"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Oltre il limite. A proposito della ristrutturazione del rifugio Santner

Rifugio Santner

Quando i luoghi dell’anima, dove gli individui entrano in contatto con la propria natura biologica e spirituale, saranno ridotti a merci qualcuno si arricchirà ma tutti saremo più poveri *

di Diego Cason

Esposti a un’insidia, a un pericolo mortale, a una persecuzione, cerchiamo un riparo. Un refugium, dal latino refugere, che non significa riparare ma rifuggire, da cui rifugiato. Il rifugio che conosciamo meglio è quello alpino. Dove ci si rifugia, appunto, per sfuggire alle minacce della montagna. Deriva dagli antichi “xenodochi”, ospizi gratuiti per forestieri e pellegrini. In tutti i monti del mondo c’è qualche tipo di rifugio. Alcuni nacquero sfruttando pareti aggettanti, grotte, antri erosi dai venti. In Svizzera li chiamano capanne: anche in tedesco Hütte si riferisce a una casupola (Hundenhütte è la cuccia del cane), se vogliamo indicare un rifugio bisogna utilizzare il termine Berghütte (capanna di montagna). I rifugi erano, di norma, luoghi semplici che fornivano un giaciglio e cibo d’emergenza.

Con la diffusione dell’alpinismo e la nascita del turismo moderno nell’Ottocento i rifugi si trasformarono in alberghetti. Oggi, con il turismo alpino di massa, sono pressati da una domanda di servizi un tempo sconosciuta. I primi rifugi moderni servivano come punti d’appoggio per raggiungere obiettivi strettamente alpinistici e, di frequente, furono edificati in luoghi posti già in alta quota per agevolare l’arrampicata verso una o più cime. Spesso furono costruiti su valichi e passi sfruttando edifici precedentemente dedicati ad altro scopo, come ricoveri per i pastori o per carbonai che trascorrevano periodi piuttosto lunghi in alta montagna. Oggi questo tipo di funzione è svolta da bivacchi prefabbricati portati direttamente in elicottero sul posto. I rifugi invece hanno seguito un’evoluzione che li ha in gran parte trasformati in alberghi, più o meno grandi, quasi sempre dotati di un servizio di ristorazione, di bagni e camere individuali al posto delle grandi camerate e dei bagni collettivi.

Nella realtà odierna rimangono pochi rifugi tradizionali, di solito in luoghi lontani da obiettivi turistici molto frequentati, che mantengono le proprie caratteristiche essenziali, diventate nel frattempo romantiche. Tranne che per i loro gestori, che faticano molto e guadagnano poco. Un ulteriore elemento che ha modificato la funzione dei rifugi alpini è stata la diffusione dello sci nei primi decenni del Novecento. Dove sono nate piste per lo sci alpino e i relativi impianti di risalita, si sono rese necessarie strutture in quota per ospitare e rifocillare gli sciatori. Tali strutture si sono caratterizzate immediatamente per una qualità degli edifici migliore dei precedenti, poiché dovevano essere riscaldati e dunque costruiti con criteri adatti a non disperdere il calore. La crescita della domanda di ospitalità in quota ha fatto il resto.

La richiesta di strutture ricettive in quota è cresciuta così tanto che in Veneto è in discussione una proposta di legge regionale che rende possibile realizzare strutture turistiche in ambienti naturali chiamate “stanze panoramiche”. Si tratta di “stanze di vetro e legno o altro materiale, anche innovativo, ecosostenibile o comunque di basso impatto, collocate stabilmente sul suolo, caratterizzate da un elevato rapporto tra superficie finestrata e quella del pavimento”. Questo sopra la quota di 1.600 metri: “per favorire la diffusione territoriale delle strutture ricettive in ambiente naturale, si prevede la loro realizzabilità, al pari delle malghe, rifugi e bivacchi alpini, anche sopra il limite posto dalla normativa urbanistica regionale di 1.600 metri, comunque ponendo un limite di un numero massimo complessivo di due strutture nell’ambito dello stesso territorio comunale”.

Tutto ciò equivarrebbe a “mettere a valore” la montagna. Come se i territori montani non avessero un valore proprio, senza bisogno dell’intervento umano che li trasformi in merci fonte di profitti. Secondo questa logica, costruire alberghi in alta quota è del tutto comprensibile. I territori posti a quote più basse sono stati completamente trasformati e resi artificiali dall’attività agricola e edificatoria degli uomini. Così, gli ultimi lembi che possono essere ancora “messi a valore” sono i territori montani e quelli ricoperti di boschi, territori che si sono salvati dall’avidità umana solo perché fino ad ora era difficile raggiungerli per poterli sfruttare in modo profittevole. Del resto non è certo un caso se i parchi nazionali italiani sono quasi tutti ubicati in territori montani già marginalizzati nei processi di sviluppo locale, se si escludono il parco del Circeo – peraltro ripetutamente e abusivamente edificato in spregio a tutte le norme di protezione –, le isole dell’arcipelago toscano e il Gargano.

I luoghi a evoluzione parzialmente naturale, che conservano ancora una ricchezza biologica diversificata e protetta, sono rimasti pochi. Se anche questi territori, rimasti fuori dallo sfruttamento intensivo dell’ultimo secolo, vengono intesi come merci da “mettere a valore” si trasformano automaticamente in oggetti di pregio come ogni bene sparso sui mercati internazionali. Lo ha ampiamente dimostrato anche il periodo post-Covid, nel quale i viaggi internazionali sono stati in parte interdetti e molti turisti si sono rivolti alle risorse territoriali raggiungibili in loco, invadendo le località turistiche di montagna. Di fronte a questa crescita della domanda di servizi turistici anche una parte dei gestori di rifugi alpini sembra aver perso di vista qual è la loro funzione originaria, e quale dovrebbe continuare ad essere all’interno di territori fragili e pericolosi. Ma l’incremento dei ricavi e dei profitti sembra attirare molto di più di ogni impegno etico per mantenere territori di grande pregio naturale così come sono e lasciarli in eredità ai posteri.

In questo contesto si inserisce la vicenda della ristrutturazione del rifugio Santner sul Catinaccio posto sul passo omonimo, a 2.734 metri, nel parco naturale Sciliar-Catinaccio. Costruito nel 1956 dalla guida alpina Giulio Gabrielli di Predazzo, ora il rifugio, riaperto nel 2019 dopo sei anni di inattività, è gestito da Michel Perathoner e Romina Huber. In origine disponeva di 12 posti letto, è stato ristrutturato portando il numero dei letti a 36 trasformando l’edificio a un piano in una piramide rivestita di lamiera di tre piani. La Giunta provinciale di Bolzano ha venduto 900 m2 di terreno demaniale alla Stefan Perathoner e Judith Aichner Snc, formata da genitori di Michel, per un prezzo complessivo di 27.470 euro (30,50 euro al m2 quando la media provinciale del valore dei terreni edificabili è tra i 400 e i 1.000 euro al m2; cfr. Agenzia delle Entrate). La costruzione della nuova struttura ha elevato la cubatura da 319 m3 a oltre otto volte tanto, 2.708 m3, il che appare difficilmente spiegabile con l’intenzione “di avere un ripostiglio più grande”. La polemica si è subito scatenata. Da un lato il Cai Alto Adige e l’Alpenverein Sudtirol criticano la scelta fatta. Per il presidente del Cai altoatesino, Carlo Zanella, “ormai non ci sono più confini all’ingordigia umana”. La commissione Tutela ambiente montano del Cai Alto Adige ha scritto: «A passo Santner, al posto della gloriosa piccola capanna eretta per dare ricovero ad alpinisti e soccorritori, il nuovo rifugio, una tenda di cristallo triangolare, struttura avulsa dall’ambiente circostante, con una stazione di arrivo della teleferica che fa pensare di più a quella di una funivia con cabina per trasporto persone che a quella per il semplice rifornimento del rifugio”. Nel mentre i gestori del rifugio contestano le accuse, considerando la ristrutturazione un normale adeguamento alle nuove necessità, salvo poi definire la nuova struttura come la “baita che si trova direttamente sotto la Cima del Catinaccio».

Il progetto, approvato dal Comune di Tires, dall’Ufficio Parchi della provincia e dalla Fondazione Dolomiti Unesco, ha fatto sì che un rifugio un tempo quasi invisibile ora si veda a chilometri di distanza. La polemica ha prodotto manifestazioni meno eleganti di quelle poc’anzi riportate. E non a caso, dal momento che siamo di fronte a un conflitto, mai sopito e sempre pronto a riaccendersi, tra residenti in montagna e alpinisti escursionisti e turisti che la frequentano. I primi, non senza ragioni, ritengono un loro diritto esclusivo utilizzare le risorse disponibili, secondo propri criteri che, nel caso delle province autonome, si manifestano in forme giuridicamente vincolanti. I secondi, o almeno la gran parte di loro, con qualche ragione, pensano che le montagne debbano dare loro l’opportunità di approccio privo di opere umane invasive. Salvo poi, non di rado, trovare molto comodo il trasporto in quota e l’agio di un albergo a portata di mano. Tale conflitto, fra la necessità di produrre benessere per i residenti e offrire un ambiente in cui garantire emozioni ed esperienze di qualità agli ospiti che le desiderano (purtroppo una minoranza), è inquinato da entrambe le parti da elementi che con queste due ragionevoli aspirazioni hanno ben poco a che fare.

Anche a proposito della visione che alpinisti e turisti hanno della montagna potremmo discutere a lungo. La visione dei monti in due secoli è mutata molte volte. Dalla montagna sacra, a luogo del cimento virile, a riserva dell’ultima wilderness. Nessuna di queste concezioni è vicina alla realtà quanto era vicina ai desideri di chi l’immaginava. Da ognuna di queste proiezioni i montanari hanno cercato di trarre vantaggio: prima vendendo santini, poi diventando guide per “prodi esploratori”, infine portando i turisti a vedere gli escrementi dell’orso nei boschi. Molti dei turisti e degli escursionisti si aspettano una montagna pittoresca, con i rifugi in legno e il caminetto acceso, un cane san Bernardo all’ingresso, il brivido del rischio: il tutto senza doversi mai esporre al minimo imprevisto, desiderando la vita selvaggia ma ritrovandosi poi quasi sempre in quei dieci o venti luoghi che la televisione ha propinato loro. Quando vedono un bivacco diverso da quelli in lamiera dipinta di rosso storcono il naso.

Il problema che si pone in modo evidente nella vicenda della ristrutturazione del rifugio Santner è un problema di misura, di superamento di un limite dettato dalla ragionevolezza. Non è dunque una questione di miglioramento strutturale, energetico ed estetico dei rifugi alpini, spesso necessario e auspicabile. Occorrerebbe piuttosto trovare una giusta misura: a che fine edificare strutture sopra i 1.600 metri con una capienza più da albergo che da rifugio alpino?

È possibile trovare un equilibrio in questo caleidoscopio di desideri e di aspettative? È possibile mantenere elevato il benessere delle popolazioni montane laddove già è alto e migliorarlo dove non è adeguato senza vendere la montagna al migliore offerente? Le vicende del rifugio Santner sembrano dimostrare che la giusta misura e l’equilibrio sono smarriti da tempo. Una cosa è certa: quando i luoghi dell’anima, dove gli individui entrano in contatto con la propria natura biologica e spirituale, saranno ridotti a merci qualcuno si arricchirà ma tutti noi saremo più poveri.

* articolo pubblicato dalla rivista Il Mulino

 

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