"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Prendiamoci il tempo. Ora.
di Mauro Magatti *
Ricapitoliamo: Putin pensava che l’annessione del Donbass potesse avvenire a seguito di una veloce azione militare (l’«operazione speciale»), che poi un governo filorusso imposto a Kiev avrebbe ratificato, come era già successo con la Crimea. Piano fallito. L’Ucraina ha reagito e ha resistito anche grazie al sostegno dei Paesi occidentali.
Così, col passare dei mesi, l’esercito di Kiev ha avviato un’importante controffensiva, tanto da spingere Zelensky a porre la riconquista della Crimea come condizione per la fine della guerra. A quel punto, Putin ha annunciato una mobilitazione più larga, che ha suscitato obiezioni e reazioni interne, ma ha portato la Russia a fermare l’avanzata ucraina e a riconquistare qualche lembo di terra. E siamo così alla decisione della Nato di inviare alcune decine di carri armati più potenti per sostenere una nuova controffensiva ucraina. Nel contempo, la Russia si prepara a una nuova azione primaverile, forse coinvolgendo la Bielorussia.
A un anno di distanza dall’inizio delle ostilità, una cosa è chiara: la Russia non può perdere, perché la sua disfatta comporterebbe non solo la caduta del regime di Putin ma un trauma identitario i cui esiti sono ignoti. Da una sconfitta militare potrebbe forse nascere un governo più democratico e filoccidentale, ma anche un regime ancora più autoritario e violento. D’altro canto, anche l’Occidente non può perdere. Se dopo aver aiutato l’Ucraina, la Russia dovesse riuscire a sfondare grazie alla superiorità numerica, il disastro sarebbe totale. Il messaggio che si voleva trasmettere a tutti gli autocrati del mondo si tramuterebbe nel suo contrario. Il conflitto, dunque, si avvita su sé stesso. Secondo molti osservatori si va verso una guerra di logoramento di lungo periodo.
Scenario già visto in altre aree del mondo (come la Corea), che alla fine costringerà le parti a trovare un accordo. Lo scenario alternativo è quella dell’escalation. Sia il rischio di sconfitta da parte della Russia, sia l’invio di truppe Nato per evitare la disfatta dell’Ucraina comporterebbero un salto di scala. Il mondo sta ballando sul Titanic e nessuno sembra avere la chiave della via d’uscita. Si dice: non si può dialogare con Putin. Primo: perché è un criminale che deve pagare per le atrocità che ha commesso. Secondo: perché lui non vuole dialogare, ma solo raggiungere i propri obiettivi.
Queste due affermazioni sono vere, ma da qui non si può dedurre la decisione di rinunciare al dialogo. Se è vero infatti che per dialogare bisogna essere in due, è altrettanto vero che quando c’è una controversia il dialogo comincia non perché esiste già l’accordo (che è ciò che manca) ma perché una delle due parti – spesso con l’aiuto di un soggetto terzo – lavora per passare dal dialogo dialettico (cioè dal conflitto) a quello che Raimon Panikkar chiama «dialogo dialogico».
Il dialogo dialogico non è una camomilla per anime belle. È, invece, un processo arduo, faticoso, incerto che può avanzare solo perché sostenuto da una grande forza morale, una forza d’animo che permette di superare difficoltà insormontabili. Il dialogo dialogico letteralmente è capace di andare al di là di ciò che c’è, lavorando per ridurre passo dopo passo la distanza tra le parti.
Questo processo di avvicinamento, insegna ancora Panikkar, può avvenire solo identificando un punto terzo che non corrisponde né alla posizione di partenza dell’una o dell’altra parte, né al punto medio, a ciò che sta a metà strada. Questo punto terzo è un oltre, qualche cosa che si comincia a immaginare e che avvia un processo aperto che permette ai contendenti di uscire dal gioco perverso in cui si trovano incastrati. In linguaggio politico è l’arte della diplomazia. Che è necessario perseguire se si vuole che il dialogo dialettico (cioè la guerra) non termini solo con la eliminazione di una delle due parti. O con un disastro mondiale.
Oltre a comportare la virtù della fortezza, il dialogo dialogico presuppone il superamento dello schema puro-impuro. Come scriveva Jean Guitton, ciò è possibile quando ci liberiamo dallo schema dualista che contrappone, separandoli, l’amico e nemico, il bene e il male; cioè appunto, il puro e l’impuro. Non perché non ci siano differenze o perché non ci debba essere un giudizio su ciò che accade. Ma perché la realtà è sempre più complessa, contraddittoria, articolata. E perché è proprio nelle pieghe di questa concretezza che si deve cercare e trovare la via che permetta di non schiantarsi nel conflitto totale. Se l’Occidente vuole essere leader del mondo deve saper esercitare questa saggezza.
Riaffermare i princìpi internazionali, condannare l’aggressione, sostenere l’aggredito e nello stesso tempo lavorare attivamente, incessantemente, concretamente per trovare una soluzione che non si fermi allo scontro tra le parti. Tutti desideriamo la pace. C’è la pace imposta dall’aggressore che distrugge l’aggredito. C’è la pace dell’aggredito che distrugge l’aggressore. E c’è la pace che, riconoscendo i torti e le ragioni, la giustizia e l’ingiustizia, lavora alla tela delicata ma fondamentale del dialogo dialogico, costruendo così le premesse di una futura convivenza pacificata. Non si perda tempo. L’invio di nuovi (pochi) carri armati sia l’occasione per prendere ancora un po’ di tempo per fermare quel conflitto che Putin ha innescato e in cui si trova egli stesso intrappolato al pari di Zelensky, ma nel quale rischiamo tutti di finire annientati.
* dal quotidiano Avvenire
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