"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Antonella Tarpino
dal blog https://volerelaluna.it/
Il libro Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli (due esperti di tematiche alpine, sui fronti estremi Piemonte e Trentino) è stato per me una occasione, non retorica, di ripensare al rapporto in generale tra montagna e industrializzazione nelle diverse forme in cui si è dato per molti di noi. Mi ha colpito, in particolare, fin dalle prime pagine del libro (uscito da pochissimo per Derive e Approdi) la confessione di sapore autobiografico di Dematteis, torinese, direttore della rivista “Dislivelli”, quando ricorda: “C’è un momento preciso in cui si capisce che qualcosa sta cambiando. Sei nato e cresciuto pensando che sarebbe sempre stato così, anno dopo anno, stagione dopo stagione. Poi un giorno ti svegli e d’improvviso gli impianti di risalita sono fermi”.
Quel mondo legato all’industria del turismo dello sci è il protagonista di un libro davvero corale, che non ha retto alle prime avvisaglie del cambiamento climatico con le stagioni accorciate e i costi in fibrillazione ora in profonda metamorfosi nella stagione dell’Antropocene. E’ una “Montagna disincantata” quella evocata anche da Vanda Bonardo, esponente storica di Legambiente Piemonte: espressione della fine di un fordismo alpino, dall’Introduzione del sociologo Aldo Bonomi, dove il territorio inteso come paesaggio, come costruzione sociale e culturale è stato assoggettato alla logica del consumo di massa portando sulle Alpi un’inaudita quanto mai rapida e irresistibile crescita della ricchezza diffusa. Così da segnare in profondità l’antropologia contadina di montanari reclutati come operai negli impianti di risalita in inverno e operai edili in estate o trasformati in piccoli commercianti, artigiani, albergatori, intermediari dei servizi immobiliari ecc. E dove il turismo facendosi «flusso» si è scomposto in tanti turismi tra loro in concorrenza nell’attrarre l’interesse di consumatori altrettanto diversificati che han visto nell’esperienza del loisir un modo per affermare la propria identità, la propria personalità, un certo status, uno stile di vita ecc.
Così lontana la montagna degli impianti di risalita fermi e il Casino di Saint Vincent chiuso dalla “Montagna abbandonata al suo incanto” in cui mi sono imbattuta io quando ho alzato lo sguardo dalle macerie del fordismo nella città della Fiat e ho incrociato i tanti paesaggi fragili delle valli povere cuneesi che hanno scontato punte d’abbandono intorno all’80% dei loro abitanti scesi a lavorare – all’epoca del boom – nelle fabbriche e nei tanti capannoni (simboli di un fordismo di pianura che sembrava inarrestabile) e che ora però sono in gran parte inerti.
Un doppio inganno si sta consumando – si potrebbe dire – ai danni della montagna nel suo complesso che tuttavia nella prospettiva di una consapevole battaglia per la sopravvivenza sta riscoprendo forzatamente quel senso del limite, per riprendere Michele Nardelli, che ha governato per secoli le terre alte divenute progressivamente fragili, spopolate, in rovina, capaci però di esprimere – se si fa opera di ascolto – un “racconto ancora in piedi”, direbbe Marc Augé, di insegnarci il lavoro della convivenza, nel tempo lungo della storia, di intere comunità con l’ambiente duro, ma anche ricco di straordinarie risorse, del paesaggio montano.
Da quel senso antico del limite violato dall’inciviltà dell’Antropocene occorre ripartire, come sembrano indicare molti dei casi riuniti in questo racconto polifonico in cui si denuncia l’urgenza di una riconversione radicale: da Pragelato e la sua resilienza negativa, alla Val d’Aosta investita da una crisi mai così radicale, con la caduta della Valgrisange da una parte e l’insostenibilità del rilancio di Cime Bianche, Cervinia, per cui si pensa a un impianto avveniristico con la vicina Zermat in Svizzera, o il modello superski, nelle Alpi di Nord est delle Dolomiti, e la trappola delle Olimpiadi Milano Cortina o, all’opposto, gli esperimenti virtuosi presenti nel libro. Per citare solo alcuni casi. E senza dimenticare l’Appennino meridiano, “terra dell’osso”, sfidata non di meno da un’industria divenuta in poco tempo distruttiva e obsoleta.
E’ un denso reportage quello di Inverno liquido in cui operatori e testimoni del mondo dello sci, e non solo, raccontano quei territori montani da vicino, riportano la propria esperienza, interpretano fallimenti e prospettano possibili riconversioni. Perché ne va del futuro delle prossime generazioni. Con l’intento – suggerisce la Bonardo in conclusione – di costruire forti sinergie (e non usi strumentali da parte del turismo urbano) con le metropoli in un percorso condiviso che valorizzi qualità e benessere attraverso la ricostruzione di nuovi equilibri. Mettendo al centro la materialità del rapporto con la Natura così da concorrere alla definizione di un nuovo paradigma culturale dove la montagna diventi protagonista della conservazione di una vicinanza con la natura, oggi a rischio.
La montagna va immaginata allora come territorio della produzione di innesti culturali, d’innovazioni sociali, di saperi e pratiche tecnorurali e di welfare, interagendo con l’ambiente.
Un modello culturale allora dove i sistemi naturali devono essere intesi come beni comuni frutto di una quotidiana interazione tra comunità locali che pongano al centro il tema della responsabilità collettiva della loro tutela. Perché senza un sostrato comunitario attivo capace di interpretare i vistosi cambiamenti in atto, qualsiasi evoluzione progettata in termini puramente tecnico-funzionali richiamerà i capitali finanziari ma non produrrà quel capitale sociale necessario a fare della montagna alpina e appenninica i luoghi di una nuova primavera dopo il lungo inverno liquido.
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