"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (108)
di Michele Nardelli
Tempi interessanti ma anche laceranti, scassanti per meglio dire.
Non ho mai amato lo strumento referendario, tanto meno l'uso che in questi anni se ne è fatto. E questo vale oltremodo per il quesito che ci viene proposto domenica e lunedì prossimi, relativo al taglio o meno del numero dei parlamentari. Perché in entrambi i casi l'esito rischia di essere pesante: in quello più probabile che vincano i sì, l'effetto sarà di indebolire il Parlamento e con esso la democrazia rappresentativa; nel caso della vittoria dei no, salterà il governo aprendo così una nuova fase elettorale con le conseguenze che possiamo immaginare in un contesto segnato dalla recrudescenza del diffondersi del Coronavirus. Uno scasso, appunto.
Si potrebbe dire che questa è la realtà, nel prevalere – e proprio la pandemia non ha certo attenuato questa deriva – di politiche quand'anche contrapposte sempre più segnate da logiche di natura plebiscitaria.
Ma la realtà non è quasi mai in bianco e nero, è complessa invece e richiederebbe molta perizia e delicatezza piuttosto che la scure. Specie se in ballo c'è una disposizione costituzionale che investe il principio di rappresentanza (ovvero lo svolgersi della democrazia).
Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco. Domenica io voterò no. Perché prevale in me il giudizio di merito (la democrazia non è un costo), perché siamo ben lontani da una riforma in senso federalista ed europeo di uno Stato che dovrebbe devolvere i propri poteri verso il basso (le autonomie locali) e verso l'alto (l'Europa politica). E, non da ultimo, perché la logica che sottostà alla proposta di ridurre il numero dei parlamentari è quella che predilige il potere esecutivo.
Questo, nulla toglie al giudizio severo che possiamo avere verso la qualità del dibattito politico, dei meccanismi di selezione (si fa per dire) delle classi dirigenti, della capacità di leggere la complessità di un tempo segnato dall'intrecciarsi di crisi (ecologico/ambientale, sociale ed economica, finanziaria, demografica e migratoria, sanitaria, politica e morale ed infine di senso) che in genere vengono scambiate per emergenze. Ragione per la quale nella tornata amministrativa cui siamo chiamati dovremo avere molta attenzione nel votare persone all'altezza di tale complessità.
Tornando al referendum, tagliare il numero dei parlamentari può servire alla propaganda e forse agli equilibri di governo, non certo ad affrontare uno solo di questi nodi di fondo, che richiederebbero invece un cambio di rotta e, prima ancora, di paradigma.
Nessun conservatorismo, dunque. Esprimersi per il no, almeno nel mio modo di vedere, non significa affatto considerare intoccabile la Costituzione italiana. Che invece andrebbe ripensata alla luce dei profondi cambiamenti che segnano questo passaggio di tempo nel quale gli assetti di potere reali, l'interdipendenza, il prendere corpo di nuove geografie, la cultura della complessità, una nuova coscienza ecologica, la consapevolezza del limite, la rivoluzione digitale... renderebbero urgenti nuove regole di convivenza ed una vera e propria nuova fase costituente.
Un nuovo racconto, insomma, non lo scasso funzionale ad una facile ricerca del consenso.
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