"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Il corpo nel presente, la mente nel secolo scorso

Angelus Novus

«La maledizione di vivere tempi interessanti» (126)

di Michele Nardelli

(24 settembre 2022) Forse per la prima volta nella mia vita osservo quasi con estraneità l'approssimarsi delle elezioni politiche. Per una persona che ha dedicato alla politica gran parte della sua esistenza, potete immaginare quanto questo fatto possa essere doloroso. Ma tant'è.

Questo non mi ha impedito di continuare anche nelle settimane di questa strana campagna elettorale di pensare e di agire politicamente, ma le coordinate di questo impegno non si sono mai connesse, se non casualmente, alla campagna elettorale. Non che non colga la portata del voto di domenica 25 settembre, ma sono i contenuti evocati dai partiti che mi fanno sentire tanto lontano. Eppure quel che accade dovrebbe interrogare tutti sulla deriva che ci ha portati sull'orlo del baratro.

Un intreccio di crisi ambientale, climatica, sanitaria, bellica, alimentare, demografica, migratoria, economico-finanziaria, sociale, ancorché culturale e morale che forse non ha precedenti, viene affrontato senza un approccio orientato alla complessità, rincorrendo come emergenze il multiforme manifestarsi della nostra insostenibilità.

Richiederebbe di interrogarsi sui paradigmi della modernità, ma si risponde con le categorie concettuali di un tempo finito. Come se il nostro corpo fosse nel presente e la nostra mente nel secolo scorso scrisse Ulrich Beck in uno dei suoi ultimi lavori.

Basterebbe prendere in considerazione quel che accade con il rovesciamento del tradizionale disallineamento fra tempi storici e tempi biologici o, per dirla con parole più semplici, con l'impatto della crisi climatica sugli ecosistemi terrestri. Nelle nostre brevi vite assistiamo cioè a processi che prima avvenivano nel corso di ere geologiche: la fine dei ghiacciai, l'aumento della temperatura dei mari, la perdita delle biodiversità, l'insorgere di feroci patologie, il susseguirsi di eventi estremi, l'abbandono/sottrazione delle terre e l'inedita formazione di megalopoli … sono l'esito di un tempo chiamato Antropocene, un'età nella quale siamo stati capaci di mettere in discussione la sopravvivenza del genere umano sulla Terra madre che ci ha generati.

L'averne coscienza dovrebbe portarci a considerare l'entropia, quel secondo principio della termodinamica che ci ha fatto comprendere il carattere limitato delle risorse disponibili. E a prendere atto che siamo andati oltre il limite. Eccola la parola chiave, il cambio di paradigma più urgente, se così si può dire. Ma di questa parola nella campagna elettorale non c'è stata traccia.

Sarebbe un motivo sufficiente per suffragare l'estraneità e disertare le urne. Ma non lo farò. Perché so distinguere il peggio dal meno peggio. E perché so che le sconfitte non portano di per sé a comprenderne le ragioni.

Occorre ripensare la politica, ma prima ancora è necessario riconsiderare il pensiero che ci ha portati sin qui. Quelle magnifiche sorti e progressive che Giacomo Leopardi aveva dipinto nelle sue rive, quel progresso che Walter Benjamin aveva descritto come la tempesta nell'atto di travolgere l'Angelo della storia. Cent'anni dopo non lo abbiamo ancora compreso. Ed ora rischiamo di essere fuori tempo massimo.

 

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