"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Giuliano Beltrami *
Uomini e animali, un rapporto millenario e leale. Ci fu un tempo... La prendiamo alla larga per dire (senza romanticismi o nostalgie. Vuoi avere nostalgia per la povertà?), ci fu un tempo, dicevamo, in cui ogni paese dell’arco alpino, in un’economia chiusa, aveva le sue malghe, sempre monticate. E i suoi riti. Come la scelta del “vachèr”, del sottoposto, del “casèr”, degli aiutanti. Per dirla in italiano, il pastore, il casaro e giù giù fino ai bocia. La strada che conduceva ai pascoli e alle malghe in alcuni paesi veniva sistemata attraverso il lavoro degli stessi allevatori, che davano le “ore” (di volontariato) in base al numero di vacche che avevano nella stalla. In quel tempo (sono passati alcuni decenni, ma nemmeno tanti) a metà stagione si faceva la pesa del formaggio, e se ne faceva una (definitiva) alla fine della stagione.
Uomini e animali, abbiamo detto. Ma il rapporto leale va ricordato anche fra uomini e uomini. Nemmeno qui nostalgie: in realtà le liti per il pascolo, la concorrenza per prendere una malga anziché un’altra c’erano anche allora. Però la malga era la vita del paese. Perché l’anno era scandito dalle fasi della luna e dal cambio delle stagioni: dalla semina al raccolto, dalla nascita del bestiame alla macellazione, dalla transumanza primaverile verso la malga al ritorno autunnale in paese. E i pastori conoscevano per nome tutte le vacche che avevano nello stallone.
E oggi? Il numero delle malghe si è ridotto drasticamente, come si è ridotto il numero degli allevatori. Dalla stalla con tre o quattro capi si è passati ai grandi allevamenti sull’onda di un’economia che aborrisce il “piccolo” per costruire il “grande”: vedi la chiusura delle bottegucce in favore dei supermercati e dei centri commerciali.
Così è cambiato il rapporto con la malga. I grandi allevamenti hanno bisogno di grandi superfici pascolive, perché (e qui si entra nella modernità) più superfici possiedi o prendi in affitto, più soldi incassi sotto forma di premio dall’Europa.
Anno di disgrazia 2006. L’Unione europea vara la riforma della Politica agricola comunitaria (Pac), introducendo l’opportunità del disaccoppiamento, ossia la possibilità di “appoggiare” sui pascoli di montagna il “titolo” (che significa la rendita) maturato per altre produzioni in terreni di proprietà o in affitto. Detta in soldoni (senza ironia), possiedi un terreno coltivato a tabacco? Trasferisci l’equivalente di quegli ettari, con relativo importo (significativo) sulla montagna. Risultato: ci sono allevatori che portano via fior di pascoli, anche se non riusciranno con i loro capi a monticarli. E se non avranno capi a sufficienza andranno a prenderli in giro per l’Italia.
Emblematico ciò che è successo in Rendena l’estate scorsa, quando sono arrivate alcune centinaia di pecore dall’Umbria, pare destinate al macello e finite ugualmente al macello, ma in alta montagna, dove, appunto, una parte ha trovato la morte ed è stata sepolta.
Ecco, la Rendena, lembo occidentale del Trentino: cullata fra le cosce dell’Adamello e del Brenta. E’ diventata il “caso”, con la spaccatura fra allevatori: fra chi si è portato a casa un alto numero di pascoli e chi è rimasto a becco asciutto. Inevitabilmente è scoppiato il malumore, che ha visto schierarsi da una parte un gruppo, guidato dal presidente dell’Unione allevatori, e dall’altra chi era accusato di speculare. D’altronde quando vinci una gara d’appalto, e poi due, tre, quattro, cinque... Il minimo che possa succedere è che venga guardato in cagnesco da chi di appalti non ne ha presi nemmeno uno. Senza contare il prezzo base delle gare d’appalto. Capito che gli allevatori portano a casa premi e contributi vari, i Comuni, le Asuc (Amministrazioni separate usi civici), le Regole (proprietà collettive), insomma, i proprietari dei pascoli hanno fatto salire i prezzi. E gli allevatori, obtorto collo, devono inseguire per riuscire a collocare il loro bestiame.
A spiegare l’entità del fenomeno e a giustificare il motivo della corsa agli appalti basti un dato della Corte dei Conti: nel 2018 gli organismi pagatori (Agea) hanno erogato aiuti comunitari agli agricoltori italiani per 4.299 milioni di euro.
Situazione complessa, si capisce. Anche perché non ci sono solo disastri in montagna. In fondovalle, per intenderci, le grandi stalle producono montagne di deiezioni. Dove scaricarle senza riempire di letame le campagne? In genere le valli di montagna (la Rendena ne è un esempio plastico) vivono sì di agricoltura, ma soprattutto di turismo, e il rapporto fra questi due settori (proprio per la presenza del letame) non può che essere conflittuale.
Ma la situazione di maggiore sofferenza riguarda i pascoli. Non a caso definiti “di carta” perché contano di più le carte del bestiame. Diventa sempre più improrogabile passare dai “pascoli di carta” a una “carta dei pascoli”, nel senso di regole chiare e scritte in maniera tale da evitare (non scoraggiare, evitare proprio) le speculazioni. Prima che la montagna venga abbandonata dagli allevatori seri.
* Editoriale pubblicato sul numero di Slowzine, Magazine di informazione e d approfondimento della Condotta Slow Food Valle dell'Adige e Alto Garda, n.13/2021
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