"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Un mandala, per uscire dalla logica della guerra.

Bansky e il muro

di Diego Cason

Nella storia umana la pace è transitoria, una fortunata contingenza, prodotta e protetta da una solida barriera di iniquità, figlie del predominio. Lo sapeva già Esiodo 2800 anni fa:

O Perse, ascolta tu la Giustizia, né mai favorire

la Prepotenza: ch’è male pel debole; e il forte, ancor esso

non la sostien leggera, ma sotto il suo peso s’aggrava,

quand’ei nella Follia della colpa s’imbatte. Assai meglio

vale seguir l’altra via, che guida a Giustizia: Giustizia

sempre alla fine trionfa, lo stolido impara a sue spese.

La pace è un’aspirazione utopica che, come il fuoco, deve essere quotidianamente alimentata. Se la fiamma dell’utopia langue o si estingue l’armonia è perduta e con essa la pace. Anche Pindaro tre secoli dopo, a proposito di Atene, scrive:

Quivi abita, insieme con Ordine e Giustizia sua suora, per cui

in pie’ le città restan salde, e Pace, datrice di beni,

figlie auree di Tètide dal savio consiglio.

Tracotanza, ch’è madre superba

dell’Odio, sanno esse respinger lontano.

Pindaro associa, come è necessario, per avere un’armonia duratura, le tre figlie di Tètide. La loro madre ebbe anche un figlio maschio, Achille, simbolo della prepotenza, condannato alla perenne guerra alla quale si adattò, credendosi immortale, perché ambiva la gloria. Il conflitto e il violento massacro dei fratelli stanno scritti nella natura ferina dell'uomo. Per ottenere la pace è necessario rifiutare il destino e desiderare qualcosa di meglio da condividere con gli altri.

La pace, come oggetto definitivo da raggiungere, non esiste. Ha qualche probabilità di realizzarsi sulla terra solo se un gran numero di uomini la desiderano e operano quotidianamente per ottenerla. Per questo motivo anche nelle rare occasioni in cui la si ottiene rapidamente la si perde. Chi subisce per lungo tempo la violenza devastatrice e omicida di uomini tracotanti comprende a sue spese che essa produce solo orrori, sofferenze, devastazioni e lutti inconsolabili. Un mare di inutile dolore. Perciò solo dopo un olocausto bellico gli uomini comprendono il valore della pace e ricominciano a desiderarla e, desiderandola, la rendono possibile. Appena il ricordo diretto del mortale orrore della guerra svanisce si crede facilmente che la pace ottenuta sia definitiva. Si ricomincia a pensare ai fatti propri e si smette di desiderarla. In questo la si perde. Precipitando nuovamente nell’oscurità degli omicidi del sangue e della vendetta.

In questi giorni, prossimi all’oscurità, nei quali le guerre rilegate alle periferie del mondo si avvicinano alla nostra pace domestica, temiamo di perdere il privilegio di condurre le nostre vite al sicuro dallo sterminio. Magari dissipandole colpevolmente, inseguendo i vizi e trascurando le necessarie virtù.

L'iniqua aggressione russa all’Ucraina, dopo quella della Cecenia (e del Daghestan), l’intervento in Abkhazia e in Ossezia e poi in Georgia, l’annessione violenta della Crimea, del Donbass, seguite dall’intervento in Siria e in Libia. Dopo l’aggressione irachena al Kuwait, gli USA guidarono una forza internazionale per ricacciarlo entro i suoi confini e successivamente aggredirono l’Iraq, fino alla cattura e all’impiccagione di Saddam Hussein (loro alleato contro l'Iran), come vendetta per gli attentati alle torri gemelle di New York, preparati in Arabia Saudita e organizzati in Pakistan. Nel frattempo, si dissolse la Jugoslavia innescando una serie di guerre fratricide nei Balcani durante le quali la NATO bombardò la bianca città di Belgrado dopo che la Serbia aveva devastato la dolce Sarajevo bombardandola dall’alto delle sue colline. Sempre la NATO esorbitò dai suoi compiti e aggredì la Libia uccidendo Mu’ammar Gheddafi e successivamente, con il sostegno delle monarchie del Golfo Persico, intervenne in Siria. Poco dopo l’Arabia Saudita aggredì lo Yemen, una guerra tutt’ora in corso. Solo per ricordare i più importanti inneschi dell’incendio che oggi divampa in Israele-Palestina. Dove, peraltro, solerti incendiari locali sono all'opera da quarant'anni per accumulare combustibili e comburenti in proprio e per conto terzi.

E tutti noi, sapendo che molti soffiano sulle braci della violenza e sempre meno alimentano l’utopia della pace, a fare la fila ai supermercati, a prenotare le vacanze, magari in Terrasanta, a discutere sul nulla. A far finta che tutto va bene. Una presunzione cieca e ottusa che ha aperto le porte alla tracotanza di chi si crede immortale e di chi non ha più nulla da perdere dopo che tutto gli è stato tolto.

Stiamo stupefatti, increduli, e ancora una volta asserviti all’idea che sia, in ogni caso, una responsabilità di qualcun altro, un affare che non ci riguarda. Ancora convinti che in questo caos violento qualcuno sia dalla parte del bene assoluto e dall’altra ci sia il malvagio assoluto. Con la mortale illusione che basti un altro sterminio per risolvere il problema. Ancora una volta affidandoci ai pregiudizi, esprimendo opinioni senza sapere nulla, enfatizzando le bugie che ci danno ragione e respingendo i fatti che ci danno torto.

Il fatto più grave non è questo insieme di miserabili espedienti ma il loro risultato finale. Non siamo più capaci di comprendere le differenti responsabilità, di definirne la gerarchia né di comprendere quale sia la posta in giuoco. Inoltre, non abbiamo la minima idea di quale sia il nostro interesse di persone libere entro democrazie imperfette finché volete, ma sempre migliori di teocrazie assassine, di stati tribali dediti al crimine, di regimi d’occupazione straniera, di stati etnici basati su appartenenze razziali o religiose, di oclocrazie corrotte, di tirannie equatoriali o tecnocratiche finanziarie. Ora distinguere i torti e le ragioni nel conflitto israelo-palestinese è impresa difficilissima anche per chi lo conosce molto bene. E, anche se li conoscessimo nel dettaglio infinitesimale, non sarebbe che di scarsa utilità.

Per risolvere i conflitti serve conoscere ma è molto più utile partire dall’accettazione delle ragioni degli altri, dalla garanzia della tutela della vita di tutti gli umani implicati, dalla punizione dei responsabili dei crimini (senza dimenticare che la guerra è un crimine legalizzato), dalla distinzione tra aggredito e aggressore nelle diverse vicende del conflitto. Cercando poi una soluzione che non potrà mai risarcire nessuno per il dolore e i danni subiti ma potrà solo ridurre il dolore e i danni che una guerra senza fine continuerà a produrre.

Non ho idea su come uscire da questa oscurità, posso solo suggerire di smetterla di fare confusione poiché essa è il brodo nel quale si cucinano le guerre. Quindi, per favore: ebreo, sionista, israeliano, israelita, giudaico, samaritano, semita, rabbino, haredim, levita, fariseo, non sono sinonimi. Come non lo sono, islamico, maomettano, islamista, islamita, ismailita, mussulmano, arabo, palestinese, saraceno, jihadista, mujaheddin, fondamentalista, hizbollah, ayatollh, muft e imãm. Lo chiedo perché se non sapremo chiamare la realtà delle cose con il loro esatto nome essa ci entrerà nelle case e nel cuore con la potenza violenta della morte. Perciò, l’azione di Hamas del 7 settembre è un pogrom messo in atto per uccidere chiunque “sembrasse” un ebreo, non è stata affatto un’azione di resistenza contro un’occupante. Ma la volontà inevitabile di colpire gli assassini autori del pogrom non giustifica in alcun modo l’uccisione di innocenti o di chiunque “sembri” un membro di Hamas. Detto questo, non avendo soluzioni da proporre vorrei raccontarvi due storie vere.

Mishpacha

Eliezer Isaac Perlman Elianov nacque a Luzki (Bielorussia) nel 1858, da una famiglia di ebrei chassidici, si trasferì a Gerusalemme nel 1890 dove assunse il nome ebraico di Eliezer Ben Yehuda. Fu il fondatore della nuova lingua ebraica della quale scrisse il primo dizionario in 17 volumi. Adottò nella nuova lingua ebraica lemmi dall'arabo, invece che dall’yiddish come alcuni proponevano. Così molte parole ebraiche hanno radici arabe, com’era naturale, poiché appartengono entrambe alle lingue semitiche che si diffusero in una vasta area che va dall’accadico babilonese all’amarico etiope. Egli riteneva che Ebrei e Arabi fossero mishpacha, una famiglia, e che avrebbero dovuto condividere la terra e vivere insieme. Ai tempi di Ben Yeuda la maggior parte degli ebrei stava in Europa, non avevano alcun desiderio di una patria, di una nazione o uno stato proprio. Anche oggi il 52% degli ebrei vive fuori di Israele. Nel 1939 in Europa essi erano 9,9 milioni, oggi sono 1,5 milioni diminuendo dell’89%.

In Unione Sovietica erano 2,5 milioni oggi sono 183 mila (-93%). In Polonia erano 3 milioni ora sono 3.200 (-89%). In Romania da 980 mila a 9.300 (-99%). In Germania da 565 mila a 118 mila (-79%). In Italia da 48 mila a 27 mila (-44%). Non a caso gli stermini degli ebrei si chiamavano pogrom, parola russa che significa devastazione. In età contemporanea uno dei più tristemente famosi avvenne a Odessa dove nel 1941 furono assassinati 31 mila ebrei. Ma si verificarono dappertutto, dall’Inghilterra al Marocco, dalla Spagna all’Unione Sovietica. Nel corso degli ultimi due secoli il posto più pericoloso per gli ebrei è stata l’Europa. L’antisemitismo c’era anche in medio-oriente quando gli ebrei erano una piccola minoranza di circa 20 mila persone.

Gli ebrei in Europa sono stati perseguitati, espulsi, esiliati, uccisi e derubati di tutti i loro beni. Non c'era lo stato di Israele, non c'erano Netanyahu né i coloni ebraici che invadevano i territori altrui, non esisteva la jihad islamica e nemmeno Hamas. Le comunità ebraiche erano numerose, pacifiche, disarmate ed inermi. Un bersaglio perfetto per l’odio omicida. I frutti dei nazionalismi novecenteschi sono stati gli stermini etnici, alla ricerca di unità nazionali apparenti e due guerre mondiali devastanti. Un continente costruito con ondate immigratorie e il meticciato imperiale (di cui s’è persa memoria) ha dato vita a nazioni che hanno cercato la purezza razziale, sulla base di differenze linguistiche o religiose presunte o irrilevanti, ma sufficienti per massacrare i propri vicini di casa a bastonate. Meglio se erano ebrei, così non c’era né vergogna né rimorso a bastonare dei “cani impuri”. Per questo il movimento sionista propose una nazione ebraica e ebbe successo e per lo stesso motivo considerare i sionisti di allora come i coloni predatori attuali è completamente sbagliato Gli uomini dimenticano e preferiscono seppellire nell'oblio ciò che sono. Preferiscono immaginarsi civili, evoluti, amorevoli, in questo modo la loro vanità può seppellire la materia oscura dalla quale provengono. Gli uomini mentono, il loro DNA no. Se vi fate un test genetico lo scoprite subito: il 90% dei presunti italiani geneticamente non lo sono. Scrivere “prima gli italiani” significa rivolgersi ad un’esigua minoranza di abitanti d’Italia. Solo in Europa ci sono 17 milioni di varianti genetiche che riguardano in complesso lo 0,1% del genoma umano.

Il genere umano è una mishpacha, perciò tutti gli omicidi avvengono tra fratelli e sorelle. Basta che uno abbia i capelli rossi per essere considerato altro da sé e diventare un comodo bersaglio. Perché per uccidere è utile declassare la vittima a uno stato subumano, untermensch, cane, scimmia, zecca, verme e, meglio ancora, a una cosa o un numero. Hamas non ha inventato nulla di nuovo. È il solito corredo di atrocità umane nelle quali l’uccisione insensata e la predazione appaiono ricompense adatte per praticare l’omicidio impunito. Questi comportamenti sono umani, non sono bestiali, incivili o folli. Stanno nella nostra natura e cultura di prede, quando assumiamo un potere sufficiente per divenire predatori. I pogrom si fanno contro inermi indifesi, presi a caso, solo perché stanno nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma soprattutto perché non si corrono rischi. Accadono dove il potere è concentrato ed invasivo e celebra la violenza e la forza per degradare a oggetto ogni avversario. Hanno origine nel pregiudizio razziale che classifica gli umani tra “noi e loro”, che priva le persone dei diritti umani essenziali, che considera l’eliminazione fisica dell’altro una pratica normale o ancora meglio esaltante, eroica o salvifica.

In quest'opera di de-umanizzazione attraverso l’odio, i carnefici assomigliano sempre più alle vittime che scannano, e le possibili vittime spesso si attrezzano per trattare nello stesso modo chi le perseguita. Distinguere gli uni dagli altri diventa sempre più difficile, soprattutto laddove questa spirale di violenza dura da molto com'è il caso della Palestina e Israele. Tutto questo non cancella le responsabilità individuali, non elimina affatto le differenze di comportamento nel corso di un conflitto. Ognuno di questi crimini ha dei responsabili che dovrebbero essere individuati, processati e condannati alla pena prevista per i loro crimini. La guerra però elimina queste formalità e decide di colpire ed uccidere, a prescindere dalle colpe e dalle responsabilità. Così l'iniquità si perpetua e prepara nuovi pogrom per l'avvenire.

Pensa agli altri”

Mahmoud Darwish, è stato uno dei massimi poeti palestinesi; nacque a al-Birwa nel 1941, un paese di 13.500 abitanti, in Alta Galilea. È inutile che cerchiate questo villaggio sul terreno o sulle carte geografiche. Non c’è più. È stato distrutto durante la Nakba. Darwish redasse la dichiarazione di indipendenza della Palestina del 1988. In uno dei suoi poemi scrisse: «Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, / non dimenticare il cibo delle colombe. / Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, / non dimenticare coloro che chiedono la pace». L’eterogeneo insieme di popolazioni filistee, beduine, druse e arabe che popolano quello che oggi è Israele e i territori occupati dopo tre guerre post 1947, è di circa 2.065.000 persone. Dal 1911 sono cresciute del 2,7% mentre la popolazione in Israele è cresciuta di 75 volte (da 95 mila a 7,1 milioni). Fino al 1947 il ripopolamento arabo-ebraico della Palestina avvenne a ritmi assimilabili (+ 5,5% la popolazione ebraica, +1,4% quella araba), dopo il 1947 si divaricano le dinamiche demografiche: la popolazione israeliana è cresciuta del 10%, quella araba dello 0,6%.

La diaspora palestinese iniziò dopo la prima la prima guerra arabo israeliana del 1948-49. L’effetto immediato di quella sciagurata guerra furono 750 mila profughi (il 40% dei residenti arabi) che abbandonarono le loro case, sicuri di poterci tornare. Ancora oggi conservano le chiavi di case che sono state distrutte e demolite e ora occupate dai boschi israeliani. L’esodo proseguì dopo la guerra dei sei giorni nel 1967, quando Israele, sconfisse ancora una volta l’Egitto (del quale conquistò l’intero Sinai), la Giordania (che perse la West Bank e Gerusalemme est) e la Siria (che perse le alture del Golan). Da allora la situazione dei palestinesi in Israele non fece che peggiorare anche per il progressivo venir meno della loro rappresentanza politica. Il secondo motivo sta nell’avvio della politica dell’occupazione dei territori palestinesi con nuove colonie da parte di Israele, che non applicò mai gli accordi di pace di Oslo, né le sei risoluzioni dell’Onu, né quelle del Consiglio di sicurezza. Il risultato è che oggi ci sono più di cento insediamenti israeliani in Cisgiordania, per un totale di oltre 450 mila coloni, a cui si sommano altri 220 mila coloni residenti a Gerusalemme Est. Inoltre, più di 20 mila cittadini israeliani vivono in insediamenti sulle alture del Golan.

L’esistenza degli insediamenti israeliani ha avuto come conseguenza una radicale frammentazione dell’unità territoriale della Cisgiordania. Attualmente, gli insediamenti coprono quasi il 10% della Cisgiordania e, dal 1997, sono interdetti ai palestinesi. L’uso degli insediamenti come “politica del fatto compiuto” è divenuto evidente con la costruzione a partire dal giugno 2002 del muro della vergogna. La lunghezza di tale barriera è di 712 chilometri, più del doppio della lunghezza del confine tra i due territori. Tutto questo impone limitazioni alla libertà di movimento dei palestinesi residenti nella Cisgiordania occupata: posti di blocco, interruzione delle strade, ostacoli causati dal muro o barriera di sicurezza. In sintesi, Israele limita la libertà di movimento di 2.400.000 palestinesi in favore di 670.000 coloni la cui presenza è, ai sensi del diritto internazionale, illegale. Queste restrizioni arbitrarie pregiudicano gravemente la possibilità dei palestinesi di lavorare, avere accesso a cure mediche, studiare e visitare i familiari e costituiscono un fattore di radicalizzazione quotidiana del conflitto.

Oggi solo l’8% della Cisgiordania (area A) è controllata dai palestinesi, il 22% è controllata da Israele (area B) e il 70% è governata totalmente da Israele. In area B e C l’amministrazione israeliana nega ogni tipo di permesso a costruire ai palestinesi i quali hanno crescenti difficoltà a vivere in un perenne stato di esposizione ad arbitrarie limitazioni della loro libertà. La distribuzione degli insediamenti, che sono nuclei urbani che variano dai 12 mila ai 35 mila abitanti l’uno, ha per la politica israeliana degli ultimi 15 anni, la funzione di spezzare l’unità territoriale della Cisgiordania rendendo impossibile la definizione di uno stato palestinese.

Nel 2023 sono previste 13.082 nuove abitazioni di coloni in Cisgiordania, escludendo dal calcolo Gerusalemme est. La situazione è molto simile ad una apartheid di fatto. Infine, bisogna ricordare che 2,5 milioni di palestinesi vivono nei campi profughi in Giordania, 580 mila in quelli siriani, 480 mila in Libano e circa 1.9 milioni stanno o stavano rinchiusi a Gaza, sottoposti al regime corrotto di Hamas che usa le risorse per acquistare armi invece di migliorare la grama vita prigioniera dei palestinesi. Un terreno fertile sul quale crescono risentimento e odio contro Israele e contro gli ebrei, anche contro quelli che non si stancano di denunciare le politiche discriminatorie e illegali dei loro governi. Quelli che sarebbero felici di poter condividere i propri diritti con i palestinesi e vivere con loro, finalmente, in pace.

Ma, se desideriamo vivere in pace la pace dobbiamo desiderarla, immaginarla, reinventarla costruirla giorno dopo giorno, come un “mandala” tibetano, pur sapendo che uno stivale lo può distruggere in un attimo. E se questo accade il giorno stesso bisogna ricominciare a disegnarne e costruirne un altro. Se vogliono, gli umani possono essere realmente migliori di quel che sono.

 

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