"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (128)
«I miti sono la normazione dell'irragionevole»
James Hillman
Le parole che il presidente ucraino Volodymyr Zelens'kyj ha rivolto al popolo del Festival di Sanremo, lette integralmente da Amadeus con il pathos delle dichiarazioni importanti, mi risuonano dentro da giorni come un grido di guerra.
“L'Ucraina sicuramente vincerà” vi si dice. La parola “vittoria” riecheggia insistentemente nel breve messaggio, un messaggio intriso di eroi e di coraggio, di “mondo libero” e di invincibilità, senza nemmeno farsi sfiorare dal dubbio di quel che è e di quel che sarà, dall'enorme sproporzione fra quel che si vuole ottenere con la guerra e la distruzione, il dolore, la morte che sta generando. Compreso il rischio, tutt'altro che remoto, di una catastrofe nucleare che incombe sul mondo intero.
Come nascondere che il mito della vittoria accompagna da sempre chi vuole la guerra. Aggrediti o aggressori che siano. Gli inni nazionali ne sono pieni, così come il richiamo all'onore e alla patria che i soldati cantavano andando alla morte. Sono stati il veleno del XX secolo, quello dell'esplosione dei nazionalismi, il cui ingrediente era la demonizzazione dell'avversario, il perverso nemico contro il quale approvarsi senza remore fino a testimoniare la propria verità con il sangue. Ma di tutto questo, a quanto pare, non ne abbiamo fatto tesoro.
Avremmo dovuto comprendere da tempo che nella guerra non ci sono vincitori. Se non i profittatori di guerra, quelli che si arricchiscono, in divisa o in abiti civili. O quelli che le armi le producono sul piano industriale. Ma di indagare la guerra nelle sue molteplici (e talvolta inconfessabili) sfaccettature, comprese le nuove guerre dove finisce il monopolio statuale della violenza, oppure di educazione alla pace e alla nonviolenza, neanche parlarne.
Chi sarebbero i vincitori? Quelle centinaia di migliaia di persone che hanno perso la vita e che i propri eserciti negano perché nella retorica della vittoria è meglio nascondere il numero delle “proprie” vittime? Quelli che in una terra avvelenata dagli idrocarburi, dall'uranio impoverito e dall'amianto1 non ci potranno più abitare se non ignari dei tumori correlati? Le generazioni a venire che si troveranno un ambiente devastato talvolta irrimediabilmente? Ho negli occhi il dopoguerra bosniaco con i corsi d'acqua tramutati in discariche. Forse le avrete viste le recenti immagini della Drina poco più a monte di Visegrad... O, ancora, quelli che ora vivono nelle baracche fatiscenti di campi profughi destinati a durare negli anni? O forse i reduci, nei dopoguerra segnati dalla violenza in famiglia, dal suicidio o dall'alcolismo, dal silenzio e dalla follia?
Chi si occupa seriamente della guerra (compreso di quel "tragico amore per la guerra" di cui parla James Hillman2) sa del fatto che in assenza di elaborazione collettiva le guerre non sono mai finite, conosce le lacerazioni nel corpo e nell'animo di chi ne è stato coinvolto, dei traumi e delle paure che si trascineranno nelle loro esistenze, di quanto sia faticosa la strada della riconciliazione.
E allora permettetemi qualche domanda scomoda. Di fronte a tutto questo dolore e distruzione, non sarebbe stata forse più intelligente e lungimirante la resistenza passiva e nonviolenta? La forza morale e politica di dire agli aggressori: “non ci avrete mai”... Non è stata forse questa la vera risposta di Praga nel 1968 e, a ben guardare, di Sarajevo nei 1425 giorni dell'assedio? L'umanità intera non solo avrebbe perso lo splendore di queste città ma annichilito culturalmente le comunità cosmopolite che le hanno rese uniche al mondo (e a Sarajevo ci si è andati vicini). E poi ancora, che senso ha difendere un paese per farlo diventare un cumulo di macerie infettate? Che gruppo dirigente è quello che non si pone queste domande in nome di un malinteso senso della patria?
A queste domande dovrebbe corrispondere quel cambio di paradigma che un'interminabile transizione sembra ritardare in maniera insopportabile e che un tempo nuovo richiede invece con urgenza. Proprio a cominciare dall'approccio e dall'idea che abbiamo della guerra, ancora considerata come la prosecuzione della politica con altri mezzi, quando invece ne è la negazione. O dalle forme con le quali abbiamo sin qui immaginato le istituzioni del diritto internazionale tanto in crisi quanto violate, dalle modalità di organizzazione delle nostre società, laddove la dimensione statuale appare sempre più inadeguata ad affrontare le sfide di un contesto sovranazionale. E, più in generale, dal rapporto fra genere umano e natura e quella concezione prometeica che ci ha pretesi signori della Terra, dal prendere atto della fine della società dell'abbondanza e dall'urgenza di ridare centralità al concetto di limite.
Di certo la crisi ucraina, nella sua drammaticità, rappresenta un acceleratore delle grandi contraddizioni che dilaniano il pianeta. Come in ogni crisi, ne possono venire una catastrofe dalle dimensioni planetarie come – è stato così anche per la seconda guerra mondiale – un nuovo inizio delle relazioni globali. La cui urgenza – del resto – è datata ben prima dell'invasione russa dell'Ucraina ed ascrivibile a quella che Francesco Bergoglio individua come risposta alla terza guerra mondiale cui già stiamo assistendo in termini di esclusione e scarto.
E' l'urgenza di un pensiero e di una politica capaci di un nuovo racconto.
1 Fino al 2020 l'amianto è stato prodotto, commercializzato e utilizzato liberamente in Ucraina nella costruzione e nella manutenzione di edifici pubblici e privati nonché negli stabilimenti industriali. Questi manufatti sottoposti da mesi ai bombardamenti vedono il polverizzarsi di eternit ed altri materiali contenenti amianto, le cui fibre produrranno decine di migliaia di morti nei prossimi decenni.
2James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2005
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