"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Un viaggio di ascolto, dentro un pericoloso silenzio
di Federico Zappini *
Dovevamo essere 5mila. Siamo arrivati a Kiev in poco più di cinquanta. Non deve essere letta come una sconfitta questa composizione ridotta della delegazione – anche per motivi di sicurezza, necessariamente stringenti in un paese in guerra – ma come stimolo al dare corpo a mobilitazioni sempre più vaste (oggi colpevolmente assenti, ci tornerò) in grado di fornire una massa critica sufficiente a livello europeo per chiedere/imporre l’interruzione dell’invasione russa e un contestuale percorso diplomatico che dia continuità e solidità alla pace, oggi interrotta e ferita.
Il primo avamposto del Mean (Movimento Europeo di Azione Non Violenta) è un gruppo eterogeneo di uomini e donne che – questo il tratto distintivo della missione appena conclusa – ha condiviso l’idea di un viaggio basato sull’ascolto dei propri interlocutori in Ucraina, di un’esperienza dialogica che accetta la complessità e le contraddizioni di uno scenario di guerra e dei dolori e dell’incertezza cui essa costringe da più di cinque mesi milioni di persone dentro e fuori i confini ucraini.
Un percorso di ricerca e confronto che si basa su una duplice urgenza, perfettamente descritta da Marianella Sclavi, una delle principali animatrici del progetto. Dobbiamo sentirci tutte e tutti coinvolti da un conflitto che a poche centinaia di chilometri dall’Italia e nel cuore dell’Europa da più di centocinquanta giorni terrorizza, colpisce e uccide la popolazione civile ucraina, sotto scacco di una ingiustificabile aggressione. Essere presenti a Kiev l’11 luglio ha significato prima di tutto questo. “Per sentirci e agire in modo umano serve il contatto, la presenza in comune” ci ha ricordato Angelo Moretti, altra anima ispiratrice di questa concreta e visionaria esperienza.
Contestualmente dobbiamo essere consapevoli che rompere il silenzio che stava calando attorno alla guerra – in una caldissima e faticosa estate, dove le crisi globali si sommano e moltiplicano – presuppone l’idea di coltivare e sperimentare l’ambizione di essere con i propri corpi innesco di iniziative non violente (di diplomazia e cooperazione, di confronto e di mobilitazione popolare) che affianchino, indeboliscano e, il prima possibile, sostituiscano il linguaggio della guerra e delle armi, oggi predominante.
Normalità e bombe. La città che riparte, le città che muoiono.
Attraversata la frontiera a Medyka – il flusso dei profughi, ridotto, è rivolto verso il territorio ucraino – ci aspettano più di 650 km di viaggio. Lunghi rettifili attraversano la pianura, per ampi tratti coltivata e in alcuni frangenti temporaneamente ornata a bandiera, tra il giallo intenso dei girasoli e l’azzurro profondo di un cielo sgombro di nuvole. Il percorso è punteggiato di posticce infrastrutture militari ammucchiate a bordo strada (cavalli di frisia, blocchi di cemento, soldati in attesa) e – con minore frequenza – da segni dei bombardamenti delle prime giornate di invasione russa, nel momento in cui si temeva che Kiev sarebbe caduta in poco tempo.
Entriamo da ovest lungo territori che non hanno subito le stesse violenze di Irpin o di Bua, solo qualche chilometro a nord verso il confine bielorusso. Kiev è metropoli moderna, fatta di grattacieli snelli e di palazzi storici di rara bellezza. Grandi strade di scorrimento, dal traffico comunque abbondante. Monumenti e centri amministrativi sono protetti da alte pile di sacchi di sabbia. Sui muri campeggiano manifesti che inneggiano alla resistenza ucraina, sul palazzo del Municipio che è luogo di uno dei nostri incontri è appeso un grande drappo che chiede la liberazione degli assediati della Azovstal (te la ricordi la Azovstal?).
La città vive dentro quella che sembra una parziale normalità, almeno durante il giorno e fino all’imbrunire. Dalle 23 il coprifuoco svuota le strade e le rende silenziose. Le sirene dell’allarme aereo suonano (in parallelo alle notifiche dell’app AirAlarmUkrain, che annuncia il rischio di attacco) ma non convincono più i cittadini a scendere nei rifugi, ormai “abituati” come sono alle dinamiche della guerra, oggi almeno in questa parte del paese caratterizzata da una minor intensità bellica.
Le bombe però cadono numerose e letali altrove, ad est e sud, dove l’attacco – pur in una fase cosiddetta di riorganizzazione – continuano a mietere numerose vittime. Odessa, Vinnytsia, Kharkiv sono solo alcune delle città che giorno dopo giorno muoiono sotto i colpi dell’artiglieria russa e rimangono isolate lasciando la popolazione rimasta priva dei servizi essenziali e delle minime condizioni di sicurezza. L’intero Dombass – per larghissima parte occupato al momento dall’esercito russo – è fronte di guerra, costantemente attraversato dal lancio di missili e dai cannoneggiamenti dei due eserciti che si confrontano in una lenta e sanguinosa guerra di posizione.
Le notizie e le immagini (terribili) ci raggiungono attraverso i canali social, dalle pagine – non più le primissime – dei quotidiani, dai messaggi delle altre carovane umanitarie presenti sul terreno.
Una dimensione politica, che si aggiunge alla necessaria solidarietà.
C’è – a mio modo di vedere – un valore aggiunto importante nella presenza del Mean a Kiev che sta nella capacità di esprimere e praticare uno sguardo multilivello nell’analisi del contesto e nella scelta d’intervento da mettere in campo.
C’è il piano della solidarietà diretta, fatta di aiuti materiali (alle famiglie e alle comunità, in loco o tramite iniziative di accoglienza e supporto alle popolazioni in fuga) e di progettualità di breve/medio termine, così come abbiamo discusso in tavoli di lavoro dedicati ai temi della cura da dedicare ai più giovani e ai più fragili, della conservazione e del recupero del patrimonio artistico e culturale danneggiato o messo a rischio dal conflitto, del possibile rilancio – a tempo debito, speriamo non troppo in là – del turismo ucraino.
C’è poi un secondo aspetto – che sapevamo scivoloso – che riguarda il sostegno della difesa all’aggressione in corso. Non ha molta importanza a mio parere disquisire oggi sul significato autentico del termine resistenza (lo è? non lo è?) ma serve osservare con attenzione l’evoluzione del conflitto sul campo dal 24 febbraio ad oggi. Onestà intellettuale vuole che ci si dica apertamente che il fatto che oggi un governo sia ancora operativo a Kiev e che l’invasione russa impatti “solo” su 25% ca. del territorio e non sulla sua interezza deriva dall’opposizione – anche militare – che l’esercito russo si è trovato ad affrontare. Detto questo, e dato per scontato che Putin non ha nessuna intenzione di fermarsi, il vero interrogativo è quello legato a quale sia la nuova fase del conflitto verso la quale intendiamo muoverci. Crediamo e riteniamo auspicabile davvero la controffensiva autunnale delle forze ucraine (per riconquistare il Dombass? per andare oltre? per sconfiggere la Russia e vendicarsi nei confronti di Putin?) o invece vogliamo investire maggiori energie per il raggiungimento nel minor tempo possibile di un “cessate il fuoco” reale, a partire dall’invasore, che è condizione minima sulla quale costruire le strategie per i successivi, auspicabili, dialoghi di pace?
Costruire la pace quindi, mettendo al centro la pace. Per muoversi in questa direzione serve un surplus di elaborazione politica, per nulla semplice e piena di ostacoli, che è quella che permette di individuare strade percorribili dal confronto non-violento anche quando questo sembra impossibile, perchè marginale e afono. Alla fantasia e all’immaginazione, oltre che all’impegno perseverante dei costruttori di pace (pacificatori, oltre e più che pacifisti, ci siamo detti durante il viaggio), si è appellato Papa Francesco riflettendo su un suo possibile prossimo viaggio a Kiev e a Mosca.
Determinare le condizioni del sentiero che porta alla pace (con quali strumenti? dentro quali cornici di legittimazione internazionale?) e non al moltiplicarsi e all’inasprirsi dei fronti del combattimento. Questa è la sfida più alta che il Mean – e non solo il Mean – deve darsi in questo preciso momento, prima che si chiuda qualsiasi spiraglio e siano di nuovo gli arsenali, riassortiti nel corso dell’estate, a riempire il campo.
Quanto tempo abbiamo? Quali alleanze possiamo attivare? Come possiamo modificare l’aspetto dello scenario, fuori dalla sola dinamica dei rapporti di forza militari?
La strada strettissima della pace.
Sono rientrato da Kiev felice dell’esperienza ma pessimista di fronte allo scenario della guerra. La strada della pace è strettissima. Le motivazioni di questo sentimento fanno riferimento a tre motivazioni più generali, a cui ne aggiungo una quarta strettamente collegata ad alcuni dati emersi dalla nostra breve permanenza in Ucraina e che ritorna ricorrente in quasi ogni scenario di guerra di cui io ho memoria e/o conoscenza.
a) La strategia di potere e conquista di Vladimir Putin che, come già sperimentato negli ultimi venti anni dalla Cecenia alla Siria, non si esprime dentro indirizzi di razionalità ma lungo crinali di violenza e cinismo esponenziali che non rispondono a schemi di confronto e scontro lineari e leggibili. Un progetto che unisce mire espansionistiche a metodi para-terroristici che lavorano giorno dopo giorno sulla destabilizzazione emotiva oltre che militare.
b) La fragilità dei soggetti che dovrebbero e potrebbero avere il ruolo di mediatori. Privi di autorità per i loro stessi meccanismi di funzionamento (ONU), uniti come forse mai prima ma ancora lontani dal rappresentare l’interessante contraltare democratico alle altre potenze mondiali (Unione Europea), infragiliti dalle dinamiche elettorali o parlamentari (Francia, Inghilterra, Germania, Italia), segnati dalle proprie tensioni interne e da una storia recente segnata da profonde contraddizioni (USA e, parallelamente, NATO), ambigui e interessati ad attendere di valutare in posizione “neutrale” e opportunista il prossimo tornante della storia (Cina, Turchia). Nessuno sembra in grado di indirizzare su una strada diversa il conflitto. Nessuno riesce/può/vuole ipotizzare uno sviluppo inedito della situazione.
Bifo a inizio conflitto definiva come “demenza senile” la patologia che sta colpendo le leadership occidentali, tenendo dentro questo orizzonte geografico e di senso la stessa Russia di Putin e dei suoi oligarchi. Credo sia un’interpretazione particolarmente interessante perché mette in luce in parallelo la crisi della globalizzazione per come la abbiamo conosciuta fin qui (ne scrive benissimo Arlo Poletti in un recente volume, dal titolo Antiglobalismo, uscito per Il Mulino) e la fatica terribile che facciamo a rimettere insieme i pezzi di un “sistema mondo” che alle speranze di benessere diffuso e sempre crescente che ci erano state promesse restituisce invece incertezza, instabilità, diseguaglianze, dolore e ora, di nuovo, la guerra.
Dentro questo contesto non è difficile immaginare che sul baratro di un pianeta a rischio collasso – ecologico, economico, demografico, democratico – non ci sia qualcuno (Putin lo sta dimostrando plasticamente) disposto ad accettare un’ultima scommessa di potenza e sopraffazione.
Potrebbe sembrare addirittura una scorciatoia allettante. Fare i conti con le conseguenze – potenzialmente definitive dentro uno scontro di carattere nucleare – sarà compito di altri, di chi verrà dopo.
c) La marginalità delle mobilitazioni per la pace, drammaticamente insufficienti rispetto a una condizione così compromessa e alle contromosse che servirebbero per invertire la rotta. Serviranno i 5000 che avevamo previsto all’inizio del percorso del Mean. E poi altri 5000, e altri 5000 ancora, capaci di tenere insieme i fili delle grandi questioni di questo tempo precario: offrire strategia e concretezza alla conversione ecologica, connettere le plurime lotte per la giustizia sociale, dare vita a un laboratorio per la costruzione nuova piattaforma democratica a livello planetario.
Fermarci per un po’, scendendo dall’ottovolante schizofrenico su cui sediamo, potrebbe essere un primo passo. Scioperare (per recuperare il tempo della discussione, del confronto, della condivisione) come ci ha suggerito Greta nei suoi venerdì per il clima, darebbe il senso dell’urgenza del momento e permetterebbe di lavorare sulla ricucitura delle comunità sfarinate di cui siamo parte.
Ecco infine il quarto motivo del mio pessimismo:
d) Il passato che non passa. Il futuro che non nasce. Nella notte del 23 febbraio scorso Vladimir Putin ha tenuto un lungo discorso che partendo dall’inizio del ‘900 risaliva il secolo affermando, in estrema sintesi, l’inesistenza storica e geografica dell’Ucraina. Quell’intervento fu premessa – sottolineatura di una memoria dal suo punto di vista tradita a cui far riferimento, da far riemergere e far pesare – al pressoché immediato inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”, la guerra d’invasione ancora oggi in corso.
Quando il passato non passa e anzi lo si utilizza, insieme alla rivendicazione di identità monolitiche e prive di sfumature, per tracciare barriere e giustificare azioni di aggressione gli spazi del dialogo si comprimono, la parola perde valore e viene sostituita dagli strumenti della forza muscolare.
Durante uno dei nostri incontri più istituzionali che abbiamo avuto - anticipato dagli inni nazionali ucraino, italiano ed europeo – uno dei nostri partner locali ha espresso con grande chiarezza e fermezza il bisogno del popolo ucraino di ricordare e rinforzare la propria storia (la primogenia sul ceppo rus, quella popolazione non omogenea e figlia dell’incontro tra diversi che nel medioevo abitava le pianure ucraine e bielorusse) per stringere le fila di fronte a un invasore che quella stessa storia e identità non intende riconoscere e anzi punta ad annientare.
Storia e identità. Identità e storia. Radici applicate a uomini e donne (che alberi non sono), per tenere i popoli legati al passato invece che permettere loro di utilizzare gambe, cuore, cervello, desiderio e immaginazione per avvicinarsi a un futuro desiderabile, necessariamente diverso da un futuro di guerra e violenza.
Corpi civili di pace, una proposta tra Trento e Leopoli
Nel corso della preparazione del viaggio e poi in tante conversazioni nei giorni di Kiev ci siamo confrontati sullo strumento dei corpi civili di pace come opportunità di interposizione e risoluzione dei conflitti. Nel 1994 Alexander Langer si prodigava in una battaglia presso il Parlamento Europeo per far votare l’istituzione di una compagine disarmata che potesse essere messa in campo per prevenire o ricomporre le tensioni tra Stati o all’interno degli Stati. Una proposta visionaria che il politico verde articolò in una serie di testi al fine immagino di non potersi far accusare che all’idea non corrispondesse una strutturazione sufficientemente concreta. [https://unacitta.it/it/articolo/articolo.asp?id=725]
Incardinato tra la dimensione europea e quella della Nazioni Unite; dotato inizialmente di 1.000 effettivi (400 professionisti e 600 volontari); doveva essere impegnato in opera di mediazione, costruzione di dialogo, riconciliazione, osservazione, analisi e inchiesta; aveva la necessità di trovare relazione e reciprocità con le forze di peacekeeping militare presenti nello stesso scenario. Le linee di finanziamento dovevano essere individuate in seno all’Unione Europea.
Se a livello comunitario pochi passi sono stati fatti sono davvero pochi, impercettibili, in Italia qualche timida iniziativa ha preso vita nel 2014 grazie all’iniziativa parlamentare di Giulio Marcon che riuscì nell’annuale legge di bilancio finanziamento di 9 milioni “destinati alla formazione e alla sperimentazione della presenza di 500 giovani volontari da impegnare in azioni di pace non governativa nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto“. Un segno di attenzione e una prima sperimentazione che – collegata al Servizio Civile – che negli anni ha coinvolto circa 160 ragazze e ragazzi ma che non è riuscita nemmeno a investire per intero tutti i fondi del primo stanziamento.
C’è quindi un problema organizzativo, con il progetto al margine dell’attenzione politica, unito a una più generale disattenzione a quegli interventi che non riguardino la dimensione militare (nello stesso periodo la sola Italia ha speso 190 miliardi di euro in armamenti) e che tentino di produrre un’alternativa alla risoluzione guerreggiata dei conflitti.
Serve tornare a ragionarci seriamente, trovando risorse adeguate e – ancora di più – alleanze sovranazionali che recuperino lo schema d’intervento pensato da Langer e lo elaborino per essere funzionale al contesto attuale, se possibile ancora più complesso, disarticolato e rischioso di quello degli anni ’90 attraversati dalle guerre balcaniche.
Proprio sull’asse Italia – Ucraina che vive oggi una nuova stagione di relazioni, dialogo, cooperazione potrebbe svilupparsi questo percorso di ri-progettazione e sviluppo dei corpi civili di pace. Trento e Leopoli sono le due candidate rimaste in lizza per essere capitali europee del volontariato per il 2024. Quale migliore occasione per tentare insieme (attivando tutte le realtà che sul tema si impegnano e hanno maturato esperienza sul campo) il rilancio di un progetto che potrebbe ridare centralità operativa, energie concrete e competenze specifiche ai percorsi per la pace.
Ci proviamo?
Occuparsi della guerra è creare spazio per la pace.
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