"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Silvano Falocco *
(31 marzo 2022) Sono passati dieci giorni dall’appuntamento di Visione Comune e forse è giunto il tempo di qualche riflessione e rispondere alla domanda “a cosa abbiamo partecipato il 19 marzo?”
Partiamo dai numeri: circa 1.000 persone, in una giornata che non invitava ad uscire da casa, si sono trovate in uno spazio all’aperto, il Parco delle Energie, al centro di un conflitto decennale nella città di Roma, per condividere riflessioni attorno ai temi della giustizia ambientale e della giustizia sociale. Un appuntamento organizzato da Elly Schlein, in rete con altre forze politiche e sociali, con 7 panel facilitati da 7 donne: Marta Bonafoni, che ha messo in campo “POP Idee in movimento” per gli aspetti organizzativi della giornata, Rossella Muroni, Elena Ostanel, Gessica Allegni, Marianna Panzarino, Elena Comelli, Anna Falcone. Ogni sessione di lavoro, durata circa 1 ora, ha ospitato tra i 6 e gli 8 interventi – complessivamente 49 da parte di 25 donne e 24 uomini – che hanno cercato di mantenere uno sguardo e un approccio intersezionale. A questi, senza alcuna pausa pranzo, si sono aggiunti gli interventi di apertura e chiusura dI Elly Schlein, i due interventi politici di Letta e Conte, 4 contributi esterni, tra cui Alessandro Zan e Fabrizio Barca, che ha poi scritto, su TPI, di aver incontrato “pratiche di cambiamento radicale, frutto di conflitto, collaborazione, impegno, in un misto di pubblico, sociale e privato che rompe schemi ma che ha sempre al centro agenti di cambiamento - molte donne - visionari, concreti, empatici, pronti a rischiare, con un obiettivo comune: ridurre le disuguaglianze e liberare le diversità, facendo saltare subalternità di classe, genere e razza e la subalternità dell'ecosistema a noi tutti. Pratiche da salvaguardare, completare, diffondere. Pratiche che cambiano la vita delle persone.”
Partiamo da quel che l’incontro non voleva essere: non il primo passo della costruzione di un partito, non l’inizio di un percorso politico predeterminato, non la costruzione di uno spazio “a sinistra del PD”, dove si aprirebbero le solite e presunte praterie, di cui nessuno ha bisogno. Ma nessuno ha comunque pensato che le esperienze che sarebbero venute a parlare sarebbero state esse stesse la dimensione politica a cui aspirare: con il rischio dell’auto-referenzialità e l’autosufficienza a cui abbiamo assistito troppe volte per non comprenderne la sterilità. “Visione Comune” ha pensato di costruire uno spazio politico dell’insufficienza: delle persone, delle organizzazioni, delle proposte, troppe volte anche delle idee. Il riconoscimento di questa insufficienza è la base di qualsiasi processo costruttivo di una visione comune.
Al contrario il punto di partenza è stata la condivisione dell’orizzonte, dei temi e dell’approccio: è da qui che si è partiti.
Il nesso tra giustizia ambientale e giustizia sociale è stato indubbiamente il perno della giornata, il tema chiave della riflessione: considerare inscindibili questi due aspetti, così come viene concretamente praticato nelle mobilitazioni per il clima e per la parità di genere, contro lo sfruttamento dei migranti e del lavoro precario, contro il razzismo e la guerra, contro il nazionalismo e per un’Europa giusta, sostenibile e solidale. Attorno a questo centro è girata tutta la giornata del 19 marzo, consapevoli che il ritardo della politica è gigantesco, forse non più recuperabile. Quando le due giustizie vengono citate in fila, si tratta perlopiù di un artificio retorico senza capirne realmente i risvolti, senza tirarne mai le conseguenze, senza assumerne la radicalità. Eppure basterebbe leggere qualsiasi rapporto degli organismi internazionali sul clima, sul consumo delle materie, sulle terre rare, sullo stato della biodiversità per rendersi conto delle relazioni con i diritti sociali, con il benessere e la salute delle persone, con la loro capacità di avere una vita buona o almeno dignitosa.
Le sessioni hanno cercato di problematizzare questi temi, con i limiti assegnati dalla durata degli interventi. È possibile convertire i sistemi energetici alle fonti rinnovabili oppure questa conversione implica un ridimensionamento dello spazio dell’economia? È possibile l’uso spinto delle tecnologie green senza cambiare anche il modello fossile, evitando che domani sia l’indisponibilità delle terre rare a costituire un inevitabile “collo di bottiglia”? Possiamo concepire, e come, una società dei diritti nel quadro perimetrato dai confini planetari? Dobbiamo continuare a parlare di transizione ecologica come se si dovesse passare solo da uno stato all’altro o dobbiamo parlare di conversione con le inevitabili implicazioni sui modelli di società che possiamo aspirare a disegnare? I sistemi alimentari, che oggi propongono il buon cibo di qualità solo ai benestanti, richiedono una mera riduzione dell’impronta ecologica, carbonica e idrica oppure un ridisegno delle diete alimentari? L’economia circolare è il nuovo paradigma a cui tendere oppure è una soluzione solo temporanea che non intacca il reale metabolismo economico e sociale? Quale ruolo destinare al lavoro, superando il precariato che distrugge vite e futuro, e alla riduzione dell’orario? È possibile questo passaggio epocale se non viene intaccato il patriarcato e i dividendi perennemente garantiti ai maschi bianchi occidentali? Come riusciamo a conciliare il diritto dei popoli che si affacciano allo sviluppo, di qualsiasi genere esso sia, con il nostro contributo, partito con il primo colonialismo e continuato con l’accelerazione industrialista, alla distruzione del Pianeta e che oggi addita i “nuovi entranti” come i responsabili del cambiamento climatico e del degrado degli ecosistemi? Possiamo concepire una pace giusta, che tenga conto della necessità di politiche di contrazione e convergenza? Quale rapporto con i tanti Sud o Est del mondo, al di fuori del racconto sviluppista?
Queste domande non erano esplicite negli interventi ma erano implicite nelle prassi, che cercano una risposta praticabile, un’utopia concreta, presenti all’incontro. D’altronde costruire un ragionamento a tavolino non risulta soddisfacente per nessuno. Le trasformazioni vanno praticate non enunciate, anche perché la strada che porta ai disastri è lastricata quasi solo di buone intenzioni.
D’altronde, se può essere utile a comprendere la sfida, la costruzione del programma di POP “Roma può rifiorire” è avvenuta proprio con un metodo maieutico, cercando di farlo emergere dalla terra, a volte dal fango, delle lotte, dell’impegno, dei saperi e delle mobilitazioni. Possiamo leggere la giornata del 19 marzo come un primo tentativo di scuotere l’albero per raccogliere e condividerne i frutti. Un primo e ambizioso tentativo.
Non solo i temi, ma anche l’approccio concretamente praticato, quello intersezionale, è stato rilevante: ogni sessione di lavoro ha cercato di stimolare sguardi diversi, tenendo sempre insieme le sfide cruciali e le lotte che attraversano la società, non separando mai, se e quando possibile, i partiti dalle associazioni e i movimenti. A volte i linguaggi faticano a riconoscersi, le distinzioni diventano semantiche, gli steccati vengono eretti più che superati, i personalismi dilagano fino al narcisismo: il lavoro preparatorio dell’iniziativa ha solo seminato un terreno, ma molto lavoro resta da fare. Certo l’approccio intersezionale è di tipo dialogico, non pretende che una verità o semplicemente un percorso si affermi, una ragione diventi prevalente; crede al contrario che la rottura della cronologia sociale, frutto delle società capitalistiche contemporanee, non possa essere riassunta da un soggetto, ma necessiti di un’interazione costante di molteplici dimensioni, punti di vista e identità sociali. È un lavoro che non procede in modo spontaneo ma ha bisogno di terreni fertili, di spazi di riconoscimento reciproco, di parole condivise, di un buon clima per i rapporti personali.
Clima che, durante il 19 marzo, si respirava in modo palese, attraverso gli sguardi, gli abbracci, i sorrisi, gli incoraggiamenti.
Certo l’obiettivo è quello di ridefinire il cosiddetto “campo democratico e progressista” iniettando idee e forze vitali, ecologiste, femministe, partecipative, per ristrutturarlo completamente, con esiti drammaticamente incerti. O forse per costruirne uno diverso e nuovo, oggi inimmaginabile, che non arranchi dietro le retoriche, i protagonismi, le miserie e i rancori del passato. L’obiettivo è quello di ridare voce e forze a battaglie che dovrebbero dare senso all’impegno di ognuno, senza farle disperdere nei mille rivoli della sterile testimonianza. A questo serviranno, nei mesi a seguire, l’attivazione di una rete, l’azione diretta, la riflessione e l’elaborazione programmatica, l’organizzazione, e sì forse anche quella, e la comunicazione.
È il compito che “Visione Comune” si è preso, rischiando inevitabili incertezze e fallimenti, con coraggio, ma consapevole che pochi altri potrebbero farlo con la medesima autorevolezza.
* POP Idee in movimento, Roma
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