"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Il settimanale diocesano Vita Trentina propone un numero speciale dal titolo “L’anno del Covid” che ripercorre il 2020 con le immagini di Gianni Zotta e i commenti di venti osservatori trentini allo scopo - come scrive il direttore Diego Andreatta - di "non archiviare in fretta l’eredità triste e preziosa di questo 2020”. Quella che segue è la riflessione che ho proposto per questo numero speciale.
di Michele Nardelli
(27 dicembre 2020) Un anno da archiviare? Proprio no. Un anno sul quale riflettere, se solo avessimo la volontà di aprire occhi e mente su questo passaggio di tempo. Un anno che, pur nella sua drammaticità (non è andato affatto tutto bene), potrebbe insegnarci molto e indicarci strade nuove da percorrere.
A cominciare da come pensiamo la Terra in cui viviamo e le nostre esistenze, perché questa è la dimensione della partita che siamo chiamati a giocare. Se non lo faremo, il monito che ci viene dall'anno che stiamo mettendoci alle spalle diventerà un'anticipazione di quel che ci aspetta per effetto della nostra cecità, dell'insostenibilità del modello dominante e dell'incapacità di mettere in discussione il nostro rapporto con la natura, di cui peraltro la specie umana è solo una piccolissima parte.
Vorrei che si capisse che non si tratta “solo” di una questione ambientale. E' proprio che di fronte alla complessità di un cambiamento d'epoca come quello che stiamo attraversando diviene urgente assumere un diverso modo di pensare, far tesoro del passato affinché diventi patrimonio condiviso, rivedere le geografie oggi ancora chiuse nell'angustia dei confini nazionali, mettere in discussione il primato del profitto e delle sue leggi che hanno mercificato le esistenze e pure l'immaginario, riconsiderare gli stili di vita ripesando al rapporto con gli altri esseri viventi e con le cose di cui abbiamo (o meno) bisogno.
In una parola, cambiare i vecchi paradigmi, primo fra tutti quello che ci ha impedito sin qui di cogliere la nostra parzialità e di far nostro il concetto di limite – “la chiave secondo la quale sognare ed elaborare un progetto comune” scrive Papa Francesco nell'Enciclica “Fratelli tutti” – iscritto com'è nelle vite di ognuno e di tutti.
Far nostra la cultura del limite significa rientrare nella sostenibilità che abbiamo da tempo smarrito consumando più di quanto gli ecosistemi riescono a produrre e compromettendo in questo modo il futuro delle generazioni a venire. Ed uscire dal tempo della dismisura, per prendere consapevolezza del significato che i greci le davano e simboleggiato da Nemesi, dea della misura.
Non significa affatto rinunciare alle conquiste del sapere, semmai metterle a disposizione per riqualificare i nostri bisogni, liberare tempo da dedicare alla cura delle relazioni, dare valore alle cose vere come l’amicizia, la convivialità, il piacere della conoscenza, il dono e la gratuità, riconsiderare la qualità a dispetto della quantità, ovvero fare meglio con meno.
La pandemia ci ha messi di fronte alla realtà, sempre che la si voglia vedere. Non si tratta di cambiare qualche dettaglio o di aggiustare il treno nella sua folle corsa. Certo, il coro insiste nel dire che non si può fermare l'economia, che senza la crescita non ci può essere progresso. Ma si tratta di un'epoca intera, che va dalla rivoluzione industriale fino ai giorni nostri e che ha plasmato con le sue categorie e le sue certezze il nostro modo di stare al mondo, ad essere giunta al capolinea.
Così, mentre si dissolve l'idea di progresso inteso come legge ineluttabile, diviene urgente costruire un nuovo racconto, come scrive Albert Camus “non in nome della potenza e della storia, bensì della misura e della vita”.
La prima pagina dello speciale di Vita Trentina
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