma alla funzione, traendone risposta per la nostra ricerca di significato. È alquanto probabile che il lavoro, per quello che è per noi, nasca da quel momento e sia generato principalmente dal significato e dal senso dell’opera e dal riconoscimento per chi la compie.
Quella componente discrezionale ha continuato e continua ad essere la principale leva motivante nel nostro rapporto con il lavoro e nelle nostre esperienze lavorative. Anche in combinazione con la componente strumentale dell’azione per produrre risposte per la sopravvivenza, a muovere gli umani verso l’opera è il significato che ne traggono. In questo senso il lavoro è un dato originario interno che si esprime in forme emergenti dalla connessione col mondo esterno, con la mediazione dei principi di immaginazione e di realtà.
Progressivamente quell’aspettativa di significato, di senso e di riconoscimento è stata canalizzata in forme organizzate basate sulla divisione del lavoro, a livello orizzontale. Mentre a livello verticale prendevano il campo le gerarchie e si affermavano le società gerarchiche, ancora una volta per via simbolica, e soprattutto per il sacro legato alla necessità di elaborare l’angoscia di morte, e per il potere legato alla necessità di rispondere all’ansia di sicurezza. Progressivamente si è verificata un’espropriazione del significato dell’azione lavorativa in cambio della possibilità di cedere come merce la dimensione strumentale, al fine di procurarsi i mezzi per sopravvivere. Si sono create le premesse per trasformare in scambio e, quindi in merce, la domanda e la ricerca di significato e di riconoscimento.
Il senso e il significato del lavoro, però, non hanno mai smesso di essere la materia prima dell’azione lavorativa umana e della motivazione verso l’opera e il ben fatto. Come sa bene anche chi trascura quegli aspetti in nome del lavoro come solo strumento da vendere e comprare, in quanto è in grado di verificare che a muovere le persone nell’azione lavorativa sono l’intersoggettività riconoscente e la ricerca del bene vicendevole. Si conta su quella dimensione per ottenere i risultati profittevoli attesi e pretesi, anche se non abbiamo mai costruito organizzazioni del lavoro centrate sul significato, le relazioni e l’intersoggettività, considerando alla stregua di accessori questi fattori. Il sindacato stesso ha assunto più o meno tacitamente una visione principalmente strumentale, da destino ineluttabile, colpa da espiare, da dovere da compiere, del lavoro.
Assumere una prospettiva originaria dovrebbe voler dire mirare a collocare il lavoro nell’esperienza umana, decentrandolo e proponendolo come fonte di senso e significato, come fonte di legame intersoggettivo, non per cercare di liberare gli esseri umani dal lavoro, né per cercare di liberarli nel lavoro, ma per liberare il lavoro dalle ideologie strumentali e porlo come una delle componenti dell’esperienza, punto. Anche perché non si tratta di liberare nessuno da nulla, in quanto se di libertà si tratta, ognuno può solo liberare se stesso cercando di farlo insieme a un altro o ad alcuni altri.
Ogni compito rivoluzionario pare impensabile, all’inizio
Ogni rivoluzione, all’inizio dei fatti, non lascia margini di possibilità, pare impensabile. Eppure, il lavoro richiede oggi una rivoluzione necessaria, non degli aggiustamenti, se vogliamo svilupparne il senso e il valore e creare una società giusta, sostenibile e vivibile.
Il lavoro è tuttora considerato e trattato, implicitamente e da tutti i soggetti, secondo categorie e pratiche orientate al passato, anche in quelle che sembrano proposte innovative, come ad esempio gli entusiasmi acritici con cui si parla del cosiddetto smart-working o lavoro snello al tempo della pandemia.
Non riusciamo a pensare e a vivere il lavoro in modi adatti alla creazione di una civiltà sostenibile e planetaria, perché siamo incagliati in vincoli ideologici e consuetudinari che continuano a definire i codici delle nostre vite. Il principale di quei vincoli riguarda l’orientamento di base con cui il lavoro si pensa e si pratica, sia a livello personale, che sindacale, aziendale e collettivo.
Questo breve contributo è basato su una distinzione ritenuta necessaria, sia per la conoscenza che per l’azione. Un necessario punto di partenza. Le premesse epistemologiche e operative con cui il lavoro si può concepire assumono:
da un lato il lavoro come destino, condanna, ideologia, sacralità e merce da vendere e da comprare;
dall’altro il lavoro come azione relazionale umana generatrice di senso e significato individuale e collettivo.
L’ipotesi proposta è che non riusciamo a innovare radicalmente e profondamente il lavoro perché non ci disponiamo finalmente a decostruirne le premesse e a considerarlo, a praticarlo e a gestirlo in base alla seconda modalità, e perpetuiamo più o meno acriticamente la prima.
Continua, infatti, a prevalere oggi il primo orientamento con le sue proposte e le sue scelte.
Nelle analisi e nelle scelte riguardanti il lavoro, si parte più o meno implicitamente, infatti, dal lavoro come necessità e come dovere; dall’ideologia del lavoro come destino, come concessione e come sacrificio; dalla morale della fatica, dell’espiazione e della colpa, e dell’occupazione lavorativa come fattore reputazionale e identitario. Il lavoro in tal modo si ammanta di un senso normativo che gli conferisce una connotazione sacrale e religiosa a prescindere dalle sue caratteristiche e dai suoi legami con gli altri aspetti fondamentali della vita. Unitamente a questi aspetti, sono gli interessi materiali intorno al lavoro e, quindi, il lavoro come oggetto di scambio, cioè come merce, a prendersi l’intera scena del modo di intenderlo e praticarlo. Sacralità e merce finiscono per essere parte della stessa definizione dominante del valore del lavoro.
Sono queste le forme di lavoro da cui ci accingiamo a riprendere, verso cui spingiamo, in seguito ad ogni crisi, a maggior ragione utilizzando la disoccupazione e i rischi occupazionali come cause di forza maggiore che impedirebbero di riflettere e di pensare a diverse prospettive e, soprattutto a fare un programma radicalmente alternativo.
Neppure il trauma relativo a Covid_19 ha evidenziato il tacito frame insostenibile nel quale siamo immersi. Anzi, le reazioni sono state, nella principale parte dei casi, di sorpresa di fronte all’inatteso.
Attesi imprevisti
Ma dov’è l’inatteso? Non esiste l’inatteso. Nell’evoluzione di ogni cosa o fenomeno il passato e il presente sono il grembo del futuro e ne contengono i segnali essenziali. L’evento era sempre già presente, ma non colto dal nostro orizzonte, perché accecati dalla tenacia con cui perpetuiamo le nostre abitudini, anche quando sono autodistruttive e distruttive. Non c’è evento critico che componga il mosaico del dramma collettivo evidenziato dalla pandemia Covid_19, ad esempio, che non fosse già in atto da tempo nella nostra esperienza e nelle nostre vite. Le forme di vita, dal lavoro, alle risorse naturali, ai consumi, alla produzione, al tempo e ai suoi usi, allo stress nella tenuta esistenziale individuale riguardo ai ritmi di vita, all’infelicità, all’indifferenza e alla solitudine, alle città, all’insostenibilità nell’uso delle risorse, all’aria, all’acqua, al suolo, alla disuguaglianza, all’iniqua distribuzione delle risorse, per citarne solo alcune, erano non solo in crisi ma al limite o oltre il limite della sostenibilità. Erano, insomma, come una bomba sul punto di esplodere. Covid_19 sta svolgendo la stessa funzione che svolge un evidenziatore con cui si sottolineino le parti di un testo: le parole e le righe ci sono già tutte ma giacciono sulla pagina e non vediamo di non vederle; l’evidenziatore le rende visibili.
Da dove bisognerebbe partire per guardare il lavoro da un altro punto di vista? L’ipotesi è che ci voglia una scelta radicale, che connetta i valori storici del tempo profondo delle relazioni e dell’azione umana, con il tempo, le forme di vita e le condizioni demo-economiche del presente e del futuro.
Bisognerebbe partire dal significato del lavoro e dall’intersoggettività al lavoro, risalendo all’originario, con una consapevolezza inedita e solo oggi possibile. Quella possibilità esiste per la prima volta, in quanto non abbiamo mai avuto a disposizione le possibilità di connessione tra gli esseri umani e i patrimoni di conoscenza che abbiamo oggi. L’azione ignorante è decisamente meno giustificabile e possiamo riandare all’originario per immaginare differenti evoluzioni possibili rispetto a quella effettiva attuale. È vero che quella stessa connessione tra gli umani genera problemi inediti, e la stessa pandemia non si sarebbe verificata a livello planetario senza la mobilità globale del nostro tempo e senza l’infosfera che tutti ci connette e per molti aspetti ci domina, ma è proprio della nostra responsabilità fare in modo che le opportunità delle interconnessioni globali prevalgano sui rischi di distruzione e autodistruzione. Per farlo una condizione è riandare all’originario e riconsiderarlo, per valorizzare gli aspetti di efficacia della storia, anche profonda, apprendere dagli errori e tendere a generare inedite e più sostenibili soluzioni.
All’origine dell’azione umana finalizzata che darà vita alle prime forme di lavoro c’è la cooperazione e l’eusocialità. Siamo esseri sociali alla costante ricerca di significato [J. Bruner, La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992] e il lavoro è una delle fonti possibili di significato nelle nostre vite. Il lavoro per noi umani è strettamente legato alla nostra creatività, alla ricerca del ben fatto da cui trarre riconoscimento, alla relazione con gli altri che soli possono esprimere quel riconoscimento. Prima di tutto nasciamo e siamo intersoggettivi; ci individuiamo nelle relazioni e diamo significato a noi stessi attraverso gli occhi degli altri; agiamo cooperativamente con altri per fare cose e artefatti di qualsiasi genere alla ricerca di riconoscimento e utilità da condividere. Perché, allora la creatività e la ricerca di significato, gli aspetti simbolici come principale fonte di motivazione all’azione e al lavoro, sono ritenuti ben che vada secondari e accessori nel modo di intendere e gestire il lavoro, nel modo di progettarlo, organizzarlo e, addirittura, di tutelarlo e difenderlo?
Linguaggi e prassi da creare
Un vincolo riguarda una concezione e una prassi del lavoro come merce da vendere da parte di chi ha solo quello per vivere e da comprare per chi domina finanza e economia. L’altro riguarda i vecchi linguaggi e le vecchie prassi del lavoro come destino, come valore supremo della vita, come unico mezzo per essere liberi, simbolizzato per sempre da un’agghiacciante scritta. Presi in questa tenaglia, di volta in volta ci affidiamo a quelle che sembrano “rivoluzioni”, come l’automazione, l’infosfera, la robotica, gli assegni assistenziali di diverso genere, dal reddito di cittadinanza, ai sussidi, alla cassa integrazione. Tutto questo apparato, che andrebbe visto come un unico fenomeno dalle tante facce, indica che siamo dentro un modo di pensare e di agire da cui non riusciamo ad uscire.
Non riusciamo, cioè, a pensare il lavoro a partire dal suo significato relazionale, emancipativo, realizzativo, relativo, da cui far discendere gli aspetti organizzativi, di scambio, contrattuali, normativi. Se si pone al centro l’azione e la sua produttività riconoscibile come una delle fonti del significato della vita umana, il lavoro emerge per i suoi significati esistenziali. Il modo di offrirlo, di domandarlo, di organizzarlo, di tutelarlo, di trovarlo, di cambiarlo, dovrebbero dipendere dal significato esistenziale, se no perché si lavora? Si lavora per vivere o si vive per lavorare. Si lavora per sé o si lavora solo per altri?
A partire dal significato del lavoro e non dal lavoro come merce, ne derivano conseguenze profonde sui tempi di lavoro, sulla distribuzione del lavoro, sull’appropriazione dei risultati del lavoro, sui compiti, sui luoghi dove lavorare, sul benessere lavorativo, sulla produzione di che cosa e per chi…sulle forme di vita sociale, sulla sostenibilità, sulla mobilità, sulla distribuzione della popolazione sul territorio, sulle congestioni e sugli abbandoni dei luoghi, sulla vivibilità e la tenuta dei paesaggi della nostra vita.
Le conseguenze che se ne possono e se ne devono trarre esigono un salto di qualità analitico e applicativo. Le forme di lavoro da creare esigono un riconoscimento della connessione fra le esperienze molto lontane, il presente e la necessità di proiezioni e anticipazioni future. L’azione umana finalizzata del tempo precedente l’agricoltura e dei primi millenni dell’attività agricola, in particolare nel neolitico inferiore, nei tempi della dea madre [M. Gimbutas, The Language of the Goddess. Unearthing the Hidden Symbols of Western Civilization, San Francisco, Harper & Row, 1989, Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell'Europa neolitica [1989]; pres. di Joseph Campbell; trad. da Nicola Crocetti, Milano, Longanesi, 1990, Vicenza, Neri Pozza, 1997, trad. da Selene Ballerini: Roma, Venexia, 2008], contiene indicazioni fondative e irrinunciabili, così come la dematerializzazione del lavoro ai tempi dell’infosfera ne contiene. Si tratta di praticare l’indicazione di un poeta come Pierluigi Cappello: “Affondava le radici nel futuro” [P.L. Cappello, Un prato di pendio, Tutte le poesie 1992-2017, Rizzoli, Milano 2018], e di un pensatore del futuro come Ivan Illich che, tra gli altri contributi, si è impegnato a porre al centro la convivialità e la compresenza dei valori dell’antico nella progettazione del futuro, con una visione di particolare ampiezza e fecondità [I. Illich, La convivialità, Mondadori, Milano 1974]. Lo strumento conviviale, anche nel campo del lavoro, rispetto allo strumento moderno, fondato sull’espropriazione dell’esperienza, secondo Illich, risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l'autonomia personale; non produce né schiavi né padroni, estende il raggio di azione personale.
* Questo articolo è stato scritto per la rivista online della FIM Lombarda http://www.fimlombardia.it/passionelavoro/
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