"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
(23 gigno 2023) E' una generazione che ha avuto il destino nelle proprie mani quella che un po' per volta se ne va. Ed ogni volta è un pezzo della nostra storia, della mia storia, che inesorabilmente finisce nel precario archivio personale e della quale si avrà – nello scorrere del tempo – una ancor più precaria memoria collettiva. Non solo perché si è vissuto fin troppo al presente e nel turbinio di cambiamenti che non sedimentavano il passato, ma anche perché la cultura del limite non ci è appartenuta, così da aver concepito le nostre esistenze dando tutto, come se le stagioni non scorressero anche per noi. Un delirio, generoso nel suo svolgersi ma – lo si deve riconoscere – anche irresponsabile, perché se non ne rimane traccia quella storia non riusciremo a portarla in dono. Per farne tesoro e, se non altro, per evitare che si ripetano gli stessi errori.
Ho conosciuto Guido Pollice negli anni '70, in quel decennio che forse più di ogni altro, nonostante le tracce di piombo che ne hanno sporcato il suo epilogo, ha cambiato in profondità la vita delle persone e il mondo intorno a loro. Non furono solo le grandi riforme (esito, vorrei dire, più della radicalità che dei riformismi) di cui abbiamo beneficiato e delle quali, malgrado tutto quel che è accaduto in seguito, ancora beneficiamo. In quel contesto il cambiamento fu travolgente, entrando più o meno consapevolmente in ogni segmento del nostro quotidiano e della società.
C'era l'astrattezza dell'assalto al cielo ma anche la concretezza dei conflitti sociali: le famiglie non furono più le stesse, i rapporti fra le persone conobbero una rivoluzione che non aveva precedenti. E' difficile persino immaginare come si viveva nelle case dove la violenza era taciuta, dove mancavano i servizi più elementari, dove la radio era un privilegio. Mi vengono in mente le straordinarie immagini della Milano di Enzo Jannacci raccontate in un testo come “Ti te se no” (https://youtu.be/eS2gvssnspI), quella Milano che negli anni Sessanta accolse anche quel giovane di belle speranze che veniva dal Mezzogiorno e che per tutta la vita lo accompagnò nell'impegno politico e istituzionale.
Poi il vento cambiò direzione e tutto divenne più difficile, occorreva un passo diverso per capitalizzare la spallata precedente. E un pensiero capace di immaginare scenari nuovi rispetto all'eterogenesi dei fini che il comunismo aveva portato con sé. Ancora una volta decidemmo che si poteva fare.
Guido Pollice divenne parte di quel sincretismo politico e culturale che negli anni del riflusso delle lotte sociali aveva reso possibile la nascita di Democrazia Proletaria. Lui insieme a Vittorio Foa, Silvano Miniati, Pino Ferraris, Giovanni Russo Spena e tanti altri portarono nella nuova formazione politica l'esperienza ed il pensiero della tradizione socialista più radicale che negli anni '60 aveva avuto come punto di riferimento il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP). Con il cattolicesimo di sinistra e le istanze del terzomondismo e della nonviolenza, con quella parte dell'operaismo che si era raccolto attorno ad Avanguardia Operaia e alle esperienze consiliari di base, prese corpo un percorso politico che forse per la prima volta cercava di unire le eresie politiche, raccogliendo le eredità più feconde del movimento anticapitalistico.
Il concludersi di un ciclo straordinario di lotte, lo stragismo neofascista e di Stato, il clima di restaurazione nei luoghi di lavoro e nella società, le derive del violentismo... era questo il contesto nel quale provammo a tener viva l'idea di un'alternativa a quello che non credevamo certo fosse “il migliore dei mondi possibili” ma anche un ambito di impegno e di riflessione collettiva che rappresentò un punto di riferimento per una comunità di migliaia di persone.
Di questa comunità Guido Pollice era un infaticabile animatore. Quando nell'ormai lontano novembre 1978 decidemmo che tutto questo avrebbe dovuto essere rappresentato anche nelle istituzioni della nostra autonomia, Guido fu della partita con una generosità che nessuno di noi dimenticherà. Ricordo i suoi comizi nelle piazze, spesso vuote, dei nostri paesini di montagna, impeccabile nel suo completo grigio e cravatta, così difforme rispetto al nostro cliché. Recuperammo uno per uno quei 5412 voti (quasi il 2%) che ci permisero di entrare in Consiglio Provinciale e di contribuire a rendere possibile quell'anomalia politica che caratterizzò – pur fra mille contraddizioni – questa nostra terra nei decenni successivi. Che ricambiammo, sempre pronti nel metterci a disposizione per altre campagne elettorali o referendarie, una sorta di mutuo aiuto che univa nobili idee e bassa (ma non per questo meno nobile) manovalanza. Come non dimenticherò mai quello stanzino in Via Vetere a Milano dove insieme a Guido, Alfredo e Franca controllavamo la correttezza dei moduli con le firme per i referendum sull'estensione dello Statuto dei lavoratori alle piccole imprese e per il ripristino dei punti di contingenza nelle liquidazioni, prima della loro presentazione formale. Con Guido la giovialità era di casa e così un lavoro altrimenti noioso divenne un gioco di creatività. Fu la prova generale di quello che qualche anno più tardi, dopo Chernobyl, fermò la costruzione delle centrali nucleari in questo paese. Nelle nostre mani, appunto.
Con Guido Pollice si era creata un'intesa che andava oltre le nostre stesse posizioni politiche in genere non propriamente allineate, se consideriamo che proprio all'inizio degli anni '80 maturò in Trentino l'idea di un patto federativo con la dimensione nazionale che poi divenne prassi consolidata anche per le realtà del Friuli, del Sud Tirolo e della Sardegna. Eretici nell'eresia, potremmo dire, ma in un rapporto di stima e affetto. Tant'è vero che Guido fu una delle persone che più di altre insistette per il mio coinvolgimento nella segreteria nazionale. E andò così, quand'anche nei cinque anni di mia presenza a Roma non furono poi molte le opportunità fra noi di convivialità.
In questo devo riconoscere a Guido la leggerezza dei ruoli, mai una forma di pressione pur trovandomi a svolgere una responsabilità che prima era stata sua. Egli portava in sé l'arte della leggerezza e l'ironia di chi sa prendere la vita per il verso giusto. Anche nei passaggi più delicati di un corpo sociale e politico piccolo ma complesso qual'era DP, non perdeva mai il valore delle relazioni. Ciò nonostante, quando si andò verso l'epilogo, Guido verso i Verdi Arcobaleno e noi verso una nuova esperienza politica locale come Solidarietà, le nostre strade si separarono in una diaspora per certi versi dolorosa. Si interruppero canali di dialogo, ciascuno si radicalizzò sulle proprie posizioni, la DP sincretica si sfarinò.
Nessuna nostalgia. Era l'89, un passaggio di tempo in cui finiva il Novecento. Che non fosse indolore era nelle cose. Lo interpretammo diversamente e, credo, degnamente, ciascuno per le strade che gli apparivano più congeniali e fertili, verso le quali – personalmente – non ho rimpianti.
Solo una cosa. Mi porto dentro il rammarico di non aver coltivato – negli anni in cui quell'esperienza volse al termine e un po' anche nei decenni successivi – quella stessa lievità che Guido avrebbe meritato. Un telefono che avrebbe potuto squillare, parole rimaste inespresse, momenti di affetto che avremmo potuto regalarci. E forse anche dell'altro, ma la vita è così. Di questo, caro Guido, ti chiedo scusa.
Nella comunione di aver cercato di essere in ogni momento curiosi e presenti al nostro tempo. (m.n.)
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