"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Quello che segue è l'intervento che ho svolto al X congresso di Slow Food Italia per illustrare la mozione “Pensarsi e agire come Comunità, per la Slow Food degli ecosistemi”, approvata a larga maggioranza e che trovate nell'allegato.
Nel nostro dibattito congressuale abbiamo posto il tema cruciale del cambio di paradigmi. La sindemia, l'intreccio delle crisi ambientale, sanitaria, climatica demografica, migratoria, economica e sociale (che sappiamo anche politica e culturale), ha evidenziato ed accelerato l'urgenza di questo cambiamento.
Cambiare i paradigmi, però, non è così facile come può sembrare. Si tratta di approcci consolidati e mettere in discussione trecento anni di magnifiche sorti progressive richiede una rivoluzione copernicana. Non basta un voto congressuale per cambiare il nostro sguardo sul mondo.
Occorre un percorso e per questo, nei mesi scorsi, abbiamo immaginato un ambito di sperimentazione culturale e politica qual è stato Terra Madre.
Ci siamo detti: proviamo a leggere il pianeta (e il nostro tempo) con occhiali diversi, attraverso l'idea di nuove geografie. Ne è venuta la Terra Madre degli ecosistemi, non la vecchia geopolitica ma uno sguardo capace di comprendere che le grandi questioni si misurano sul terreno dell'interdipendenza globale e dei territori in cui viviamo: le terre alte, le terre metropolitane, le terre d'acqua, le terre di pianura. Gli ecosistemi non seguono i confini degli umani.
Ecco perché dobbiamo immaginare comunità transnazionali e sovra-regionali. Capaci di leggere quel che già sta avvenendo nelle dinamiche dell'offshore, nelle rotte e nei corridoi internazionali, nei loro terminali portuali, oppure nel land grabbing, nella finanza o nella criminalità organizzata.
Questo approccio non è una costruzione astratta, lo stiamo già facendo. Ce l'hanno insegnato le comunità indigene, lo pratichiamo nelle reti come Slow Fish o Slow Grains. La Slow Food degli ecosistemi sarà quella del Mediterraneo, delle Alpi, delle mie Dolomiti, dell'ecosistema danubiano o quello del Po e così via.
Non è una trasformazione semplice, ma dobbiamo avere consapevolezza che il paradigma dello stato-nazione (parole che confondiamo ma che esprimono concetti diversi) ha già fatto fin troppi danni. Si chiamano nazionalismo, sovranismo, “prima noi” che poi è il “si salvi chi può”.
Ora, le strutture organizzative sono tradizionalmente verticali, gerarchiche, autoritarie e centralistiche, nonché a misura maschile. La Slow Food degli ecosistemi è orizzontale, a geografia variabile, organizzata in rete, dove i nodi sono in relazione fra loro e dotati di auto-pensiero.
Gli Statuti tradizionali dei corpi intermedi - figuriamoci quelli che corrispondono alle leggi del terzo settore, sono poco inclini alla fantasia, ma soprattutto sono espressione di un modo di pensare e di essere mutuato dagli Stati. Anche il nostro è un po' così.
Allora impegniamoci a cambiare. Come abbiamo fatto per le Comunità. Una transizione e una sperimentazione per i prossimi due o tre anni per costruire l'habitat della Slow Food degli ecosistemi.
Come abbiamo scritto nel documento di visione: “Appartenenze plurime a geografia variabile, perché ciascuno di noi è, insieme, tante identità diverse e in divenire”.
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