"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La sfida di un destino comune

Paul Cezanne

Nei giorni 3 e 4 luglio 2021 si svolgerà a Genova il X Congresso di Slow Food Italia. Circa settecento delegati si riuniranno in parte in presenza e in larga parte in collegamento per dar vita ad un nuovo passaggio che abbiamo chiamato La sfida di un destino comune.

Un orizzonte tracciato nel documento di visione che – insieme agli altri documenti congressuali sulla biodiversità, sull'educazione e sulla advocacy proposti dal Consiglio Nazionale uscente e dalla nuova squadra candidata alla direzione dell'associazione – si propone di declinare il buono, pulito, giusto e per tutti nel contesto di crisi (ambientale, climatica, sanitaria, sociale, demografica, economica ma anche culturale e politica) che investe il nostro tempo.

Una proposta che si rivolge a tutte le persone e le realtà collettive che oggi si pongono criticamente verso un modello di sviluppo palesemente insostenibile e all'origine della sindemia in corso.

Un invito alla lettura.

§§§

 

Documento di visione del Consiglio nazionale di Slow Food per il X Congresso di Slow Food Italia (Genova, 3 - 4 luglio 2021)

Chengdu, un “tutti” esigente

Le sfide lanciate dal Congresso Internazionale di Chengdu nell’ottobre 2017, hanno accompagnato Slow Food Italia negli anni successivi e in particolare nel mandato del gruppo dirigente eletto al Congresso nazionale di Montecatini Terme del luglio 2018.

Sfide culturali e politiche impegnative, laddove l'assunzione di una visione insieme globale e comunitaria – intrinseca all'esperienza di Terra Madre – rappresentava un profondo cambiamento nello sguardo come nel modo di abitare il nostro tempo, immaginando Slow Food come una rete globale delle comunità del cibo buono, pulito, giusto e per tutti.

In quella parola – tutti – tanto apparentemente semplice quanto impegnativa che la Dichiarazione di Chengdu metteva in cima ai propri obiettivi, c'era una precisa assunzione di responsabilità politica, prefiggendosi di mettere in discussione, insieme a un umanesimo privo di mondo che ha segnato la seconda metà del Novecento, l'attuale modello di sviluppo e insieme lo sguardo di ognuno di noi e il proprio modo di stare al mondo, senza mai dimenticare che nel divario fra inclusione ed esclusione nessuno può chiamarsi fuori.

Un “tutti” esigente, dunque, che diverrà di lì a poco uno dei più significativi messaggi pastorali di Papa Francesco. Dove le “comunità” altro non erano che l'essenza di una fraternità senza confini che quella parola – tutti – significava.

Da allora sono passati quasi quattro anni e quella transizione di pensiero e di azione si rivela, per quanto possibile, ancora più urgente.

Anche perché l'intreccio di crisi ambientale, climatica, alimentare, demografica, migratoria, sociale ed economica che si è condensata in una pandemia che ha stravolto le nostre esistenze, ha tolto il velo alle insostenibilità e con esse alle grandi diseguaglianze, a quella formidabile dismisura che segna il nostro pianeta.

I nodi riconducibili al modello di sviluppo affermatosi in ogni angolo della Terra sono arrivati al pettine, ponendoci di fronte all'evidenza che i vecchi paradigmi della modernità sono parte del problema e che nessuno si sarebbe potuto salvare da solo.

«Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l'unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole esistenti, sta negando la realtà»1.

In altre parole, non bastano soluzioni tecnologiche di chi, dopo aver ampiamente contribuito ad approfondire le crisi, oggi improvvisamente si accorge che siamo sull'orlo del baratro, magari ipotizzando un collasso controllato a spese degli esclusi di sempre. A conservazione di un modello discriminatorio e insostenibile.

Ecco che il messaggio di Chengdu, che pure ancora fatica a entrare pienamente nell'orizzonte del nostro corpo sociale, richiede – alla luce della crisi climatica e pandemica – una nuova e ancor più radicale declinazione.

Crisi ambientale e nuove geografie

Già prima del diffondersi del virus, le previsioni degli scienziati sul surriscaldamento del pianeta e il susseguirsi di eventi meteorologici estremi ci avevano portato a considerare la questione ambientale come una crisi che investiva a pieno titolo il modello di sviluppo e gli stili di vita, aspetti indissolubili rispetto alla difesa delle biodiversità, all'impegno per cambiare un sistema agroalimentare condizionato dai grandi monopoli industriali e della chimica, alla tutela e valorizzazione di chi con il proprio sapere e il proprio lavoro si batte per la salvaguardia della madre terra.

Collocando così Slow Food a pieno titolo come parte di quel grande movimento globale che rivendica il diritto al futuro.

In questo orizzonte abbiamo pensato all'edizione 2020/2021 di Terra Madre come ad un ambito di sperimentazione culturale e politica, una sorta di grande incubatrice per dotarci di nuovi strumenti interpretativi a partire dalla considerazione che questa nostra Terra è straordinariamente ricca di suo anche nei luoghi considerati più inospitali, che non esistono paesi poveri ma semmai impoveriti, che le stesse categorie di sviluppo e sottosviluppo hanno rappresentato visioni che partivano dalla presunta superiorità del modello economico e sociale dell'Occidente. Ed infine, che la cifra reale dei processi globali va ben oltre la divisione del mondo in stati nazionali e richiede risposte insieme di natura sovranazionale e territoriale.

Ne sono un esempio i corridoi transnazionali ed il loro impatto sui territori, oppure le rotte oceaniche e marittime. Il mare aperto, fuori delle giurisdizioni nazionali, è terra di tutti e di nessuno ed è là che avvengono le devastazioni più gravi, con navi fantasma e predatori del mare al soldo delle grandi multinazionali. Quando invece gli oceani e i mari rappresentano un unico sistema straordinariamente ricco di biodiversità.

Mettere al centro di Terra Madre gli ecosistemi (terre alte, terre di pianura, terre metropolitane e terre d'acqua) significava dunque immaginare nuove geografie attraverso le quali ridisegnare il pianeta comprendendone la complessità e le interdipendenze, mettere a fuoco la dislocazione dei poteri nella postmodernità, delineare nuove soggettività e alleanze sociali. Interrogandoci su quali sarebbero state le ricadute delle crisi sugli ecosistemi in termini di desertificazione e processi migratori, deregolazione e guerre, perdita delle biodiversità e nascita di nuove patologie.

Basta scorrere il bilancio ancorché provvisorio dell'edizione ancora in corso di Terra Madre che – pur condizionata dal suo svolgersi in remoto – ha registrato sin qui più di mille eventi in tutto il mondo (ad oggi sono 1070, destinati ancora a salire entro la fine aprile), con il coinvolgimento di oltre 500 relatori (fra i quali molti pensatori di fama internazionale) che diventano più di tremila se consideriamo gli eventi diffusi. Un dato su tutti è quello delle food talks, un format ideato appositamente per questa edizione digitale dell’evento: dieci minuti per far emergere pensieri e parole di scrittori, economisti, filosofi, antropologi, ecologisti, educatori, insieme a contadini, pastori, pescatori, cuochi, che offrono la propria visione su ambiente, agricoltura, alimentazione… Un quadro collettivo sul futuro che vogliamo.

La pandemia e il suo impatto sugli ecosistemi

L'insorgere della pandemia (più corretto sarebbe parlare di sindemia, in quanto intreccio di crisi sanitaria, alimentare e ambientale) ci ha posti oltremodo di fronte all'urgenza del cambiamento. Il fattore tempo (quello che ci rimane prima del carattere irreversibile del surriscaldamento) irrompe in forma inedita nelle valutazioni di chi prova a estendere il proprio sguardo verso il futuro.

Capovolgendo il tradizionale disallineamento fra tempi storici e tempi biologici, ci troviamo di fronte alla contraddizione fra un urgente ripensamento nel nostro modo di vivere e la lentezza che caratterizza ogni processo di cambiamento culturale profondo. Come uscirne non è cosa da poco.

Paradossalmente la pandemia ci è venuta in aiuto. «Dà conforto concedersi del tempo per leggere lentamente ciò che la Pandemia reca inscritto, a caratteri maiuscoli, a proposito del nostro stare col mondo. Era difficile dirci in modo più inequivocabile che siamo andati lunghi nella nostra tecnica di dominio dell'esistente, ostinandoci in un'infinita creazione che ha generato una sorta di rigetto nei tessuti del creato»2.

Nel suo evidenziare ed accelerare le crisi già in atto, potremmo dire che la pandemia ha messo in discussione i miti della modernità, lo stato dell'economia e l'andamento del PIL, il benessere e il possesso di cose, la velocità e il senso del vivere, la quantità di informazioni e il non capire più nulla, la fede nella scienza e i limiti della conoscenza, la superiorità antropocentrica dell'uomo verso la natura e il suo esserne un'infinitesima parte.

Nel pieno di questa centrifuga dovremmo interrogarci su come la sindemia sta impattando la realtà, per comprendere come e quanto andrà ad incidere sugli ecosistemi, sugli stili di vita e nelle relazioni fra le persone.

Del resto, quanto la combinazione fra crisi climatica e pandemia rappresenti un acceleratore di tendenze lo stiamo già verificando nel rapporto fra aree metropolitane, terre alte/interne, zone costiere e terre di mare.

Da tempo assistiamo all'abbandono dei borghi e delle tradizionali attività economiche nelle terre alte e nelle aree interne, per niente estranee a fenomeni di degrado ambientale e di dissesto idrogeologico, accentuati dalla crisi climatica e dal progressivo innalzamento delle temperature con gravi effetti agli ecosistemi alpini (scioglimento dei ghiacciai in primo luogo). Così come abbiamo posto l'attenzione verso l'importanza del ritorno alla montagna e alla terra, nel recupero di mestieri e risorse da tempo abbandonate, nel valorizzare la bellezza delle stagioni non più vincolate ai soli mesi dell'industria del divertimento.

La crescente invivibilità delle città sottoposte ai picchi di calore nelle stagioni più calde e la preoccupazione per gli effetti degli assembramenti nella diffusione di nuove patologie, insieme alle opportunità del telelavoro, già oggi stanno consigliando chi se lo può permettere a dislocare altrove la propria residenzialità, il che non ci può nascondere i rischi connessi all'urbanizzazione della montagna, alla finanziarizzazione della sua economia a cominciare dal valore degli immobili e dalle derive speculative, alla crescita dei fattori inquinanti dovuti al carico antropico e agli spostamenti con mezzi privati. Non proprio ciò che avevamo auspicato in termini di riequilibrio e di rinascita della montagna.

Per non dimenticare che, a più di due anni dall'evento di maggior impatto sugli ecosistemi forestali mai avvenuto in Italia, stiamo ancora monitorando gli effetti della tempesta Vaia. Anche se già ora possiamo prevedere che circa la metà dei 42.535 ettari di alberi abbattuti rimarrà lì dove la furia del vento li ha sradicati o spezzati e la voracità del bostrico li ha rinsecchiti.

Un altro impatto è quello del progressivo insterilirsi delle pianure per effetto della crisi climatica, della frequenza sempre maggiore degli eventi estremi e delle carenze nel sistema di approvvigionamento idrico. Con il molteplice effetto di minori produzioni, dell'aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, dell'indebolimento delle piante e dell'insorgere di nuove malattie e dell'uso di agenti chimici, dello spostamento in altitudine delle produzioni, della riduzione di aree adibite a pascolo, della crescita dei meccanismi assicurativi e dunque di finanziarizzazione dell'economia.

La pandemia ha altresì accelerato la marginalità delle aree interne con un forte impatto sui sistemi locali del cibo. Da un lato l’abbandono, con la conseguente perdita di valore dei contesti, delle produzioni e delle biodiversità, dall’altro il passaggio da un’economia di bisogni a un’economia di consumi.

Analogamente vengono investite aree costiere e territori adiacenti, già in sofferenza per gli effetti della cementificazione e del carico antropico. I dati delle più recenti ricerche indicano come l'erosione delle coste e delle spiagge abbia subito una tale accelerazione da configurarsi come un vero e proprio disastro ambientale, paesaggistico, economico e sociale. «La densità di popolazione sulle coste è in misura più che doppia rispetto alla media nazionale, senza tener conto dei flussi stagionali e delle presenze turistiche»3. A pagarne le conseguenze sono le attività legate alla piccola pesca locale che resistono a presidio della biodiversità marina, a fronte di un’attività di carattere praticamente industriale con flotte attrezzate che di fatto concorrono al depauperamento degli stock ittici.

Altro aspetto da considerare rispetto agli effetti della crisi sindemica in atto è quello dell'atteggiamento verso il consumo alimentare. Se per una parte limitata di consumatori è aumentata l'attenzione verso la qualità del cibo, per la maggior parte della popolazione l'effetto è un maggiore consumo di cibo industriale e a prolungata conservazione. Pesano le disponibilità economiche, i criteri di appalto e l'accesso alla ristorazione collettiva e alle mense scolastiche, la difficoltà di ricorso a forme di autoproduzione, la precarietà dell'educazione alimentare. Così si accentuano le discriminazioni in base alla parte del pianeta in cui si vive e al reddito.

Covid-19 porta con sé, inoltre, una serie di effetti collaterali legati all’ambiente. Come non vedere che la crisi pandemica ha favorito il ritorno della plastica monouso: mascherine, guanti, protezioni per le scarpe, cuffie, kit di abbigliamento per operatori sanitari, rivestimenti per sedie, confezioni di varia natura. La pandemia ha stimolato l’aumento degli acquisti online e con esso gli imballaggi. Sono aumentati in maniera vertiginosa i servizi di consegna a domicilio di cibo (e l’asporto) con un forte portato di imballaggi protettivi. Ma quel che è più grave è il passo indietro compiuto da alcuni paesi con il ritiro dei divieti di utilizzare la plastica monouso. Tutto questo avrà un effetto disastroso per l'ambiente e per gli ecosistemi marini in particolare.

Mettere a fuoco quel che accade è già una prima risposta. Essere presenti al proprio tempo, abitare la contraddizione fra urgenza e lentezza facendola evolvere in maniera virtuosa richiede però un salto di paradigma, partire dal foglio bianco e scrivere un nuovo racconto.

Cambiare i paradigmi

Con l'insorgere della pandemia, per qualche mese si è immaginato che il convergere inequivocabile dei segni del tempo avrebbe portato ad una riflessione collettiva sul modello economico e sociale che ci ha portati sin qui e ad una maggiore assunzione di responsabilità verso il pianeta.

Non è stato così, tanto che oggi si moltiplicano le forme di nichilismo, l'astio verso i soggetti più deboli, il bisogno d'ordine così da centralizzare i poteri o verticalizzare se non militarizzare la catena del comando. O, più semplicemente e drammaticamente, lo smarrimento.

All'ignobile meccanismo dei diritti delle proprietà intellettuali da parte delle multinazionali del farmaco, corrisponde la logica del prima noi orariversata sulla distribuzione in chiave nazionale o sociale dei vaccini. Per non parlare della richiesta di ristori generalizzati, dove si annidano ipocrisia e furbizia. Più in generale la speranza diffusa è il ritorno alla normalità come se quest'ultima non avesse nulla a che fare con quanto sta accadendo.

In questo contesto come Slow Food Italia abbiamo lanciato la proposta delle Comunità del cambiamento, un programma di interventi a sostegno delle esperienze sociali e produttive che nel solco del “cibo buono, pulito, giusto e per tutti” indicassero la necessità di mettere in discussione le cause più profonde – culturali e materiali – dell'insostenibilità. Un invito ad essere più esigenti e a cercare una sempre maggiore coerenza fra ciò che chiediamo a noi stessi e la ri-progettazione del futuro.

Dobbiamo altresì riconoscere che cambiare rotta non è affatto banale, perché sui paradigmi della crescita infinita e dell'uomo signore del pianeta si è retta sin qui la modernità. Perché, in assenza dell'etica, la crescita continuerà a giustificare sé stessa distruggendo le condizioni necessarie alla vita. Quello che la modernità non vede è che l'entropia ci costringerà sempre più a riconsiderare i nostri stili di vita e ad adottare comportamenti compatibili con l'equilibrio sociale ed ecologico.

Un salto culturale che richiede in primo luogo di fare i conti con il passato, ovvero sulle ragioni che hanno indotto le grandi correnti di pensiero dell'Ottocento e del Novecento a riconoscersi – pur in opposizione fra loro – nelle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo. Quell'idea di progresso scorsoio che il più grande interprete dello spaesamento – il poeta Andrea Zanzotto – ci ha lasciato come straordinaria eredità. E che prima di lui avevano ispirato le parole profetiche di Walter Benjamin sull'Angelus Novus di Paul Klee4.

Per altro verso occorre cambiare tanto gli occhiali (gli strumenti interpretativi) quanto le visioni (i paradigmi). E se la cornice di questo cambiamento si chiama cultura della complessità, dovremmo contestualmente indagare il rapporto fra uomo e natura (il desiderio umano di controllare e di disporre del mondo), il concetto di sviluppo e la cultura del limite, il superamento del paradigma dello stato-nazione (e del sovranismo) per adottare un approccio sovranazionale e territoriale, l'idea acritica che abbiamo del lavoro che – mercificato e parcellizzato – non rende affatto liberi, la questione del potere e quella di genere, la guerra che non è la levatrice della storia e il tema della nonviolenza, il rapporto far modernità e tradizione anche attraverso il recupero delle antiche e più che mai attuali forme proprietarie collettive (regole, usi civici...) nella gestione dei beni comuni, la messa in discussione della descrizione del mondo diviso fra sviluppo e sottosviluppo e il pensiero meridiano che Franco Cassano ci ha consegnato.

Nel darci un pensiero capace di futuro, quel “tutti” deve includere gli altri viventi, ovvero le compatibilità dell’intera biosfera. Un pensiero della coabitazione solidale, un pensiero della cooperazione orizzontale – come forse lo chiamerebbe Stefano Mancuso – che richiama l'impegno assunto nella Dichiarazione di Chengdu.

In questo processo di cambiamento Slow Food dovrebbe sentirsi parte di una larga comunità di pensiero e di azione, portando il suo specifico punto di vista, il cibo. Il cibo come straordinario caleidoscopio per ripensare il mondo.

Anche su questo piano dobbiamo avere consapevolezza che occorre un’operazione copernicana, un cambio radicale di prospettiva. E poi servono atti concreti, potenti, che vadano oltre gli slogan. Come la necessità di ridare spazio negli ecosistemi a zone non antropizzate, a corridoi che evitino l'insularizzazione della vita selvatica. Allo stesso modo, dobbiamo dire in modo chiaro che l’allevamento industriale intensivo è una barbarie: per gli animali (domestici e selvatici), per ambiente, per la nostra salute. L’allevamento industriale intensivo è all’origine di questa pandemia e della maggior parte delle epidemie precedenti. È legato a doppio filo alle monocolture. E le monoculture significano terreni inariditi, pesticidi, sfruttamento del lavoro, distruzione delle foreste, neocolonialismo. È già pronta la via tecnologica per superare il problema dell’impatto ambientale di allevamento e agricoltura intensivi. Le multinazionali stanno investendo milioni sulla carne in vitro, sull’agricoltura cellulare. Si sta investendo per produrre cibo senza terra, senza animali, senza contadini, senza allevatori.

Anche per questo è necessario insistere sul cibo come fatto sociale, che coinvolge la sfera individuale e collettiva. Sul cibo come espressione del territorio, della cultura, della biodiversità.

Next generation EU, un nuovo sguardo europeo

Un cambio di sguardo che abbiamo proposto nell'elaborazione delle nostre proposte in merito al Next Generation EU. Un documento che propone una visione sovranazionale, alla quale adattare i piani nazionali e con cui concertare l'azione regionale, immaginando che proprio la dimensione europea e mediterranea possa rappresentare una nuova declinazione dei nodi sin qui affrontati in chiave nazionale, come se quella dimensione fosse ancora sufficiente per dare risposte di sistema.

L'ammontare straordinario delle risorse messe in campo dall'Unione Europea richiede alle istituzioni e alla politica un deciso cambio di passo che dovrebbe prendere corpo nel Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR), un cambio che almeno nella prima stesura è apparso del tutto assente.

«Con il Next Generation EU forse per la prima volta l'Europa politica ha avuto il coraggio di intraprendere un programma strategico fondato su alcune linee di lavoro che affrontano la crisi sanitaria, ambientale e produttiva. Non c'è ancora un cambio di paradigma, ma il fatto stesso di immaginare una politica economica e finanziaria europea (con l'inedita e prima sempre avversata emissione di titoli di debito europei) attorno ai grandi temi del futuro, rappresenta comunque una svolta importante. Ma in una nuova visione europea, ogni Paese non dovrebbe replicare gli stessi investimenti e le stesse linee di sviluppo, bensì riconsiderare vocazioni territoriali e ambientali, prerogative e unicità culturali, assetti proprietari e fiscali, devoluzione di poteri verso l'Europa e forme diffuse di autogoverno».

Abbiamo articolato una nostra idea di Piano, indicando ambiti e priorità in ordine all'approccio (visione), alla devoluzione in chiave europea di ciò che definiamo emergenze ma che a ben vedere rappresentano altrettanti nodi strutturali (le politiche sanitarie, i flussi migratori, la transizione energetica, gli asset strategici nel settore industriali, dei servizi, della difesa...), l'educazione alla transizione ecologica, la salvaguardia delle biodiversità, la centralità del cibo, le modalità di individuazione dei soggetti che del cambiamento dovranno essere i protagonisti.

È, quello del Next Generation EU, un terreno che ci sfiderà come Slow Food nei prossimi cinque anni proprio a partire dalla nostra visione di movimento sovranazionale che, nel rivendicare un cibo buono, pulito, giusto e per tutti, pone attenzione a una grande filiera che investe le politiche agroalimentari, le attività industriali e artigianali di trasformazione, le politiche ambientali, la grande e piccola distribuzione, il turismo, l'educazione alimentare, la salute e altro ancora.

Ed è proprio con questo sguardo sovranazionale e attento ai territori – coerente con la nostra natura associativa – che Slow Food monitorerà l’andamento e la sostenibilità degli investimenti del Next Generation EU lavorando di concerto con altre associazioni (quelle che danno vita alle coalizioni Rinascimento Green, Follow The Money, Good Lobby e altre) per verificare la coerenza delle scelte e dei progetti con il grande obiettivo di utilizzare questa inedita opportunità per cambiare con l'Europa anche il nostro Paese.

La sfida davanti a noi

Se la partita è il diritto al futuro, non possiamo nasconderci l'enormità della sfida che abbiamo davanti. E come questa potrebbe indurci a considerarla soverchiante rispetto alle nostre capacità e risorse.

Un anno di pandemia ci ha insegnato che ne usciremo non solo se sapremo debellare il virus ma se saremo capaci di avviarci verso quella transizione ecologica che per essere reale richiede l'assunzione del limite come orizzonte di pensiero e la complessità come coscienza del nostro essere parte del tutto.

Transizione è passaggio da una situazione a un’altra. Dobbiamo lasciarci alle spalle un modello che si è dimostrato insostenibile ed immaginarne uno nuovo. Ecologica ci dice che tutto è in relazione. L’ecologia è la lente che dovrebbe informare le politiche di governo e prima ancora tutti i comportamenti umani, il mangiare, il muoversi, il produrre... Perché essi cessino di essere atti di consumo, di dissipazione e deterioramento delle risorse, insieme al logoramento delle chance residue per poter continuare ad abitare il pianeta, ma atti di conservazione e rigenerazione dei beni comuni a tutto il vivente. È questo che intendiamo con l'espressione ecologia integrale.

In questa cornice il “Buono, pulito, giusto, per tutti”, l'“Impatto della pandemia sugli ecosistemi”, le “Comunità del cambiamento”, la “Next Generation EU”, rappresentano altrettanti ambiti di impegno sui quali misureremo concretamente l'impatto delle nostre azioni e la costruzione di alleanze, definendo obiettivi da raggiungere, monitorabili nel tempo, che vincolino non solo ciascuno di noi nelle proprie scelte quotidiane, ma le comunità, le associazioni, le istituzioni che condividono le nostre stesse preoccupazioni e dai cui comportamenti dipende l'esito di questo passaggio cruciale.

Pensiamo a coloro che fanno fatica, soprattutto in epoca di pandemia, a mantenere le attività di alto profilo etico delle produzioni: Slow Food potrebbe divenire il loro punto di riferimento, dotando costoro di visibilità e di accesso alla rete. Potremmo dire: dal prodotto alla persona. Ne potrebbero nascere tante Comunità Slow Food che coltivano in maniera etica prodotti anche convenzionali, ma che conservano i contesti territoriali, favorendo le relazioni e la coesione sociale.

Un altro aspetto sul quale misurare l'impatto del nostro agire (e che sin qui abbiamo piuttosto trascurato) è quello della riduzione della nostra impronta ecologica, consapevoli che da tempo il limite (il dovere etico di consegnare il pianeta avuto in prestito dalle generazioni future almeno come lo abbiamo ricevuto) è stato superato, consumando progressivamente più di quanto gli ecosistemi sono in grado annualmente di produrre. L'impronta ecologica è misurabile territorio per territorio, regione per regione. Potremmo immaginarlo come un terreno di verifica delle buone pratiche, della conversione di quelle insostenibili, delle politiche della pubblica amministrazione nella gestione dei servizi e nel controllo delle emissioni climalteranti. Insomma, della capacità di “fare meglio con meno”. Un programma politico, quello della riduzione dell'impronta ecologica, misurabile e realizzabile.

La conoscenza viaggia parallela alla cura. Curo ciò che conosco e nessuno meglio di chi vive sul territorio lo sa. La sicurezza è prendersi cura. Così dovremmo avere una crescente attenzione alla mappatura dei nostri territori, dei terreni agricoli come delle aree boschive, dei pascoli come dei terrazzamenti, della risorsa idrica e più in generale dei beni collettivi.

Ambiti di azione che si vanno ad aggiungere a quelli che hanno plasmato la riconoscibilità di Slow Food: i Presidi, i prodotti dell'Arca del Gusto, i Mercati della Terra, i Cuochi dell'Alleanza, gli Orti in Condotta e così via.

Ognuna di queste realtà dovrebbe immaginarsi come “Comunità” che fa vivere nell'impegno sociale, professionale e territoriale l'idea del cambiamento di rotta che oggi s'impone, se vogliamo immaginare un futuro desiderabile.

Nel fare questo dovremmo saper essere più radicali e al tempo stesso ragionevoli, dire dei No netti con competenza, capaci di disegnare alternative possibili e praticabili, essere esigenti ma insieme aperti e inclusivi.

Non siamo soli. Come movimento globale per il diritto al cibo abbiamo il dovere di dialogare e di metterci a disposizione di chi si fa interprete di sensibilità e bisogni che, come noi, s'interroga sul futuro del pianeta. E, nel contempo, essere capaci di comunicare in maniera semplice e comprensibile il nesso fra cibo, biodiversità e sostenibilità. In particolare, sarà proprio il cibo come presidio di culture e saperi che ci potrà aiutare ad arrivare al cuore di ciascuno, a parlare con chi ci avverte distanti e talvolta elitari, a colmare le distanze generazionali.

E non saremo in grado di affrontare queste sfide senza la contaminazione delle nuove generazioni, attori di un futuro già alla porta, con cui condividere il percorso fin da oggi per garantire il processo evolutivo del nostro movimento.

Verso una Slow Food degli ecosistemi

Se le polarità di Slow Food saranno sempre più quella globale e quella comunitaria, occorre immaginare che i caratteri di informalità, creatività e orizzontalità a cui ci vogliamo ispirare ci guidino in un terreno – quello dell'organizzazione – invece tradizionalmente verticale e centralistico.

La modalità di lavoro in rete ci può aiutare, purché ciascun nodo (ciascuna comunità) coltivi, accanto al riferimento verso il nostro movimento globale, autonomia di pensiero e di azione, capacità di relazione e assunzione di responsabilità. Ogni nodo della rete deve cercare di alzare il proprio sguardo sulla complessità e sulle connessioni implicite ad ogni attività umana, per riempire di significati il proprio lavoro.

Una rete nella quale ogni comunità si pensa in relazione con il prossimo a partire dalle affinità tematiche e geografiche, seguendo lo schema che guarda al mondo attraverso gli ecosistemi.

Daremo vita così a reti di comunità transnazionali o sovraregionali, come del resto già avviene all’interno di Slow Food. Pensiamo alla rete degli indigeni, nata proprio in questa forma transnazionale (gli indigeni per definizione non contemplano i confini statuali, se non perché costretti). Oppure alla rete di Slow Fish che da anni raccoglie le comunità di pescatori di diversi angoli del pianeta. Oppure alle reti Slow Olive, Slow Grains, Slow Beans.

Comunità transnazionali o sovraregionali potrebbero realizzarsi fra le comunità alpine piuttosto che appenniniche, delle terre alte o insulari, nell'area mediterranea o in quella adriatico-ionica, lungo l'ecosistema del Padus (Po) o quella della Donau-Dunav (Danubio). O ancora, come in parte già avviene, riferendosi alle reti delle filiere produttive, dall'olio al pane, dalle sementi alle erbe, dall'acqua al vino e così via. Creatività, appunto, e fantasia.

Appartenenze plurime e geografie variabili, perché ciascuno di noi è insieme tante identità diverse e in divenire.

Anche così potremo far vivere un'idea di Europa senza confini e in dialogo con i mondi che la circondano. In questa direzione, del resto, va la proposta di nuovo assetto organizzativo che prevede, in ambito nazionale, strutture più di coordinamento che di direzione politica.

Adottare nuove geografie non è solo un criterio per leggere diversamente il mondo in cui abitiamo: è un modo di essere e di pensare che ha a che fare anche con l'habitat di Slow Food, con le sue forme relazionali interne ed esterne. Un dentro e fuori che vorremmo sempre più sfumato e che nelle Comunità trova il proprio terreno di coltura. Capaci di ascoltare le tante voci del mondo, «anche i silenziosi… gli emarginati, gli svantaggiati, i deboli, gli oppressi, le generazioni passate, da rispettare anche se non parlano più, e quelle future, da agevolare, anche se non parlano ancora – e l’ambiente (naturale e artificiale) e quel capitale semantico formato dalla cultura e dalla scienza, dalla letteratura e dall’arte, dall’esperienza e dalla memoria»5.

Lo stesso potremmo dire per la ri-generazione. Che consiste in primo luogo nel prendere coscienza dell'incompiutezza di quel che sappiamo, in un tempo in cui aumenta l'incertezza e l'imprevedibilità. Essere cioè in educazione permanente.

E, in secondo luogo, nella bellezza del “passare la mano”. È il grande tema del passato di fronte a noi, che – in assenza di elaborazione – non passa. La ri-generazione anche anagrafica non avviene per cooptazione (quasi sempre paternalistica) ma nella trasmissione e nella rivisitazione critica dei saperi.

In questo le nostre strutture formative, dall'Università di scienze gastronomiche di Pollenzo alla Casa Editrice di Slow Food e più in generale alle attività diffuse di formazione sui territori, dovrebbero sempre più sintonizzarsi sulle grandi sfide che questo tempo interessante ci propone.

Ma decisive, anche su questo piano, sono le Comunità, nel loro essere luoghi di scambio e di ibridazione culturale, nella loro capacità di mettere in relazione creativa i diversi attori del territorio, nel costruire reti e nuove geografie relazionali. Nel loro ruolo di educazione e formazione permanente, essere strumenti di ri-generazione.

***

1Francesco, Fratelli tutti.

2Alessandro Baricco, Quel che stavamo cercando. Feltrinelli, 2021

3 Stato delle Coste – ISPRA 2013

4 «C'è un quadro di Klee che s'intitola 'Angelus Novus'. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

5Luciano Floridi, Il verde ed il blu. Raffello Cortina editore, 2020

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6 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Gianni Tamino il 25 giugno 2021 15:59
    Considerazioni sul Documento di Slow Food “La sfida di un destino comune”

    di Gianni Tamino*

    E’ con vero piacere che ho letto il documento congressuale di Slow Food “La sfida di un destino comune”, perché vi ho trovato moltissimi spunti interessanti e molti punti di condivisione.
    Già le sfide lanciate dal Congresso del 2017 erano e sono di grande attualità: concetti come “rete globale” e “comunità”, “iniqua spartizione delle ricchezze”, “diritti di tutto il mondo vivente”, “ricchezza della biodiversità”, che richiamano concetti che si trovano anche nell’enciclica “Laudato si”, individuavano un percorso di cambiamento, anzi un cambio di paradigma che riguarda aspetti sociali e politici, oltre che ambientali, e che ci impone di superare l’attuale modello di sviluppo.
    Ma ora nuove sfide si sono imposte insieme alle precedenti: la pandemia ha sconvolto non solo la vita di tutte le popolazioni, ma anche il mondo politico ed economico e a maggior ragione dovremo ripensare “cosa e come produrre” sia a livello agricolo, come in quello industriale.
    Per questo giustamente il documento parla di “sindemia”: Covid19 è infatti una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e interagisce con tutte le altre malattie che hanno (o possono avere) un’origine ambientale, come quelle a carattere cronicodegenerativo legate all’inquinamento, tipo i tumori, le malattie cardiocircolatorie, il diabete, ecc., ma anche con fattori legati all’ambiente sociale, come ad esempio la povertà, la malnutrizione, la carenza di strutture igieniche.
    E’ questa interazione che viene definita una “sindemia”, ad indicare l’azione sinergica tra le diverse cause. Ho trovato, a questo proposito, pienamente condivisibili le seguenti frasi del documento: “Nel suo evidenziare ed accelerare le crisi già in atto, potremmo dire che la pandemia ha messo in discussione i miti della modernità, lo stato dell’economia e l’andamento del PIL, il benessere e il possesso di cose, la velocità e il senso del vivere, la quantità di informazioni e il non capire più nulla, la fede nella scienza e i limiti della conoscenza, la superiorità antropocentrica dell’uomo verso la natura e il suo esserne un’infinitesima parte. Nel pieno di questa centrifuga dovremmo interrogarci su come la sindemia sta impattando la realtà, per comprendere come e quanto andrà ad incidere sugli ecosistemi, sugli stili di vita e nelle relazioni fra le persone.”
    Ma la sindemia ha anche un suo rovescio della medaglia, ben illustrato nel documento: a livello alimentare è aumentato il consumo di cibo industriale e a prolungata conservazione, mentre a livello ambientale c’è stato un incremento della plastica monouso (mascherine ed altre protezioni igieniche, contenitori per cibo da asporto, ecc.) e degli imballaggi legati agli acquisti online.
    Per questo diventa particolarmente urgente il cambio di paradigma o, come scritto nel documento, cambiare rotta, superando quell’impostazione economica di tipo “sviluppista”, che ben è stata definita dal poeta Zanzotto “progresso scorsoio”.
    Purtroppo, in questa particolare situazione, sembra che il mondo della politica internazionale, europeo ed italiano, gattopardescamente proponga di “cambiare tutto per non cambiare nulla”.
    Infatti, al di là di giuste “visioni”, nella pratica Next Generation EU e il piano nazionale di attuazione (PNRR) rischiano di disattendere ogni speranza di reale cambiamento e di reale transizione ecologica. Questi Piani e le deludenti proposte della nuova PAC ben poco hanno a che fare con l’obiettivo, a carattere globale, di un “cibo buono, pulito e giusto per tutti”.
    Cambio di paradigma deve significare un passaggio dalla visione riduzionista e meccanicista del mondo a quella sistemica di complessità, in quanto complessi sono gli ecosistemi e tutti i sistemi sociali. E, come dice il documento, “se la cornice di questo cambiamento si chiama cultura della complessità, dovremmo contestualmente indagare il rapporto fra uomo e natura (il desiderio umano di controllare e di disporre del mondo), il concetto di sviluppo e la cultura del limite, il superamento del paradigma dello stato-nazione (e del sovranismo) per adottare un approccio sovranazionale e territoriale, l’idea acritica che abbiamo del lavoro che – mercificato e parcellizzato – non rende affatto liberi, la questione del potere e quella di genere, la guerra che non è la levatrice della storia e il tema della nonviolenza, il rapporto far modernità e tradizione anche attraverso il recupero delle antiche e più che mai attuali forme proprietarie collettive (regole, usi civici...) nella gestione dei beni comuni, la messa in discussione della descrizione del mondo diviso fra sviluppo e sottosviluppo e il pensiero meridiano che Franco Cassano ci ha consegnato”.
    Il cambio di paradigma ci porta dunque ad applicare quanto ci insegna l’ecologia integrale e, in campo agricolo e alimentare, l’agroecologia.
    Nell’augurare pieno successo al prossimo Congresso di Slow Food, mi auguro che le sfide indicate dal Documento Congressuale possano trovare attuazione con la collaborazione di tutte le persone e le Associazioni impegnate a realizzare un vero cambio di paradigma che ci permetta di uscire dalla sindemia e dalla drammatica crisi ambientale sociale e politica che era già in atto ben prima della pandemia.

    * Gianni Tamino, biologo, è stato parlamentare italiano ed europeo. E' inoltre stato membro del Comitato Nazionale per la Sicurezza Alimentare, presso il Ministero della Salute
  2. inviato da Ugo Morelli il 24 giugno 2021 09:02
    Divenire Terrestri
    Un commento sul documento di Slow Food

    di Ugo Morelli

    Viviamo un tempo di stupore e di disagio. Stupore per le sollecitazioni che il presente riesce a generare in noi; disagio per lo spiazzamento che reputo necessario in questo nostro tempo, essendo la via richiesta per accedere al possibile necessario. L’appartenenza al sistema vivente e il superamento del dualismo natura-cultura, dove natura sarebbero gli altri animali e cultura saremmo noi, è un processo complesso. Non si tratta di divenire come i ragni, cosa peraltro impossibile, né di considerare i ragni come noi, cosa non corrispondente ad ogni evidenza. Divenire finalmente terrestri non penso significhi dismettere le distinzioni, ma farle convivere e risuonare in modo vicendevole. Le metafore possono molto aiutarci. Dai ragni, ai vermi, alle drosofile, ai falchi, alle balene, alle tigri, alle piante e ai minerali, abbiamo da imparare da tutti. Non dimenticando però che la nostra responsabilità consiste nel valorizzare la nostra distinzione: quella di essere capaci di imparare ad imparare. Questo possiamo fare, per noi e per gli altri viventi, ed è forse la nostra principale responsabilità. Si tratta allora di divenire leggeri, finalmente. Di riconoscere che di meno è meglio.
    “In viaggio, come d’altronde nella vita, il meno è quasi sempre il meglio”, dice William Hurt, nel film di Lawrence Kasdan, Turista per caso. Minimo non è meno, non è poco, eppure entrambi hanno a che fare con l’arte del togliere. Togliere è liberare dall’eccedente, eliminare quel che è eccessivo. Di tutto l’umano cercare, forse una delle arti più difficili e sublimi. Un’arte che avvicina all’essenziale, sapendo che apre una direzione e non definisce una meta, in quanto se il minimo essenziale è tale, lo è perché è irraggiungibile. La sua importanza sta nel cercarlo sapendo di non poterlo raggiungere mai. Una sfida alla nostra tensione desiderante, che sceglie la via della ricerca per selezione, verso la leggerezza e la valorizzazione del lavoro della luce che, a ben vedere, fa la parte della grande scultrice nel prender forma delle cose. Divenire scultori della nostra terrestrità è il compito che dovrebbe impegnarci prioritariamente.

    * Ugo Morelli, professore di Scienze cognitive applicate alla vivibilità, al paesaggio e all’ambiente, di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione e di Psicologia della creatività e dell’innovazione.
  3. inviato da Mauro Ceruti il 21 giugno 2021 12:32
    Caro Michele,
    Grazie per il documento, che ho letto. Molto bello e chiaro. Ritrovo tante nostre idee. In primis la sfida del destino comune. Complimenti. C’è tutta la mia identificazione.
    Mauro
  4. inviato da Michele Kettmaier il 13 giugno 2021 07:47
    ciao Michele! grazie ho letto, interessante. Ci sono punti di contatto (In altre parole, non bastano soluzioni tecnologiche) con questo mio articolo che è uscito domenica sul sole24. Seguirò il congresso di sloow food. a presto
  5. inviato da Aldo Zappalà il 13 giugno 2021 07:46
    Sei sempre una fonte di cose belle caro Michele
  6. inviato da Micaela Bertoldi il 11 giugno 2021 17:36
    Ciao Michele,

    avevi chiesto un qualche commento alla relazione da te predisposta per l'appuntamento di Slow Food
    Al di là di una condivisione generale, visto l'accento sulla necessità di rivedere l'insieme dell'economia mondiale, e gli accenni critici al Piano del governo a cui volete dare un contributo di idee, mi va di evidenziare l'importanza del concetto di ri- generazione che avete sottolineato.

    In particolare: se è indubbio che vada rigenerata l'agricoltura e il rapporto con la fertilità di della terra, con l'uso dei suoli, con la cura del paesaggio, risulta meno evidente la necessità di rigenerare il modo in cui ci si relaziona tra le persone.
    Mi riferisco ovviamente alla capacità di accoglienza, al di là di xenofobie e aggressività e violenza, ma anche al piano della educazione al sentire, al provare sentimenti rispettosi in modo reciproco, fra uomo e donna, fra amici, fra compagni di posizioni politiche, fra avversari .
    Si tratta di aprire alla speranza di spazi di generativita' creativa, capaci di ridare visione alla politica perché connessi ad una dimensione di cooperazione e socialità rinnovata. E questo ha a che fare con il bisogno di rinnovamento della politica (anche a quella di sinistra) e dei mondi associativi.

    Credo che sia importante porre l'accento non solo al piano della formazione - ai saperi, alle discipline, alle competenze, anche politiche - ma anche a quello della educazione sentimentale ed emozionale.

    Giudico che oggi questo sia un ambito assai trascurato, in una società in cui gli adulti sono sempre più narcisi, desiderosi di egoistico protagonismo.

    Buon lavoro a voi. Ciao
    Micaela


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