"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Quell'uomo buono, libero e senza parole.

Matteo Di Menna

In ricordo di Matteo Di Menna


Le nostre vite sono di corsa, crediamo che il nostro tempo sia infinito e che possa esserci sempre un'altra possibilità. Capita che prendiamo strade che ci portano lontano da persone che ci sono care, oppure che si spezzi qualcosa, che magari ci ripromettiamo di ricomporre senza che poi se ne faccia nulla. Sappiamo che ciò che rimane sono le relazioni profonde e l'amicizia, ma presi come siamo dalle nostre piccole o grandi autoreferenzialità, nemmeno ci accorgiamo di smarrire le cose che contano di più. Insomma, il mestiere di vivere non lo impariamo mai.

Poi all'improvviso una telefonata. “Non ti ho visto al funerale” mi dice Claudio. “A quale funerale?” rispondo io. “Ma come, non lo sai? Davvero non sai niente? Matteo...”.

Mi viene un groppo alla gola. “E' stato nei giorni caldi di luglio, quasi un mese fa. Un infarto, in casa. Eravamo in tanti a salutarlo, il giro dei vecchi amici, i Camei” continua Claudio. “Pensavamo che tu lo sapessi”. Invece non sapevo nulla. L'effetto è quello di una lacerazione, che ti strappa un pezzo della tua stessa vita.

Matteo Di Menna era parte di una generazione di meravigliosi sgangherati, irregolari forse, ma che c'erano sempre dove occorreva esserci e che hanno segnato il tessuto sociale e urbano della città di Trento. C'è stato un tempo in cui con Matteo trascorrevamo giornate intere, giorno e notte, nelle occupazioni che avrebbero cambiato il volto dei nostri quartieri popolari. Una su tutte, quella del vecchio ospedale Santa Chiara che nelle intenzioni dell'amministrazione comunale avrebbe dovuto diventare la copia del centro direzionale “Europa”. Era il mese di giugno del 1975 e l'occupazione sarebbe durata almeno sessanta giorni. Si faceva sempre il mattino, in attesa che arrivasse qualcuno a darci il cambio. E la vincemmo quella partita, anche se poi la dimensione sociale di quel luogo è andata via via scemando. Oggi non c'è nemmeno una piccola memoria che ricordi come quel vecchio ospedale (e prima ancora Monastero di Santa Chiara) e il suo parco debbano la loro destinazione sociale alla lotta di una città, cosa che peraltro avevo richiesto scontrandomi con l'aridità di chi ne aveva la gestione. Senza memoria di sé, una città muore. Beh, se c'è una persona che meriterebbe un ricordo in quel luogo sarebbe proprio Matteo.

Oppure nelle feste di Democrazia Proletaria che, fra la fine degli anni '70 e la prima metà del decennio successivo, inaugurarono la stagione dei concerti nel cuore della città. Cominciammo con i Nomadi, seguirono Gianfranco Bertoli, gli Stormi Six, Gianni Siviero, Donovan … persino il Coro Su Supramonte di Orgosolo. E con Matteo era una certezza, sapevi che su di lui si poteva contare per ogni cosa.

Matteo sapeva fare tutti i mestieri, l'idraulico in primo luogo. Ma ogni posto di lavoro gli stava stretto e alla regolarità preferiva la libertà. Del resto, le opportunità non gli mancavano. Lavorava per vivere, quel che gli bastava. Al Knycz (la più grossa azienda di idraulica della città dove Matteo aveva lavorato) preferiva la Libia, tre mesi da piastrellista sotto il sole cocente gli garantivano l'autonomia economica per tutto l'anno.

Il futuro individuale era l'ultimo dei nostri pensieri. E di certo non ci si risparmiava. L'impegno sociale e politico era la cornice delle nostre esistenze. Non c'erano carriere ad attenderci, n'è santi in paradiso. Non era affatto – per dirla con Fabrizio De Andrè – “un gioco a cui avremmo giocato poco”. Se c'era bisogno di metterci la faccia o di candidare alle elezioni comunali, lo si faceva con spirito di servizio, senza calcolo alcuno. Anche Matteo. E poi c'era il nostro essere sodali, l'amicizia e l'attenzione reciproca pur fra persone talvolta tanto diverse. Nel caso di Matteo c'era anche un'altra passione, gli scacchi, gioco in cui lui era maestro. Ci sfidavamo qualche volta, ma non c'era storia. Perché Matteo, oltre ad essere timido e burbero, aveva un'intelligenza viva. E questo ci dice molto della sua personalità.

Gabriella mi ricordava in questi giorni di quando le avevo presentato Matteo, era la fine anni '70 in Via Santa Croce a Trento e lui era da poco rientrato dalla Libia. E di come fosse rimasta colpita dalla sua timidezza e dal suo essere senza parole. In seguito fu sempre molto affettuoso, a suo modo s'intende, con lei, “la Gabrielota” come era uso chiamarla.

Poi ci perdemmo di vista. Andai a lavorare a Roma e lui iniziò la sua nuova esperienza professionale alla Cooperativa La Cicogna. Si sposò con Luisa (scomparsa qualche anno fa a soli 55 anni), ebbero un figlio, Davide. Si separarono. Matteo non era un uomo facile.

Negli anni successivi ci si vedeva casualmente, era cambiato tutto e quel sodalizio che ci aveva resi vicini finito. Ma non per questo il nostro volerci bene. Quando fui eletto in Consiglio Provinciale chiesi a Matteo di darmi delle indicazioni per preparare il Disegno di Legge sull'Amianto. Nella Cooperativa La Cicogna era lui infatti che si occupava della rimozione e dello smaltimento dei materiali contenenti amianto, un lavoro di particolare responsabilità e delicatezza. Una collaborazione che qualche mese dopo portò all'approvazione della Legge Provinciale n.5 del 2012. Mi colpì in quella circostanza tanto la sua competenza come la sua riservatezza nel parlarne, a tutela della cooperativa. Un impegno professionale che proseguì fino allo scorso anno, quando Matteo andò in pensione.

Sembrava così felice di questa nuova condizione, ma negli ultimi mesi, quando mi capitava di incontrarlo al “Circolo dei ridicoi, reversi e policarpi” o in strada nel quartiere di San Martino, avevo l'impressione che gli pesasse la solitudine. Tanto è vero che ci eravamo ripromessi di vederci a cena da noi, anche se Matteo di fronte alle manifestazioni di affetto tendeva a chiudersi, schivo com'era.

Poi la telefonata di Claudio, quel pensarmi chissà dove quando il fiato gli è venuto meno, quelle immagini di una vita che tutto a un tratto saranno scorse nei suoi occhi buoni, quell'ultimo saluto mancato... effetto delle nostre solitudini, quel groppo che ancora non riesco a mandar giù.

Ciao Matteo, caro amico mio.

Michele

 

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