"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Sul sentiero della pace non c'è la spesa militare

Hiroshima. Ombre.

C’è una «fraternità del dolore» di cui dovremmo fare tesoro: la sentiamo come un codice genetico, come una pulsazione naturale, dentro i nostri cuori.

di Nichi Vendola *

Kiev siamo noi. Ogni singolo fotogramma catturato sui fronti di guerra ferisce il nostro sguardo e il nostro sentimento di umanità. Ogni dolente cronaca della devastazione comandata da Putin ci spinge dentro la voragine di un regresso da cui pensavamo di essere risaliti faticosamente. Kiev, Mariupol, Odessa, Kharkiv siamo noi. Le città squartate, incenerite e fumanti del martirio ucraino sono lo specchio rovesciato delle nostre città vibranti di incontri, di suoni, di socialità. Siamo anche noi le famiglie strappate al tepore domestico, alla serenità degli affetti, alla normalità della vita quotidiana. E noi siamo loro: la stessa razza umana, lo stesso diritto alla dignità, la stessa ambizione di camminare eretti guardando il cielo, le stesse lacrime quando si strappa la trama preziosa della vita.

Voglio dire che c’è una «fraternità del dolore» di cui dovremmo fare tesoro: la sentiamo come un codice genetico, come una pulsazione naturale, dentro i nostri cuori, dentro le nostre pupille che non smettono di guardare. Eccola l’umanità oltraggiata, eccola nella sua corsa al cardiopalma per sfuggire alla mattanza, per mettere in salvo un bimbo, ma anche un gatto o un cane, per stringersi nel rifugio mentre il proprio quartiere rimbomba per le detonazioni, per non lasciarsi seppellire dalle macerie della propria casa che crolla, eccola separarsi dai propri affetti e dai propri luoghi, salutare il proprio universo e salpare verso destinazione ignota: non c’è intelligenza geopolitica che non debba misurarsi innanzitutto con questa sofferenza, con l’orrore dell’aggressione criminale di un autocrate imbalsamato sul suo trono. Non si può separare il discernimento dalla compassione. E in queste settimane di sgomento forse abbiamo persino imparato a comprendere il significato amaro e tristissimo della parola profugo: chi fugge dalla città che brucia, proprio come Enea, non è un turista o uno speculatore imboscato...

Ma la cognizione del dolore ci chiede un pensiero nuovo e una nuova prassi, e non la reiterazione conformista delle stesse politiche di potenza che portano in pancia gli embrioni di tutte le guerre: ci chiede di osare la profezia della pace, non solo come atto di fede o preghiera, ma come duro sentiero da percorrere passo su passo, come ferialità dell’impegno per il disarmo dei popoli e delle persone, come conversione radicale del modello di sviluppo. Dico una cosa banale: ora c’è una guerra, ma prima non c’era la pace come edificazione attiva, c’era una pace passiva, inerte, incapace di bloccare i programmi di colonizzazione militare persino del cielo e delle stelle. Perché pace è una parola cancellata dalle mappe geografiche del realismo dominante, è un «flatus vocis» che non lascia il segno. L’unico leader mondiale che si carichi sulle spalle il fardello di quella scandalosa parola è Papa Francesco, l’unico ad aver radiografato, ben prima dell’incendio ucraino, la realtà di una «terza guerra mondiale a pezzi».

Eppure senza questa condivisione, senza questa «coscienza di specie», senza questa comunanza di destino, difficilmente noi potremo evitare la catastrofe. Siamo dentro un cumulo drammatico di crisi di sistema, dentro un mappamondo che pare governato dall’anarchia dei mercati, con la biosfera asfissiata, lo sciame pandemico, la guerra immanente. E la pace, sempre umiliata e negletta, non è altro che la «pietra di scarto» che abbiamo il dovere di recuperare dalla discarica della storia: per usarla come lucerna nel buio della disumanità, per farne la pietra angolare di una nuova convivenza e di una nuova economia.

Non dobbiamo mai dimenticare che la guerra arma non solo i soldati e gli eserciti, ma anche il vocabolario, i sentimenti, l’immaginario, e che ipoteca con i suoi codici culturali e militari tutto lo spazio del futuro.

Infatti noi ruzzoliamo giù rovinosamente verso sceneggiature e sequenze da cine-giornali del passato. Vien voglia di chiedere, al dio orfico del tempo o alla sentinella biblica di Isaia: scusi, che anno è? Che secolo è? Come siamo finiti dentro questo furioso assedio, in questo allucinato medioevo postmoderno, tutti noi prigionieri di una macchina del tempo che mescola internet e la clava, l’atomica e la catapulta, i droni e gli archibugi? E c’è da disperarsi se, a fronte della odierna carneficina, la lezione da apprendere è che occorra investire sui sistemi di sterminio e aumentare le spese militari. Ancora e ancora, alla faccia della povertà di cui la guerra è sorella, e nel nome di quegli apparati industriali militari che, a Est come a Ovest, sembrano dominare l’economia della globalizzazione: non è paradossale immaginare che sia questa bulimia di armamenti a proteggerci dalla guerra?

Ecco, si ha davvero nostalgia dell’invocazione biblica e politica del nostro don Tonino Bello: «In piedi costruttori di pace!». Quella testimonianza, portata fin dentro il martirio di Sarajevo, non è una reliquia da conservare in una teca, piuttosto è una bussola per i giorni nostri: ci aiuta a ritrovare l’unica strada della salvezza.

 

1 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Angela Falla il 21 marzo 2022 18:09
    Già, sono ferita e sanguino senza essere colpita da nessun proiettile. Grazie di questo bel contributo, domani lo leggeremo in classe. Ciao
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