"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Quello che segue è l'intervento che ho svolto oggi nel corso del convegno “Attualità e prospettive delle politiche della cooperazione allo sviluppo” organizzato dal Cedos a Bolzano il 27 novembre 2021 nell'ambito della 5 rassegna Esodo e Confini.
di Michele Nardelli
Tredici anni fa usciva “Darsi il tempo”1. L'intento era quello di andare alla radice della crisi della cooperazione internazionale e, al tempo stesso, di cercare le strade per un ripensamento di fondo e una nuova dimensione della cooperazione. Un libro che fece discutere nelle organizzazioni non governative e nei luoghi di ricerca.
Purtroppo in questi anni la deriva della cooperazione non si è affatto arrestata, appiattita sull'emergenza (ma emergenza e cooperazione sono cose diverse), con una cooperazione governativa funzionale agli interessi delle imprese e della geopolitica, con larga parte del mondo non governativo trasformatosi in progettificio.
Le cause sono molteplici e profonde. E non solo riconducibili al taglio dei fondi destinati alla cooperazione internazionale.
A voler sintetizzare, due erano le tesi di questo libro:
la crisi della cooperazione internazionale era di sguardo, esito di categorie interpretative inadeguate a descrivere un tempo in rapida trasformazione e di paradigmi niente affatto estranei alle condizioni di crescente disparità fra inclusi ed esclusi;
la cooperazione come costruzione di relazioni piuttosto che sull'aiuto allo sviluppo (non esistono paesi poveri, semmai impoveriti); una cooperazione di comunità fondata sui concetti di prossimità e di reciprocità nonché sul carattere ineludibile dell'elaborazione dei conflitti.
Per ciascuna di queste due tesi, oggi vorrei proporvi una suggestione: la prima è quella delle Nuove geografie; la seconda la possiamo indicare come urgenza di Ri – generazione della cooperazione.
Un nuovo sguardo sul mondo, le nuove geografie
C'è un'immagine (e ci sono delle parole) che in questi anni di incertezza e di deragliamento sociale, culturale e politico sono stati per me di riferimento.
Un quadro di Paul Klee, l'Angelus Novus e e le parole che ne scrisse Walter Benjamin. Era il 1921, un secolo fa e le macerie (materiali e non) della prima guerra mondiale erano ancora così pervasive da segnare gli anni a venire.
«C'è un quadro di Klee che s'intitola “Angelus Novus”. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».
Di questo scritto vorrei soffermare la vostra attenzione su un passo, quando Benjamin scrive: «Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe».
Un appunto di particolare attualità, se pensiamo alla fatica contemporanea nel cogliere le connessioni fra gli avvenimenti che si susseguono con una rapidità tale (e nel vuoto di spazi di riflessione collettiva) da renderci sempre più distratti e superficiali.
Come dice l'amico Ugo Morelli, dovremmo “imparare ad imparare”, dare significato a ciò che vediamo. O, per riprendere un'espressione a me cara “essere presenti al proprio tempo”.
Non è così facile. E così facciamo fatica a connettere gli avvenimenti, il passato e il presente.
Abbiamo forse elaborato il Novecento? Il perché di quella scritta all'ingresso di Auschwitz, Arbeit mach frei? Abbiamo riflettuto sulla rinascita dei fascismi? Che cos'era il fascismo se non il “prima noi”, forma moderna del “Deutschland über alles”? Oppure sulla riduzione degli anni '70 agli anni di piombo, quando hanno rappresentato il decennio delle più grandi riforme sociale e democratiche di questo paese? O, ancora, sulla guerra dei dieci anni che ha devastato il cuore dell'Europa, liquidata come guerra etnica quando in realtà ci indicava un'anticipazione della postmodernità?
E che dire dell'indifferenza verso la terza guerra mondiale in corso fra inclusi ed esclusi (che la pandemia ha reso ancor più cruenta) di cui ci parla – inascoltato – papa Francesco?
Dovremmo interrogarci perché avviene tutto questo, nel combinarsi di luoghi comuni, falsa coscienza e rimozione. Ma anche sul fatto che, in un contesto di profonde trasformazioni, forse sono i nostri strumenti interpretativi ad essere inadeguati a leggere la realtà.
Prendiamo uno di questi strumenti, quello che pensiamo sia il più neutro, la geografia. Così poco considerata e banalizzata, quasi fosse sempre uguale a se stessa. Sappiamo al contrario che le rappresentazioni del pianeta non sono estranee alla visione del mondo di chi le propone, o forse ci siamo dimenticati che il globo di Mercatore è ben diverso (a favore di chi dominava il pianeta) dalla Carta di Peters?
E poi la storia ci dice che le carte geografiche sono in perenne movimento: nel Novecento, con le guerre mondiali, con la fine del vecchio colonialismo, con la caduta del muro. Nell'89 e negli anni immediatamente successivi solo nel contesto europeo sono svaniti al sole tre paesi (Unione Sovietica, Cecoslovacchia e Jugoslavia) ne sono nati ben ventidue2.
Senza dimenticare, a proposito delle nostre chiavi di lettura, che nell'interdipendenza prendono corpo nuove geografie che mettono in discussione i nostri vecchi paradigmi e i cui tratti salienti sono:
gli Stati pur rivendicando presunte sovranità contano sempre meno. Non è affatto casuale che sovranità e libertà siano diventate le parole del deragliamento. Perché – come ci ricorda Hannah Arendt – «Data la condizione dell'uomo, determinata dal fatto che sulla terra non esiste l'uomo bensì esistono gli uomini, libertà e sovranità sono così lontane dall'identificarsi da non poter neppure esistere simultaneamente»;
le istituzioni rappresentative vengono progressivamente svuotate e i poteri sono tendenzialmente dislocati altrove (è il tema della post politica);
i processi globali non conoscono confini: pensiamo alla finanziarizzazione dell'economia, ai paradisi fiscali, agli stati offshore, ai corridoi sovranazionali, alla criminalità organizzata... ma anche per altro verso alla crisi climatica e alla sindemia.
Pensiamo a come ci attardiamo a leggere il nostro pianeta (ne parlavamo già tredici anni fa in Darsi il tempo) attraverso categorie che non descrivono più la realtà: la divisione del mondo fra paesi ricchi e paesi poveri (senza capire che non ci sono paesi poveri ma semmai impoveriti e che inclusione ed esclusione sono a-geografiche, che sviluppo e sottosviluppo non vogliono dire nulla se è vero che il massimo profitto avviene nel territorio della deregolazione, che la stessa divisione nord e sud del mondo non ci dice più nulla. Francamente vorrei che la smettessimo di parlare di cooperazione allo sviluppo.
Le nuove geografie ci chiedono uno sguardo diverso, come quello ad esempio degli ecosistemi: pensiamo all'impatto del cambiamento climatico sulle terre alte, alle pianure alle prese con i processi di desertificazione, all'inurbamento delle aree metropolitane e al formarsi di megalopoli con svariati milioni di abitanti (Lagos secondo le previsioni avrà a fine secolo 88 milioni di abitanti), alle terre d'acqua che saranno sommerse dal progressivo sciogliersi dei ghiacci.
Ci chiedono altresì di imparare a dotarci di un approccio sistemico come quello della complessità, quello che l'amico Mauro Ceruti indica come attitudine al pensiero complesso. O, considerato che siamo nel territorio dell'insostenibilità, di far nostra la cultura del limite.
La ri-generazione della cooperazione
E così siamo arrivati al secondo concetto che vorrei seppur brevemente sviluppare.
Parto dalla mia esperienza personale. In tanti anni di cooperazione internazionale pure improntata sul piano della relazione fra comunità, quante volte mi sono trovato a chiedere ai nostri cooperanti di “alzare lo sguardo”, di cogliere ed appuntarsi le cose che attiravano la loro attenzione: molti rapporti sull'andamento dei progetti, quasi mai quella mezza paginetta capace di cogliere i segni del tempo.
Ecco, dovremmo immaginare la cooperazione come ambito di conoscenza, di costruzione di relazioni permanenti, di elaborazione dei conflitti, di scambio di sguardi, di ibridazione.
Per usare l'espressione di Judith Hafner, una nuova dimensione della cooperazione. Ne abbiamo bisogno a prescindere dalla cooperazione, per comprendere ciò che accade, i processi della post modernità, il significato della post politica, le simbologie che impazzano. Per aiutare e aiutarci a capire, per stare al mondo.
Siamo andati lunghi nella nostra tecnica di dominio dell'esistente, abbiamo superato la soglia del limite, tempi storici e tempi biologici si sono rovesciati e abbiamo poco tempo se vogliamo invertire la rotta. Pensiamo che questi temi cruciali non riguardino la cooperazione? Forse sarebbe il caso di finirla con questo paternalismo, che sa molto di neocolonialismo.
Questa presa di coscienza viaggia parallela alla cura. Al prendersi cura del mondo e di noi stessi. All'urgenza di ri-generare insieme al nostro pensiero (ai nostri paradigmi) anche le forme dell'agire e i nostri stessi luoghi.
Tempo fa ero all'Università di Palermo, in un corso di formazione sulla cooperazione internazionale. Una ragazza mi chiede se quest'ambito potrà aprirle una dimensione professionale. Non so darle una risposta e non vorrei alimentare le fila di chi in buona fede va ad ingrossare il circo umanitario.
Di certo c'è un mondo, anche quello della cooperazione, che va ripensato. E non sarà la rincorsa ossessiva dei bandi a farlo. Lo saranno piuttosto le comunità e la loro capacità di interrogarsi e di stare al mondo. Servirebbero animatori di territorio, costruttori di relazioni. Se questo divenisse il nuovo orizzonte del fare cooperazione, credo ne verrebbero interessanti e corpose prospettive professionali. Migliorerebbe il rapporto con le nuove cittadinanze e la qualità del vivere nelle nostre comunità.
Questo nostro mondo ha urgenza di essere ri-generato. E, come abbiamo visto, questo chiama in causa in primo luogo le chiavi interpretative e i paradigmi, le modalità del fare cooperazione e, infine, forse (ma di questo non ne abbiamo parlato) anche la dimensione anagrafica.
1Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Darsi il tempo. Idee e pratiche per un'altra cooperazione internazionale. EMI, 2008
2 Armenia, Azerbajan, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Georgia, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Russia, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Ukrajna. Ed inoltre Kosovo, Abkhazia, Ossezia del sud e Transnistria, paesi questi ultimi solo parzialmente riconosciuti ma “Stati di fatto”
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