"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Considerazioni attorno al libro di Diego Cason e Michele Nardelli “Il monito della ninfea”
di Stefano Semenzato
Agli inizi di novembre era prevista a Porretta Terme (Bologna) la presentazione del libro di Cason e Nardelli. Il precipitare della situazione pandemica ha costretto al rinvio. Avevo preparato degli appunti per aprire il dibattito e interloquire con Michele. Li presento qui in forma leggermente rivista.
(19 novembre 2020) Non conosco Diego Cason, ma conosco a sufficienza Miche Nardelli. So che mi trovo di fronte ad un viaggiatore, spesso viaggiatore scontento, ma che non rinuncia a percorrere i territori della esperienza materiale e quelli immateriali della mente.
La sua vita di scorribande per i territori della politica romana prima, poi per quelli dei della ex-Jugoslavia, e poi ancora i viaggi di quella che è stata chiamata “solitudine della politica” lo stanno a testimoniare.
Anche questo libro è un viaggio. I giorni passati ad incontrare le comunità colpite da Vaia, gli incontri per dar conto dei tanti microprogetti messi in campo per ripartire, ma anche un viaggio nel mondo delle fiabe e in quello delle religioni. Il tutto intrecciato con analisi e approfondimenti sullo stato del pianeta. Da non perdere il bellissimo capitolo in cui – a proposito dei miti della montagna - si ripercorre lo scontro tra le teorie e pratiche animiste e la forzatura delle religioni monoteiste.
C’è un capitolo che fa da sfondo all’arrivo della tempesta. Quello che fa il punto sullo stato del pianeta: le disuguaglianze, i nodi demografici, i cambiamenti climatici, le plastiche, le megalopoli, il riscaldamento globale. E su questo sfondo gli autori sviluppano una analisi approfondita e direi puntigliosa sulla geografia dei danni prodotti da Vaia e sul loro rapporto con le politiche locali del territorio. Questo serve a capire le forme, molto differenziate, con cui i vari territori hanno saputo reagire ai danni della tempesta, perché, ad esempio, sul mercato del legname ci siano stati comportamenti così differenziati.
Un libro molto utile per fare scelte sul futuro per la montagna, per capire le fragilità e i limiti che vengono dal passato e che investono la realtà esistente. Limiti strutturali (i rimboschimenti a conifere degli anni 50 del secolo scorso) così come limiti sociali (le forme di conduzione e la carenza di politiche, l’abbandono). Numeri e riferimenti che aiutano a capire molto della montagna, delle ideologie che la avvolgono, della cultura turistico/romantica che talvolta stravolge la realtà.
Tra i molti aspetti, uno dei più stimolanti del libro, è proprio la critica della visione dominante sul modo di concepire la montagna, ed in particolare le Dolomiti. Si va dalla “montagna di Venezia”, cioè da come la Serenissima nei secoli abbia utilizzato le Dolomiti per le proprie necessità (navi e palafitte), a come si stia affermando una logica della montagna più da sfruttare che da conservare. Sfruttamento che talvolta non è esterno, ma nasce dalla interiorizzazione di modelli proposti ed imposti dall'industria del turismo. Il paradosso è che la manomissione della montagna si basa spesso su una ideologia della conservazione di quella che gli autori chiamano “montagna da cartolina” che il turismo pretende e che ora porta a proporre il ripristino “come era” piuttosto che ad un recupero secondo ritmi naturali.
Modelli costruiti fin dall’800 con l’approccio “romantico” che ha nel secolo scorso sviluppato il mito della montagna incontaminata e primordiale (dimenticando i grandi processi di forestazione proprio del secolo scorso) e che ha come corollario l’idea dei montanari un po’ retrogradi e chiusi, quando non ignoranti. Punto questo su cui Michele reagisce in forma veemente. Così quando lo incontri ti anticipa scaricando dalla libreria il libro di Paolo Malaguti “I mercanti di stampe proibite”, una storia di mercanti che a metà del 700 partivano dalle valli del Trentino e giravano l’Europa per commerciare stampe di Bassano. Più europei degli europei di oggi. Quindi viaggiatori, commercianti, diffusori di cultura.
Devo dire però che anche il libro cede in qualche punto a una impostazione un po’ romantica della montagna, ad esempio dove critica (forse troppo) la gente di montagna che si affida al turismo. E dico gente di montagna perché in una nota nascosta (nota a pag. 61) si spiega che i residenti in montagna sono diversi dai montanari. Questi ultimi sono connotati “eticamente”, incarnano i valori della montagna; e nello scorrere del libro emerge abbastanza chiaramente che i “montanari” sono le minoranze linguistiche (tedesca, ladina, cimbra) che resistono nelle loro valli e si oppongono ai processi di omologazione. Forse sarebbe stata più utile una certa indulgenza verso figure spurie, i connubi turismo/agricoltura, i nuovi montanari, figure che vanno o ritornano in montagna. Cioè le tante forme di un possibile ripopolamento.
Una delle parti più interessanti e molto attuale riguarda i concetti connessi al titolo del libro. “Il monito della ninfea” voleva dare il senso di come ci sono ormai fenomeni che si sviluppano in modo discontinuo: lo stagno che appare ancora mezzo vuoto domani può essere tutto pieno e farci trovare senza possibilità di ritorno.
E giustamente gli autori, al termine di una ampia casistica delle “fonti di inquietudine globale” (demografia, riscaldamento globale, rifiuti, disuguaglianze, ecc.) dicono che “un sistema globale si può comportare in modo lineare, ma spesso non lo fa. In questa situazione anche la variazione apparentemente irrilevante di un elemento può modificare, in modo radicale e irreversibile, il funzionamento di tutto il sistema”. Mentre si stampava il libro un virus, in una lontana regione della Cina, si incaricava di applicare concretamente questa “profezia”.
Era appunto un monito, ma sono bastati pochi giorni (il libro è uscito nel gennaio del 2020) e il mondo intero si è messo a vivere sull’onda del fattore Rt, del ritmo di contagio che tende paurosamente ad essere simile a quello della ninfea.
Quello che fino a pochi mesi fa appariva un concetto complicato, la crescita esponenziale, si è materializzato sotto forma di numero di tamponi, di ricoveri in ospedale, di terapie intensive, di zone gialle, arancioni, rosse. L’indice Rt uguale a due, cioè il raddoppio dei casi – se non in un giorno, ma nel giro di poco tempo – è diventato una caso concreto e si è capito come possa prefigurare scenari catastrofici per il sistema sanitario.
Ma proprio da questi aspetti della pandemia nasce la sollecitazione ad interloquire con il libro.
In una società che tende e vuole semplificare tutto, che ragiona su una decina di “emoticon” presenti su facebook o sul cellulare è molto difficile accettare che l’andamento lineare della pandemia diventi esponenziale, che il contagio si diffonda secondo percorsi che sfuggono dal punto di vista percettivo. Così il virus produce una forte componente di incertezza, dovuta alle meccaniche caotiche della sua diffusione. Tutto questo rimanda ad una necessità di strumenti capaci di dar conto della complessità piuttosto che di procedere per semplificazioni successive che rischiano di far perdere la capacità di intervento.
Si apre qui il nodo del rapporto con la scienza che mi pare irrisolto in questo libro che pone fortemente il primato dell’etica rispetto alla scienza. Il libro vede scienza ed etica come conflitto e pone l’accento sul “cattivo uso della scienza” considerata come “potere” per lo più al servizio di imprese private guidate dal profitto. Vi è così poco spazio per una visione della scienza come scommessa per il futuro, di un uso della scienza come strumento operativo di un cambio di paradigma.
Eppure proprio la pandemia pone il problema di come la disponibilità di dati, di sistemi di calcolo, i modelli matematici diventano potenzialità per intervenire, non solo per descrivere, ma anche per prevedere, cioè per sviluppare politiche.
Solo qualche mese fa prevaleva l’idea che alla fine sarebbe prevalsa una logica di cura di se stessi che comporta anche cura degli altri e in ultima analisi cura del mondo. All’inizio della pandemia erano in molti che all’insegna del “andrà tutto bene” prevedevano che alla fine si sarebbe potuto costruire un nuovo modo di pensare; che il virus sarebbe stato un passaggio per un cambio di modelli, di paradigmi… Non mi pare sia così.
Porto questa considerazione perché il libro chiude con questa citazione : “forse deve accadere qualcosa di grave perché dall’estasi dei bisogni sempre crescenti e del loro soddisfacimento illimitato si torni ad un livello che sia compatibile con la sopravvivenza dell’ambiente”.
“Qualcosa di grave”: la catastrofe come strada per salvare l’ambiente?
Anche qui la pandemia insegna molto. La società esce più divisa, le disuguaglianze si moltiplicano, l’anelito generale è di ritrovare e ritornare al modello “consumista” di prima. Si apre la problematica della “società della sfiducia” come qualcuno l’ha chiamata. Del fatto che mancando una qualche fiducia in soggetti collettivi, in forze di governo, in proposte di cambiamento, prevalgono logiche autoreferenziali, il fai da te, il chiudersi. Per non parlare del capitolo della democrazia visto che il modello più efficiente nel combattere la pandemia si è rivelato quello cinese, basato su imposizione coatta di comportamenti individuali e di tracciamento sociale.
Giro queste considerazioni agli autori e spero che Nardelli e Cason partano anche da qui per scrivere un prossimo libro.
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