"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Il Convento Meridiano

Il Convento Meridiano

A Cerreto Sannita la rigenerazione culturale è stata sabotata: questo è il rischio che corrono tutti i piccoli paesi.

Dalla personale esperienza di “Convento Meridiano” abbiamo imparato che la domanda di cambiamento finisce per scontrarsi con la schizofrenia di chi osserva un pieno di opportunità nel vuoto più totale di visione, interesse e progetti per il proprio comune. Da qui è stato facile immaginare altri luoghi svuotati di senso prima che di abitanti: la cultura e i suoi spazi sono due argomenti molto distanti dalle agende politiche per le aree interne

di Guido Lavorgna *

La rigenerazione è un processo di metamorfosi che definisce una nuova configurazione del contesto di riferimento che non prevede un’identità finita ma generativa, interdipendente e in continua evoluzione. In natura la rigenerazione avviene per necessità di adattamento ai cambiamenti ambientali. Nei contesti sociali l’adattamento ai cambiamenti è un processo più lento perché prevede una necessaria capacità di osservazione, lunga e in terza persona, che impone un agire collettivo. In una struttura sociale più o meno articolata, più o meno fragile, la rigenerazione è sempre un processo culturale perché afferente all’intero ecosistema, perché capace di includere e coinvolgere anche chi non partecipa.

In breve, la rigenerazione è un’azione politica di prossimità fondata sulla fiducia che genera cambiamento.

Il tema della rigenerazione urbana è diventato mainstream negli ultimi anni ma il significato che può assumere dipende da tante variabili. In un progetto di rigenerazione coesistono uno spazio (pubblico/privato) che, riqualificato o meno, diventa luogo e le parti attive e consapevoli di una o più comunità che attivano il processo. È sull’equilibrio tra questi due elementi che si gioca la differenza di approccio tra un progetto di rigenerazione l’altro.

Nelle istituzioni più tradizionali l’azione di riqualificazione di un bene non per forza corrisponde a una visione sulla sua destinazione d’uso o più precisamente sulla funzione sociale che l’infrastruttura potrebbe avere perché i progetti nascono da bandi e opportunità di finanziamento e quasi mai hanno tempi di sviluppo per poter ascoltare/accogliere i bisogni delle comunità. Contestualmente, quando le comunità hanno dei bisogni (talvolta non chiaramente espressi) e si aggregano per tentare progetti di rigenerazione, può capitare che le istituzioni tradizionali non favoriscano il processo per il limite (di sordità prima e cecità dopo) nel non riuscire a concedere spazi per tempi lunghi almeno quanto vale il recupero di un investimento per la riqualificazione e riattivazione del bene (15/20 anni).

Nella storia degli ultimi 30/40 anni questa dinamica ha generato una frattura che si evidenzia in 2 emergenze: da un lato una quantità di immobili sottoutilizzati (spesso già recuperati con fondi europei e depauperati dall’incuria) dall’altro un indebolimento del contesto sociale che è causa di costante spopolamento nelle aree interne e di costante crescita del disagio nei contesti urbani di periferie (interne ed esterne alle città).

C’è un lavoro di ricerca e di senso condotto da diverse realtà che esprimono chiaramente la profondità e il valore d’impatto della rigenerazione urbana. Programmi come Culturability o percorsi come il Master U-Rise (IUAV) rappresentano un’avanguardia di livello internazionale per le politiche di rigenerazione. Così come diverse esperienze (FARM Cultural ParkBASE MilanoExFaddaCaserma Archeologica, per citarne alcune) diventano modelli non sempre immediatamente replicabili o scalabili proprio perché le variabili di contesto impongono azioni sempre ben calibrate. Grande valore a questo processo è dato dai tanti progettisti, ricercatori e changemaker che lavorano quotidianamente sul tema della rigenerazione urbana a base culturale e che da qualche tempo hanno costituito il network dell’associazione Lo Stato dei Luoghi.

Rigenerazione culturale e piccoli paesi

In un piccolo paese un progetto di rigenerazione è possibile solo con la combinazione di una serie di condizioni, non solo interne. Innanzi tutto ci vuole un innesco, ovvero serve chi ha una visione e ha la fortuna di trovare terreno fertile.

Danilo Dolci diceva che ciascuno cresce solo se sognato. Questo principio vale anche per un piccolo paese. L’innesco può esserci solo se c’è qualcuno che ha la sensibilità per sognare: un’attitudine che scompare man mano che il paese si svuota. Per questo motivo credo che lo spopolamento sia un fenomeno qualitativo più che quantitativo. Va via chi ha la sensibilità di sognare e vedere oltre e va via perché la maggioranza tende a isolare e deridere quella sensibilità di visione per paura di discostarsi da quel modello del “si è sempre fatto così” che è alla base della dolosa arretratezza delle aree interne e non solo. Lo spopolamento genera implosione e aridità, moltiplicando lo sconforto di chi resta e si sente sempre più isolato.

L’ostilità al cambiamento è il primo pericolo per l’innesco e, purtroppo, non è solo una questione anagrafica.

Mettiamo però che l’ostinazione vince sulla rassegnazione, a quel punto la capacità di visione e di narrazione del cambiamento possono costituire un momento di grande crescita culturale di gruppi sociali che, consapevolmente, avviano un percorso collettivo per prendersi cura di beni e spazi da rigenerare mettendo a fattor comune interessi diversi e soprattutto sogni.

L’articolo 4 della Costituzione dice che: ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. È il punto di partenza di un progetto di rigenerazione, scuotere la responsabilità del cittadino a impegnarsi per la crescita collettiva.

Interazioni tra comunità e privati: la co-progettazione

Una volta allineati gli obiettivi va ampliata l’azione. Per questo il metodo migliore è quello di dotarsi di un rituale nel quale favorire lo scambio e il confronto. Va detto che le associazioni, nei piccoli comuni – tradizionalmente - hanno il limite di rispondere al narcisismo di organi direzionali carichi di rancore e di punti di vista al singolare. Dopo la fase di innesco, pertanto, un limite potrebbe generarsi per la carenza di dialogo tra quei pochi soggetti attivi – ma carichi di pregiudizi - che hanno frammentato l’identità collettiva chiudendosi nella loro idea di futuro, di cultura o, semplicemente, di paese.

Un rituale, quindi, potrebbe generare fiducia atteso che, gli autori dell’innesco, sappiamo favorire un processo di coesione dove l’approccio dei singoli sia quello di sollecitare il dono: cedere, fare un passo indietro, trasferire competenze con umiltà, sono tutte azioni alla base della fiducia che, a sua volta, è l’ingrediente principale di una comunità.

L’organizzazione di un progetto di nuova generazione prevede dunque un processo di co-progettazione che per le attuali generazioni in campo potrebbe sembrare inedito quando, in realtà, le pratiche di mutualismo e condivisione dell’agire, soprattutto nei piccoli centri, un tempo erano prassi molto più diffuse. Oggi è utile fare leva sulla responsabilità sociale (di cittadini e imprese) per generare una nuova etica del bene comune, troppo spesso considerato come campo riservato alle sole responsabilità politiche di amministratori pubblici sempre più distanti o comunque poco consapevoli del divario sociale che va ampliandosi. Al contrario, da parte del decisore pubblico, una politica generativa - ovvero un agire a quattro mani con la comunità - risulta essere davvero un’innovazione e, molti casi ormai lo dimostrano, ha spesso a che fare con la rigenerazione, favorendo il progresso e definendo un rinnovato senso di appartenenza a una comunità.

Il Piano Nazionale Borghi a confronto con la realtà

Un paese piccolo - più che un borgo - oggi è svuotato di senso prima che di abitanti. Centri storici non accessibili diventano invivibili non solo per i limiti strutturali e culturali, ma per la carenza di un processo collettivo che potrebbe ripristinare una visione condivisa del vivere.

Potrebbe essere un discorso generico ma l’architettura delle case, degli spazi comuni e anche delle strade, incide molto sull’abitabilità di un centro storico o di un borgo progettato sui bisogni di qualche secolo fa. Spesso le esigenze erano ridotte al punto che nel quotidiano non si necessitava, ad esempio, di avere scorte di cibo perché non c’era il frigorifero e talvolta nemmeno la dispensa perché a pochi metri, nella stessa strada, c’erano botteghe e magazzini dove procurarsi cibo di cui si conosceva l’origine (comunque garantita dal venditore) e dove spesso non circolava economia, piuttosto quaderni contabili risanati periodicamente con particolare attenzione (non sempre) alle condizioni economiche dell’acquirente.

Ci sono molte case nei centri storici dove non c’è spazio per chi ha un grosso frigorifero o tanti elettrodomestici. Il modello di consumo al quale ci siamo omologati ci ha costretti ad abbandonare quelle case composte da poche stanze una sull’altra alla ricerca di luce in vicoli stretti e freddi.

Oggi la grande retorica del ritorno ad abitare i borghi non sappiamo quanto tenga conto della necessità di rigenerare l’architettura interna ed esterna, in una visione dell’abitare molto diversa e necessariamente nuova rispetto alle condizioni di partenza.

La motivazione che dovrebbe spingere un nuovo abitante o un ri-abitante dovrebbe far leva su un nuovo senso della condizione dello spazio più che sull’enfasi della resilienza. La malinconica e fredda solitudine che si trova nei paesi è una realtà dura che si scontra con la semplice idea di ripopolare i borghi e di come è bello vivere distanti dalle città.

Pertanto l’impatto di un processo di rigenerazione potrebbe anche essere strettamente legato alla gentrificazione che, nel tempo, vede il moltiplicarsi di residenti temporanei più che di abitanti mentre è proprio di questi che si ha bisogno per condividere scelte e agire con obiettivi e visioni possibilmente allineate e orientate a far rivivere ciò che resta dell’identità post abbandono. Un progetto di rigenerazione a base culturale - e quindi sociale - è l’unica opportunità per far rivivere un borgo.

Facciamo un esempio pratico: una famiglia giovane decide di lasciare la città per tornare nel paese di origine o perché spinta a crescere i propri figli in una piccola comunità o semplicemente perché pagherebbe una casa un decimo rispetto alla città, non deve scegliere solo per sé ma deve entrare nell’ottica dell’agire collettivo e deve provare a contribuire per la riapertura del forno, della piccola bottega, dell’asilo. Deve favorire l’arrivo di altri e nuovi abitanti. Deve immaginare di adoperarsi con azioni di volontariato per sistemare gli spazi comuni o per la manutenzione del verde. Deve avere un approccio nel quale il tempo libero diventa tempo comune e tempo di cura per l’altro.

È come una vocazione. Prevede impegno e responsabilità alle quali non siamo educati. Una particolare inclinazione se non abnegazione al sacrificio. Le delusioni e i chi te lo fa fare saranno all’ordine del giorno (un po’ come succedeva nelle lotte studentesche ai tempi delle superiori e come in quel caso c’è un ricorso ciclico e c’è un’autorità contraria) ma, questo significa fare politica di rigenerazione: condividere un’azione con uno sguardo rinnovato, accogliente, rispettoso e in terza persona. Fare rigenerazione diventa opportunità reale quando a questo si associa una base culturale nel definire le azioni, perché diventa atto di creazione nel quale prevedere (insieme) quale destinazione dare ai luoghi e alle vite che ne godranno.

La spinta è reale, ma il processo non è immediato.



Il valore collettivo della rigenerazione culturale

Un progetto di rigenerazione a base culturale e sociale è interdipendente dalle politiche e dalle pratiche del quotidiano. Il borgo o lo spazio rigenerato costituiscono gli strumenti di ecosistema nei quali attuare il processo trasformativo di progresso sociale per la comunità. L’azione è fortemente generativa, capace di produrre risultati anche superiori alle previsioni per una dinamica di nuovo protagonismo di soggetti che responsabilmente contribuiscono, con rinnovata fiducia, al valore collettivo.

Nella governance (anch’essa condivisa) va applicata la metodologia della cross fertilization, un processo che favorisce la nascita di idee di grande innovazione in gruppi con competenze, bisogni e sensibilità molto diverse. In questa biodiversità risiede il successo di un progetto di rigenerazione: l’interesse collettivo è la leva per l’attivazione di un interesse personale (anche economico) che produce effetti positivi per l’intero contesto territoriale. Come avviene in economia nelle dinamiche spillover, in un processo di rigenerazione si attivano scenari non prevedibili ma comunque orientati al miglioramento del risultato complessivo.

Per questo motivo una comunità che ha la possibilità di unirsi intorno a un progetto di rigenerazione, ha la fortuna di poter determinare l’evoluzione delle proprie condizioni senza sentire la responsabilità come un peso ma come un’occasione di prosperità. Oggi, soprattutto dopo che la pandemia ha dimostrato quanto vale un’infrastruttura sociale organizzata, la rigenerazione rappresenta l’unica soluzione politica che valorizza i beni, le economie e le capacità della società che la genera. È un approccio culturale che impatta sul senso di cura, il welfare diventa generativo creando inclusione e rilanciando il valore dell’economia civile in una visione che restituisce una reputazione aggiornata per le istituzioni più tradizionali non più uniche responsabili delle sorti di un territorio.

Cultura e accessibilità

La cultura e l’accessibilità alla cultura sono due argomenti molto distanti dalle agende politiche dei comuni delle aree interne. Recuperare uno spazio e viverlo attraverso la cultura significa creare un presidio nel quale lavorare per ridurre, ad esempio, le disuguaglianze sociali e culturali. Ma anche per contrastare la solitudine e quindi lo spopolamento, per attrarre nuovi abitanti e per costruire in maniera condivisa un futuro possibile.

Il luogo del confronto è fondamentale affinché una società possa generare interesse collettivo. Una volta nei piccoli comuni c’erano piazze, cortili e portici frequentati da persone che si incontravano per fare politica, per prendersi cura dell’altro, per conoscere e sapere. Il luogo del confronto di uno spazio rigenerato attraverso la cultura è un contesto “livellatore” nel quale tutti hanno l’opportunità di potersi esprimere, di poter rivendicare un protagonismo che genera un progresso materiale e spirituale. L’etica di una comunità è un bene comune. La crescita, la condivisione dei bisogni e la costruzione delle soluzioni sono principi di cura di cui oggi una comunità che vuole rimanere sana non può privarsi.

Ne va del benessere diffuso, una comunità che si confronta è una comunità che vuole conservare o ricostruire i saperi contestuali per rinnovarne l’identità e per non sottrarsi al piacere di partecipare con responsabilità alla vita pubblica.

Uno spazio rigenerato è tutto questo ed è un’infrastruttura culturale e sociale di protezione di cui ogni comune dovrebbe dotarsi, perché dopo la pandemia, l’agire collettivo è ormai diventato per tutti un motivo di salvezza oltre che di mutuo soccorso.

La cultura è l’elemento che garantisce un approccio aperto, costruttivo, spontaneo, multidimensionale, naturale, autentico e distintivo. La cultura produce un’interpretazione del “presente in prospettiva” e crea alti livelli di attrazione per chi ha voglia di scoprire e vivere un luogo rigenerato in maniera immersiva, superando la semplice fruizione e generando un interessamento responsabile perché il luogo, proprio con la cultura, crea condizioni di inclusione e partecipazione.

Rischi e opportunità: l’esempio di Convento Meridiano

Nel 2018 la domanda di cambiamento era già un tema quotidiano. In quel periodo l’allora Vescovo della diocesi di Cerreto Sannita (Mimmo Battaglia, oggi arcivescovo metropolita di Napoli) ci chiese un supporto per contrastare il disagio sociale, soprattutto giovanile. In quella occasione abbiamo avviato lo studio per la realizzazione di un progetto di rigenerazione: Convento Meridiano. L’attività di coinvolgimento dei partner e di definizione delle azioni è stata condotta con bambini, adolescenti e famiglie. L’iniziativa ha fatto emergere bisogni inespressi e solitudini che hanno contribuito alla costruzione di un’offerta coordinata e complessiva di grande visione culturale per la rigenerazione dell’intera comunità e del territorio di riferimento, la provincia di Benevento.

L’imponente struttura dell’ex Leone XIII di Cerreto Sannita - chiusa da oltre 20 anni e senza un futuro - è stata riprogettata per diventare un’infrastruttura di prossimità, un centro culturale ibrido e di nuova generazione con una governance aperta e una grande disponibilità di spazi per l’insediamento di nuove fabbriche funzionali: un asilo, un cinema-teatro, un orto sociale, un ostello, diverse imprese creative e soprattutto un punto di accesso (un community hub) nel quale favorire quel processo generativo e trasformativo di cui abbiamo parlato.

Il progetto è risultato tra i vincitori della quinta edizione del bando Culturability - rigenerare spazi da condividere e le sperimentazioni avviate e portate avanti per 3 anni hanno rappresentato una stagione di intensa produzione di modelli innovativi (a partire dalla Casa di Cipì) che abbiamo avuto modo di raccontare in tanti incontri sul tema della rigenerazione. In quei mesi abbiamo avuto modo di prototipare sul campo le azioni di rigenerazione in un borgo. L’entusiasmo e l’impatto della visione rinnovata del bene e, più in generale, del paese hanno evidenziato l’urgenza di agire riducendo il numero oltre che il pensiero di coloro che lottano per “continuare a fare come prima”. Il board di progetto si è arricchito grazie al confronto con partner anche non locali che hanno favorito quei “ponti lunghi” di cui ha bisogno un’idea per essere riconosciuta e validata.

Dall’inizio conoscevamo il rischio di non riuscire a tradurre il valore messo in campo. Tuttavia, i laboratori hanno incoraggiato un contatto continuo con la comunità e la diffusione di un immaginario che corrispondeva alle reali opportunità date dal progetto. Purtroppo però, non avevamo messo in conto che le vecchie pratiche dell’agire pubblico per “interesse privato” avrebbero potuto scatenare azioni fuori da ogni immaginazione. È accaduto - a luglio del 2020 - che un esposto anonimo ha provocato un’ordinanza comunale di sospensione delle attività, nonostante la mole di documentazione fornita sulla regolarità delle condizioni di stabilità della nostra organizzazione. Insomma un atto pubblico prodotto da un Comune (soggiogato da un amministratore dimissionario) che ha sempre visto il progetto Convento Meridiano con la schizofrenia di chi osserva un “pieno” di opportunità nel “vuoto” più totale di visione, interesse e progetti per il proprio paese.

Questo è quello che rischia un progetto dal basso: il consenso delle istituzioni tradizionali ha a che fare con la loro capacità di comprensione, ma ha molto più a che fare con la loro poca inclinazione al cambiamento. Soprattutto in quelle piccole realtà dove vige un’attitudine al servilismo che abbiamo verificato dopo l’accaduto, vista la totale assenza di tutela se non di solidarietà di politici, consulenti e tecnici che fino al giorno prima erano a sostegno del progetto. Non puoi metterti contro il Comune, specie pubblicamente, non conviene.

Per concludere, data l’opportunità di un bando - quello del MiC sui borghi - oggi temo che in tanti piccoli comuni che avrebbero bisogno di visione - prima che di risorse - non ci siano tecnostrutture capaci di rispondere a un avviso che contempla un’azione aperta di co-progettazione per un’iniziativa di rigenerazione a base culturale e sociale.

Un progetto come Convento Meridiano (anche in considerazione dell’insediamento di imprese culturali e creative previsto dalla seconda fase del bando) potrebbe essere scelto e adattato a molti borghi che conosco, ma servono competenze cognitive oltre che pratiche. È come poter applicare il metodo ECoC (European Capital of Culture) su piccola scala.

È un agire “con” e non “su” le comunità. La sfida è grande e speriamo venga colta con consapevolezza.

*Guido Lavorgna è nato nell’entroterra campano. Da sempre impegnato nella cura di iniziative culturali, dal 2005 con la sua impresa Echoes si occupa di comunicazione integrata per lo sviluppo dei territori. Ha fondato Tabula Rasa Eventi, un collettivo che per oltre 10 anni ha lavorato nella produzione culturale e nell’innovazione sociale. Dal 2010 con il progetto Creative Circus si occupa di rigenerazione a base culturale, ha contribuito all’ideazione e nascita della Pinacoteca Massimo Rao in una struttura non utilizzata del comune di San Salvatore Telesino (BN). Ha curato l’allestimento e l’apertura dell’Antiquarium Telesia nelle sale dell’Abbazia Benedettina del Santo Salvatore. A Cerreto Sannita (BN) ha partecipato all’apertura dello storico Palazzo del Genio curandone l’identità. Per il Comune di Amorosi (BN) ha gestito il processo di restituzione di valore e identità del Palazzo Maturi attraverso il festival di teatro AmoTe. Nel 2018 ha collaborato con il master U-Rise dello IUAV di Venezia. Coordina il progetto di Rigenerazione “ConMe Convento Meridiano” per il recupero di un convento a Cerreto Sannita (BN) con il quale ha vinto la quinta edizione del bando “Culturability, rigenerare spazi da condividere” promosso dalla Fondazione Unipolis. Ha anche vissuto per quasi un anno a Trento, periodo nel quale con Guido si è avviata una bella collaborazione attorno al "Viaggio nella solitudine della politica" e ad altre attività poliotico culturali che ancora prosegue.

 

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