"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Lettera a noi (in divenire) nel tempo del virus.

Clement Falize

di Federico Zappini

Dire che la pandemia da Covid19 ha sconvolto le nostre abitudini è allo stesso tempo una banalità e una (mezza) bugia. Può sembrare una contraddizione, ma è proprio così.

Da un lato sono venute meno alcune nostre certezze. Le mani non si toccano, gli abbracci si negano. I tempi di vita (al lavoro, in casa e a scuola, nella socialità e negli affetti) si trasformano. Lo spazio – che avevamo immaginato ospitale e senza limiti – si restringe. Il respiro si fa affannoso, anche senza contrarre la malattia. D’altro canto – un po’ per la conformazione del nostro cervello e un po’ per comodità – la tentazione è quella di riannodare, così com’erano, i fili strappati all’inizio della primavera di quest’anno.

Lo ammetto. Capita anche a me. Di mattina quando apro due punti e la attraverso da porta a porta immagino di rivederla invasa di corpi che la animano nell’interazione promiscua e vitale di sguardi e carezze, di discorsi e domande, di sudore e sospiri, di curiosità e condivisione. Per il momento non può essere così.

Nella precaria quotidianità del contesto che viviamo dallo scorso marzo siamo chiamati a trovare forme di diverso equilibrio, di intelligente alternativa. Non per ri-partire, quanto per ri-generare.

Lo spiegano con grande chiarezza Mauro Magatti e Chiara Giaccardi. “Il concetto di resilienza è una traduzione attiva del trauma. Siamo resilienti non solo se siamo capaci di assorbire lo shock ma se, nel momento in cui assorbiamo lo shock, rispondiamo alla provocazione della realtà cambiando alcuni modi di fare, di essere, di ragionare, di operare che erano forse consone alla realtà precedente, ma dopo il cambiamento non lo sono più.”

Rifiutando l’egemonia della condizione emergenziale che riemerge potente in queste ore – complice i dati della pandemia in peggioramento – immaginare le caratteristiche dell’adesso e del dopo, tra loro collegati, è compito di ognuno come singolo e come parte di una collettività variegata e complessa.

Ce lo ricorda Ugo Morelli nel suo recente libro Empatie ritrovate. Sta nel rapporto/scontro tra immunità e comunità la sfida che dobbiamo essere in grado di risolvere in chiave generativa.

Fatto nostro il mito prometeico (quello del progresso e dello sviluppo umano senza fine) ci siamo fin qui illusi di poter procedere separati e non coinvolti – immuni appunto – rispetto a ciò che ci circonda. Fiduciosi nelle magnifiche sorti e progressive, ci siamo immaginati invincibili.

E’ stato doloroso ma inevitabile scoprirci invece fragili, precari, spaesati, incerti. Fragili di fronte a una malattia che – invisibile come erano le radiazioni di Chernobyl qualche decennio fa – si fa beffe della globalizzazione utilizzando i suoi stessi mezzi per viaggiare ed espandersi. Precari in relazione alle ardite architetture economico/finanziarie, vero ventre molle (mai sufficientemente messo in discussione) del mondo che abitiamo. Spaesati dentro la crisi ambientale ed ecologica che della pandemia Covid19 è una delle premesse e che contestualmente siamo chiamati ad affrontare con coraggio e radicalità senza ulteriori ritardi per garantire tra le altre cose la sopravvivenza della specie stessa. Incerti dentro reti sociali (dalle famigerate feste private fin dentro le RSA, dal calcetto ai luoghi della creatività, dai vari livelli della formazione alle reti della solidarietà)che pur indebolite da distanziamento e restrizioni perché potenziali vettori della trasmissione del virusdevono rimanere indispensabili strumenti della tenuta e della coesione oltre che dell’animazione sociale e culturale delle nostre città.

In assenza degli altri non esistiamo. Dobbiamo ricordarcelo. Abbiamo bisogno di riconoscimento e di confronto.

Dialogo dunque sono.

Rutger Bregman nel suo recente Una nuova storia (non cinica) dell’umanità prova a spiegare – Storia alla mano – che di base non siamo egoisti e che allenati e messi alla prova mutualismo, empatia e spirito collaborativo sono parte del capitale relazionale a nostra disposizione.

Dobbiamo scommettere sui legami sociali e sulla nostra capacità di darci forme plurali. Dobbiamo sentirci e agire come Noi.

Raghuram G. Rajan afferma chela comunità sia il pilastro dimenticato (il terzo, ma non il meno importante) tra Stato e Mercato e che si tratta dell’unico elemento che può contribuire a un nuovo equilibrio tra loro, tanto a livello locale quanto su scala globale. Un equilibrio figlio di dinamiche meno centralizzate e più democratiche, meno speculative e più eque, più coinvolgenti e cooperative.

Più giuste.

Papa Francesco parla di fraternità e amicizia sociale nella sua ultima enciclica e lo fa sfidando politicamente “la penetrazione culturale di una sorta di decostruzionismo, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero.” Lo fa cercando alleanze anche fuori dai confini del suo mondo di riferimento, immaginando la coordinate di un progetto che riguardi tutti e tutte, che imponga di essere presenti e attivi.

Siamo tornati quindi alla contraddizione di partenza.

Nel momento in cui all’orizzonte si prospetta un possibile nuovo lockdown che ha il compito di tenerci distanti – separati – avremmo bisogno di piazze piene e animate in forma di assemblee e parlamenti, di assembramenti desideranti e carichi di passione che condividono bisogno comune di presente e tensione progettuale di futuro.

Marco Damilano ha invocato l’emersione del partito ricostruzionista, che nel percorso impervio in cui siamo impegnati prenda parola e potere. Che rimetta ordine nel nostro confuso dibattere e definisca traiettorie comuni per i prossimi passi da compiere.

Che si faccia comunità politica, visionaria e consapevole della “sfida secolare e gigantesca” (parole di Angela Merkel, in una conferenza stampa il 14 ottobre) che le viene incontro.

***

p.s.

Ho iniziato a scrivere pensando di reagire al lungo testo di Shoichi Yip sui fatti collegati alla cosiddetta “movida” e alle ordinanze restrittive sugli orari dei locali in città. Mi è stato naturale allargarlo sul bisogno che abbiamo di farci carico di una più generale messa in discussione dell’esistente attraverso percorsi dialogici e partecipativi. Magari fosse solo una questione di birre e schiamazzi notturni.

Settimana scorsa ho avuto l’occasione di presentare due libri che mi hanno confermato l’ipotesi che la nostra grande opportunità evolutiva sta nel saper imparare dall’esperienza e mettere a valore anche quelle che sembrano essere imperfezioni e incoerenze dentro le nostre esistenze.

Marco Aime ci ha regalato un vocabolario antropologico utile a capire come le trasformazioni culturali passano sempre attraverso la contaminazione (parola impronunciabile di questi tempi) e le conflittualità che nascono nelle zone di confine, lì dove esploriamo ciò che ancora non conosciamo ma che nella relazione diventa parte di noi, cambiandoci attraverso la valorizzazione delle differenze.

Tony Laudadio invece con il suo romanzo Il blu delle rose ha indagato il rapporto tra avanzamento della ricerca scientifica (nel caso specifico la scoperta, lombrosiana, del gene della criminalità) e suo utilizzo per la neutralizzazione di ogni minaccia alla sicurezza. Fin dove possiamo spingerci nell’annullamento preventivo di ogni azione – e persona – che disturbi la presunta normalità a cui ambiamo? Possiamo davvero decidere di espellere dalla città tutto ciò che ci disturba, che non corrisponde al nostro desiderio di omologazione?

La Politica deve riportare a se la responsabilità di analisi e gestione della complessità.

In particolare in tempi di tale eccezionalità.

 

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