"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Nel settembre scorso si è svolto un nuovo capitolo del “Viaggio nella solitudine della politica” che aveva come titolo “Dal Meriggio alla Mezzanotte”. Un viaggio ispirato al pensiero di Albert Camus, al quale avevamo reso omaggio lo scorso anno proprio a conclusione del precedente itinerario.
Avrei voluto scriverne a caldo, ma fra una cosa e l'altra non è stato possibile. In compenso le immagini e le sensazioni si sono sedimentate, così come il senso di questo nostro viaggiare. Lo spazio e il tempo per aiutarci a comprendere come cambia il mondo e come cambiano i nostri occhi.
Per stare al mondo in maniera curiosa e responsabile.
§§§
di Michele Nardelli
«Quale miglior paragone
alla speciale intelligenza di questo popolo,
del tremolar della marina?
Badate: i Greci sono colonizzatori. Sempre stati.
Ma colonizzano le spiagge:
in Asia minore, in Italia, a Marsiglia.
Non s'inoltrano.
Sanno che a perder di vista il mare,
si perde il tremolar della marina:
si perde l'intelligenza”»
Alberto Savinio
“Dal meriggio alla mezzanotte”. Era questo il titolo dell'ultimo itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica” giunto così alla sua quattordicesima puntata1. Che ci ha portati ad attraversare il cuore prometeico dell'Europa, quegli imperi (tedesco e austroungarico) che costituirono l'ossatura del Terzo Reich e quelle terre che vennero segnate dal delirio di potenza che caratterizzò tragicamente il Novecento.
Partivamo dall'Andalusia, meta del nostro precedente itinerario, e dallo spirito mediterraneo che ben interpretava il suo attraversamento nel corso della storia, l'influsso culturale dei suoi mari e delle civiltà che si sono scontrate ma soprattutto incontrate, mettendo le basi del rinascimento europeo mentre imperversava l'oscurità del medio evo.
Non era solo il piacere di immergersi in un tratto di storia cruciale per l'Europa. Rappresentava soprattutto la necessità di tentare qualche risposta all'insorgere di quella ricorrente barbarie che si sarebbe oltremodo manifestata con le guerre in Ucraina e nel vicino Oriente, l'evocazione cioè di uno “scontro di civiltà” il cui fine corrisponde alla volontà di riaffermare la supremazia di un Occidente sempre più in crisi.
Il viaggio sulle tracce di quei settecento anni di storia riconducibili alla vicenda di Al Andalus, rimossi nella consapevolezza comune malgrado abbiano contribuito in maniera decisiva alla diffusione della conoscenza umanistica e scientifica in Europa, si era concluso non a caso al cimitero di Lourmarine, piccolo borgo della Provenza che dal 1960 ospita le spoglie di Albert Camus.
Fra i più grandi scrittori del Novecento, Camus è stato il padre del “pensiero meridiano”, al quale dedicò nel 1951 l'ultimo capitolo della sua più importante opera politica, “L'uomo in rivolta”, che segna il suo definitivo distacco dal comunismo sovietico e da quell'ideologia.
Non era agevole per un intellettuale di sinistra, nell'immediato dopoguerra, scrivere queste parole:
«Il giorno appunto che la rivoluzione cesarea ha trionfato dello spirito sindacalista e libertario, il pensiero rivoluzionario ha perduto, in se stesso, un contrappeso di cui non può, senza scadere, privarsi. Questo contrappeso, questo spirito che misura la vita, è il medesimo che anima la lunga tradizione di quello che si può chiamare pensiero solare, nel quale, dai Greci in poi, la natura è sempre stata equilibrata al divenire. La storia della prima Internazionale, in cui il socialismo tedesco lotta senza posa contro il pensiero libertario dei Francesi, degli Spagnoli, degli Italiani, è la storia delle lotte tra ideologia tedesca e spirito mediterraneo. Comune contro Stato, società concreta contro società assolutista, libertà riflessiva contro tirannia razionale, l'individualismo altruista infine contro la colonizzazione delle masse, sono allora le antinomie che traducono, una volta di più, il lungo affrontarsi di misura e dismisura, che anima la storia dell'Occidente, dall'antichità classica in poi. Forse il conflitto profondo di questo secolo si stabilisce non tanto tra le ideologie storicistiche tedesche e la politica cristiana, che sono in certo senso complici, quanto tra i sogni tedeschi e la tradizione mediterranea, le violenze dell'eterna adolescenza e la forza virile, la nostalgia, esasperata dalla conoscenza e dai libri, e il coraggio temprato e chiarito nella corsa della vita; la storia infine, e la natura. Ma in questo l'ideologia tedesca porta un retaggio. In essa si compiono venti secoli di vana lotta contro la natura in nome di un dio storico dapprima, e poi della storia divinizzata...» E conclude «L'Europa non è mai stata altrimenti che in questa lotta fra meriggio e mezzanotte»2.
Proprio da queste parole di Camus abbiamo ripreso il nostro navigare, attraverso le città e i territori che nel Novecento hanno fatto da cornice al pensiero duro e alla sua apocalisse. Le città, nel loro segnato splendore: Ratisbona, Praga, Cracovia, Budapest, Bratislava, Vienna, Salisburgo. I campi di sterminio di Flössenburg e di Auschwitz-Birkenau, nella loro addomesticata cupezza. E poi luoghi simbolici come Szentendre, l'affascinante cittadina mediterranea del Danubio; Przemysl, teatro con le sue spaventose fortezze di un fronte di guerra fra oriente e occidente che ha attraversato tutto il Novecento fino ai giorni nostri; Melk, con l'abbazia benedettina che la sovrasta, uno dei siti monastici più grandi e famosi al mondo, ma anche sede di uno dei sotto-campi del sistema concentrazionario e di sterminio di Mauthausen.
Molti di questi luoghi oggi mantengono solo tracce di ciò che ha riservato loro il secolo scorso, un passato che però, in assenza di elaborazione, semplicemente incombe. Può essere rimosso, ma questo non aiuta certo a farne tesoro affinché non possa riaffacciarsi come presente. E non ci devono ingannare la quiete e l'ordine (e nemmeno i fiori sui balconi delle case) perché è proprio nell'aulica normalità che si annidano l'egoismo e il rancore, i tratti cioè di ogni primatismo.
Il nodo cruciale dell'elaborazione del passato ricorre ad ogni nostro passo, come tratto ineludibile della lettura dell'oggi e come condizione necessaria per ogni visione del futuro.
I simboli del Terzo Reich
Il nostro primo approdo è Ratisbona (Regensburg), Castra Regina per i Romani che la fondarono, antica capitale della Baviera, la città di Bonifacio di Magonza considerato il patrono della nazione tedesca, ma soprattutto la città che fu sede – fino alla conquista napoleonica – del Sacro Romano Impero. Riconosciuto dagli storici come il Primo Reich, cui seguiranno il Secondo (il Deutsches Reich degli Hohenzollern, quello dell'unificazione tedesca e dell'espansionismo germanico) e il Terzo Reich hitleriano, nei cui simboli ritroveremo i simboli dell'Impero Romano insieme alla mitologia della purezza ariana, rappresentata dal fiume Reno e dalla canzone patriottica Die Wacht am Rhein (La guardia sul Reno)3, contrapposta al Danubio come incontro di diversità, meticciato, con-fusione.
Non è una disputa da nulla, perché investe l'idea stessa di Europa, quella stessa Europa lacerata da due guerre mondiali (Deutschland über alles, era il motto primatista), senza dimenticare il colonialismo delle potenze europee che rivendicavano il loro dominio sul mondo. E proseguita nell'infrastrutturazione culturale della guerra degli anni '90 nei Balcani. E, in una qualche misura, anche di quel che di tragico accade oggi in Ucraina e nel Vicino Oriente. L'idea dello “Stato-nazione” ovvero di una cittadinanza che respinge chi in quella nazione non si riconosce. Negando così lo stato di diritto.
Un cancro della modernità, che continua a riversare i suoi veleni nel nostro presente. Non è affatto un caso che la Costituzione dell'Unione Europea sia naufragata negli anni '90 proprio sulla questione delle presunte radici cristiano-giudaiche dell'Europa. E che l'Europa politica fatichi ad entrare nell'immaginario comune come un esempio di superamento dei nazionalismi.
Anche per questo avremmo voluto che Ratisbona rappresentasse il nostro primo approccio danubiano, quel fiume della Mitteleuropa tedesca-magiara-slava-romanza-ebraica e tanto altro ancora, «polemicamente contrapposta al Reich germanico» come scrive Claudio Magris4. Che incontreremo ripetutamente nel corso di questo viaggio, a testimoniare quella sorta di «compresenza dei secoli» che portavano Jozsef Attila5 ad immaginare il Danubio insieme come «passato, presente ed avvenire».
Le vicissitudini ci costringeranno a fermarci a Ratisbona solo per una breve sosta tecnica per poi riprendere il viaggio verso l'approdo serale, la città di Praga. Non riusciamo nemmeno a visitare Flössenburg, il campo dove morì impiccato all'alba del 9 aprile 1945 su espresso ordine di Hitler a 39 anni il teologo luterano Dietrich Bonhöffer, uno dei grandi protagonisti della resistenza tedesca al nazismo, della cui scelta “confessante” don Milani scrive: «Se non fosse stato per la Chiesa confessante noi cristiani non avremmo più il diritto di guardare in faccia un ebreo». Le stime sono incerte, ma si valuta che a Flössenburg abbiano perso la vita oltre trentamila persone. Fra questi Eugenio Pertini, fratello di Sandro (futuro presidente della Repubblica Italiana), fucilato il 25 aprile 1945.
Praga, quei giorni che cambiarono il corso della storia
Manco da questa bella città da quel dicembre del 1989 quando la rivoluzione di velluto portò Vaclav Havel, poeta, scrittore, drammaturgo, nonché oppositore politico al regime comunista, dal carcere alla presidenza dell'Assemblea Federale della Cecoslovacchia. Sarà l'ultimo presidente di quel paese6. Ho ancora vive le immagini di quei giorni, il sorriso nel volto delle persone che acclamavano Havel sotto le finestre del Forum Civico, la frenesia dei manifestanti malgrado le luci fioche nella notte a Piazza San Venceslao che si mescolava all'incredulità per quanto stava accadendo e alla paura di un nuovo colpo di coda del regime.
Ho portato con me qualche foto di allora e provo a riconoscere i luoghi di quelle ore che cambiarono il corso della storia. Faccio un po' di fatica a ritrovarli, perché è trascorso tanto tempo e perché mi sembra tutto diverso. Del grigiore dei palazzi anneriti non rimane che qualche traccia sui pochi edifici non ancora ristrutturati; niente invece dell'odore acre di carbone che ancora mi sembra di avvertire e che ti rimaneva addosso per giorni e giorni. Scomparse le persone dal fare sospetto (a metà tra l'agente della polizia segreta e il malfattore), appostate agli angoli delle strade o confuse nei crocevia e che proponevano ai turisti il cambio nero, pronti all'ultimo momento della trattativa con qualche espediente improvvisato a cambiare il plico di banconote nuove con quelle fuori corso. Niente più camerieri che, in presenza di sale da pranzo interamente vuote, ti dicevano che tutto era prenotato fin quando non capivi che l'unica maniera per mangiare qualcosa era quella di tirar fuori qualche banconota, al che con grande disinvoltura ti facevano accomodare.
Erano passati poco più di vent'anni dall'occupazione sovietica che aveva stroncato la primavera, che pure vedeva come protagonista la figura di Alexander Dubcek, il presidente che – come Mikhail Gorbaciov qualche anno più tardi – aveva cercato di riformare dall'interno il regime. Anche di quella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968 ho un ricordo piuttosto nitido. Con mio fratello Carlo ascoltavamo l'edizione di mezzanotte in lingua italiana di Radio Praga, prima che le truppe sovietiche e del Patto di Varsavia soffocassero anche quella voce. Furono ore e giorni terribili che lasciarono il segno. In Occidente, malgrado il '68, non ci fu la vasta mobilitazione che sarebbe stata necessaria. Perché larga parte della sinistra aveva ancora legata ad un cordone ombelicale e perché anche il “68” – come scrive Guido Crainz – «stelle polari di quei movimenti continuarono ad essere la “libertaria” Cuba e il Vietnam del Nord, e si dimenticò presto che entrambi i paesi avevano plaudito ai carri armati del Patto di Varsavia»7. Sia la leadership della primavera che la popolazione di Praga scelsero la resistenza nonviolenta. Vista con il senno di poi, fu la scelta più saggia. Una guerra civile dagli esiti praticamente scontati avrebbe portato solo morte e distruzione. E chissà di questa meravigliosa città cosa sarebbe rimasto.
Di quella scelta nonviolenta furono protagonisti alcuni giovani che decisero – pur non conoscendosi fra loro – di sacrificare la propria vita per testimoniare la barbarie dell'occupazione militare. Fra questi la figura di Jan Palach, studente ventenne che si diede fuoco il 16 gennaio 1969 in piazza San Venceslao. Le prime parole che rivolse ai soccorritori furono «Non sono un suicida», per sottolineare che la sua era una forma di protesta estrema contro l'occupazione sovietica, non certo un gesto motivato da un disagio personale. Parole che pure aveva lasciato scritte in una lettera che i soccorritori raccolsero. Morì per le ustioni riportate tre giorni dopo. Tempo nel quale ebbe la possibilità di parlare con il personale che lo aveva in cura e rilasciare una breve intervista alla psicologa: «Non dovremmo essere presuntuosi. Non dobbiamo avere un'opinione troppo grande di noi. L'uomo deve lottare contro quei mali che può affrontare con le sue forze»8. Meno di dieci anni dopo nascerà Charta 77 che prese il nome dal documento redatto da Vaclav Havel, Jan Patocka, Zdenek Mlynar, Jiri Hajeke, Pavel Kohout. Fu l'inizio di un movimento di dissenso che ebbe come epilogo nel 1989 la rivoluzione di velluto.
Andiamo a rendere omaggio a Jan Palach in piazza San Venceslao. Nel luogo dove il giovane praghese si diede fuoco, è deposta una croce di ferro battuto che quasi sfugge a chi passa di lì, essenziale e priva di ogni retorica. Leggiamo le parole lasciate da Palach nella speranza che tutto questo non cada nell'oblio.
Forse sono i miei occhi diversi, ma della Praga che ho conosciuto, così cupa ma anche così viva nel cercare di aprire una nuova stagione, non vedo traccia. E' molto bella Praga, pulita, allegra … e omologata. E se qualcuno mi chiedesse qualcosa della letteratura contemporanea di questo paese non saprei rispondere. Mi sorge una domanda: perché sappiamo dare il meglio di noi nelle condizioni più tragiche? Penso alla Milano degli anni '50 cantata da Enzo Jannacci, o al Veneto dello spaesamento raccontato da Bettin, Meneghello o Zanzotto: un accostamento non facile, forse azzardato, ma è quel che mi viene e che mi accompagnerà nel corso di tutto questo viaggio.
Auschwitz, la colpa del silenzio
Quasi cinquecento chilometri separano Praga dalla città polacca di Oswiecim, nei cui pressi sorge Auschwitz – Birkenau, quel che rimane del più grande sistema concentrazionario che la storia moderna abbia conosciuto. Centinaia di letture, decine di conferenze e seminari sul male assoluto e la sua banalità... eppure il materializzarsi dei luoghi in cui si consumò una delle peggiori tragedie di cui l'uomo sia stato capace, non può lasciare indifferenti.
Il risorgere del fascismo in ogni angolo del pianeta ci racconta che, evidentemente, di Auschwitz non se ne è parlato abbastanza o non in maniera sufficientemente approfondita. Il Novecento non è nei programmi scolastici delle scuole medie superiori e gli anticorpi del totalitarismo sono lasciati alla buona volontà di qualche educatore, questa è la realtà.
Se l'uomo di cui parla Primo Levi non viene indagato, se non sappiamo affrontare la zona grigia che ci portiamo dentro9, se non ci si interroga sul delirio fabbricato che le parole “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) rappresentavano e ancora testimoniano all'ingresso del campo, la storia è destinata a ripetersi.
Non si possono derubricare Auschwitz e Birkenau alla stregua di un tragico errore. Se milioni di persone sono state strappate alla loro vita per il solo motivo di esistere, se si sono immaginati campi di lavoro e di morte, se questo è accaduto nella civile Europa e nella sua parte più moderna e dotta, coinvolgendo nel sistema di sterminio paesi come Austria, Italia, Ungheria, Croazia, Romania e altri ancora, per non parlare della Spagna di Francisco Franco o del Portogallo di Antonio Salazar, regimi quest'ultimi che ci hanno accompagnati fino alla metà degli anni '70 del secolo scorso, se le leggi razziali e i rastrellamenti sono avvenuti in buona parte d'Europa laddove al governo c'erano regimi accondiscendenti, se nei paesi dell'Est europeo che furono comunisti risorgono i fascismi, se in quelli dell'Occidente non si è riflettuto sul proprio stesso passato (e talvolta presente) coloniale dove si trattavano le popolazioni indigene come “non uomini” ... tutto questo significherà pur qualcosa. Andiamole a vedere le toponomastiche delle nostre città, farcite di personaggi che si sono macchiati di crimini contro l'umanità indicati come eroi nazionali10.
La rimozione della colpa politica e morale di cui parla Karl Jaspers11 investe larga parte di ogni narrazione. Ed anche ognuno di noi, che pure non c'eravamo. C'erano invece i nostri cari, che magari non hanno alzato un dito affinché questo crimine non avvenisse, quando non hanno addirittura acconsentito o partecipato. E non ne hanno parlato con noi, i loro figli perché in fondo era più semplice tacere. Di quella colpa noi ci portiamo qualche responsabilità? Le colpe dei padri possono effettivamente ricadere sui propri figli? Domanda che mi assilla mentre entriamo nei luoghi che sono stati testimoni di tanto dolore. Troppo facile auto assolversi. Perché forse le nostre stesse vite possono estraniarsi da quel che avvenne lungo il secolo scorso? Possiamo prescindere da quelle piazze piene di persone che osannavano il duce, che volevano la guerra, che pensavano al colonialismo come al nostro posto al sole, che andavano a combattere e a uccidere in Galizia o nei Balcani, in Nordafrica o altrove? O, ancora, quando la nostra terra era stata annessa – dopo l'8 settembre – al territorio del Terzo Reich, come la mettiamo con la polizia trentina12 che i simboli del nazismo li avevano cuciti sulle divise? Erano costretti a farlo? C'è chi ha avuto il coraggio di dire no, di disertare o di battersi contro pagando in prima persona. Mi piacerebbe sapere quanti hanno avvertito almeno il bisogno di parlarne. E poi, cosa sarebbe accaduto se quelle guerre le avessimo vinte?
Non voglio generalizzare, penso a come nella mia famiglia di certo non se ne sia mai parlato. Quel silenzio ci ricade addosso, me lo sento addosso mentre osservo le scarpe, le valige, gli oggetti di quell'ultimo viaggio. Ne parleremo il giorno successivo a Cracovia, in un locale del quartiere ebraico.
Cracovia, il cuore profondo di un paese indomito
Percepisco ora che sono qui il rammarico per un viaggio che ho disertato negli anni '80 quando avrei potuto essere proprio in questa città. A quel tempo facevo parte della segreteria nazionale di DP e in quell'ambito su invito di Solidarnosc ricevemmo la proposta di partecipare ad un meeting quando il sindacato di Lech Walesa era ancora in una fase di semi clandestinità. Avrei dovuto parteciparvi insieme ad Alberto Tridente e Giancarlo Saccoman.
Per chi come noi considerava l'Unione Sovietica una forma di capitalismo di Stato, quanto stava avvenendo in Polonia fin dalla rivolta dei cantieri navali di Danzica per iniziativa dei Consigli operai rappresentava una grande speranza di rivoluzione dal basso contro gli apparati del potere. Era stato così anche per la rivolta ungherese del 1956, la democrazia dei consigli dei lavoratori, poi soffocata nel sangue. Ma in Polonia il braccio di ferro vedeva l'irrompere di fattori diversi, non ultimo il ruolo della Chiesa cattolica e di Karol Wojtyla, divenuto Papa Giovanni Paolo II alla fine degli anni '70. Un ampio dissenso sociale che poteva contare su un movimento intellettuale di particolare rilievo, da Adam Michnik a Jacek Kuron, figure di cui oggi si è persa la memoria ma che ebbero un peso importante nel dare pluralità politica ad una vasta opposizione. Si tende oggi a schiacciare l'esperienza di Solidarnosc sulla Chiesa polacca, ma non era affatto così. Tanto che le gerarchie religiose guardavano con sospetto quelle forme di opposizione che nascevano fuori dal loro controllo, «indipendenti e autonome»13, schierandosi almeno all'inizio contro gli scioperi promossi da Solidarnosc e dal KOR, il Comitato di difesa degli operai del quale Jacek Kuron era fra i fondatori.
Un movimento incomprimibile che nell'arco di una decina di anni portò alle prime elezioni libere (1989), alla fine del regime del generale Wojciech Jaruzelski14. Quella transizione fu possibile grazie ad una sorta di compromesso politico con l'opposizione che, proprio a Cracovia, aveva la sua roccaforte religiosa ancor prima che politica.
A pensarci bene, che questo paese schiacciato fra grandi potenze imperiali sia riuscito malgrado tutto (un tutto particolarmente tragico) a risollevarsi e a svolgere un ruolo di prim'ordine nel passaggio cruciale della storia moderna, è un elemento che andrebbe innanzitutto riconosciuto e poi studiato con maggior profondità proprio per la sua complessità.
Che invece fa fatica ad emergere, qui come nella superficialità di un Occidente che guarda dall'alto in basso il resto del mondo. Richiederebbe di tornarci in Polonia, magari dandosi il tempo disteso per incontrare alcuni dei protagonisti di quella transizione. Fra l'altro, l'esito delle recenti elezioni politiche ci rivela l'esistenza di anticorpi democratici e partecipativi tutt'altro che banali, tanto da invertire la deriva antieuropea.
Il tempo per una breve passeggiata nella grande Rynek Gówny, il cuore medievale di Cracovia, banalizzata da una globalizzazione senza qualità, e nella May Rynek, la piccola piazza del mercato, e ci spostiamo verso il quartiere ebraico della città dove ci attende un locale denominato Herve, una vecchia sinagoga trasformata in birreria ma anche luogo di incontro giovanile, dove decidiamo di fermarci a pranzare.
E' qui che i pensieri del giorno precedente prenderanno voce in un'interessante discussione fra noi attorno ad Auschwitz e al complesso tema della memoria, della colpa e della responsabilità. Argomento delicato, quasi sempre rimosso. A scuola, i programmi si interrompevano proprio lì, come se il Novecento fosse una bruciatura sulla pelle di un'intera comunità. Del resto le piazze del fascismo erano piene e non per forza. Nel dopoguerra la falsa coscienza faceva il resto. Qualche racconto sugli espedienti per avere una licenza dal servizio militare o per essere congedati. Ma – come dicevo – sulla guerra come sulla shoah, il silenzio. Forse è anche per questo che le ore passate ad Auschwitz – Birkenau mi interrogano in profondità, quasi che quel silenzio avesse a che fare con una responsabilità che non conosce confini, neanche generazionali.
Il fascismo del resto non era finito nel 1945. Oltre alla falsa coscienza rimanevano il tessuto sociale, gli interessi corporativi, le strutture economiche, le proprietà di chi nel ventennio si era arricchito. Senza parlare delle persone compromesse con il regime, le più esposte delle quali si rifugiarono – grazie ad ampi canali di protezione – in Spagna, in America Latina e in alcune regioni italiane come la Calabria, accanto a diffusi gruppi di nostalgici che si riposizionarono con grande disinvoltura nel sistema politico del nostro paese.
Sarebbe stata necessaria una grande catarsi collettiva, ma si preferì giustiziare il colpevole affinché l'atto simbolico azzerasse ogni altra colpa politica e morale. Lasciando che la retorica delle cerimonie facesse il resto, celebrazioni molto spesso all'insegna della propaganda e senza scavare in profondità, lasciando dietro di sé il vuoto. In assenza di elaborazione del conflitto non c'è riconciliazione e così ecco riapparire i fantasmi, pressoché ovunque.
Riprendiamo il nostro cammino. L'assemblea dei viaggiatori decide di rinunciare alla meta più ad oriente dell'itinerario previsto, le fortezze di Przemysl che segnano il confine fra la Polonia e l'Ucraina, di cui ci ha raccontato Paolo Rumiz nel suo “Come i cavalli che dormono in piedi”15. Ci tenevamo molto a quel tratto di viaggio ma dobbiamo arrenderci allo scorrere del tempo (ci saremmo arrivati in tarda serata e il giorno successivo non avremmo potuto fermarci più di tanto), alla fatica del trovarci a viaggiare con il mezzo non in piena efficienza, all'opportunità di dedicare un tempo più disteso alla prossima meta, Budapest.
Budapest, bella e senz'anima
Decidiamo dunque di virare verso sud-ovest, in direzione della cittadina danubiana di Szentendre, dove arriviamo che è già buio. Del grande fiume che ci scorre accanto avvertiamo solo il mesto fruscio. Una sensazione che troverà conferma col sole del mattino seguente, come se il villaggio degli artisti e quello spettacolare ecosistema fluviale si fossero incupiti.
L'Ungheria di Orban si presenta come un paese impaurito. Quando, esattamente vent'anni fa16, sbarcammo a Szentendre con la nave-battello “Györ” il clima era festoso, la musica della “Destrani Taraf” ad indicarci la strada di una nuova pagina dell'Europa. I segni della guerra che aveva sconvolto i Balcani occidentali negli anni precedenti erano ancora evidenti (Vukovar appariva spettrale come del resto l'albergo Dunav che ci ospitava), gli scheletri dei ponti abbattuti erano lì come giganti feriti nel fiume, i controlli dei passaporti di chi componeva quella “strana ciurma” erano estenuanti, eppure l'aria che si respirava era densa di aspettative. In quella circostanza conobbi Melita Richter che a Szentendre assomigliava proprio, ne parlava le lingue, ne incarnava lo spirito mediterraneo, ne esprimeva la koinè culturale. Ne parla così:
«Mi sono accostata alle sponde del fiume accorta e prudente, quasi con timore. Per quello che esso è stato nella storia del continente, e per quello che rappresenta oggi. Per la sua capacità di inghiottire le sorti e i corpi di uomini e di popoli, di carri, di cavalli, di cannoni, di ponti... Per la sua apparente pacatezza e la sua celata forza dirompente, per la sua abilità di lavare le menzogne e proporsi docile e muto come una sfinge. Per la sua bellezza, per la sua regalità … Nel suo scorrere secolare il fiume ha mescolato insieme i tormenti dei popoli che abitano le sue rive. Oggi, come allora, esso richiede l'impegno per un futuro più mite. E' per questo richiamo che ho raggiunto il gruppo di naviganti singolari a Szentendre e mi sono unita a loro, prometei di un'Europa pacificata, ritrovata, riamata, un'Europa possibile»17.
E se la linda cittadina di Szentendre oggi non ha più la stessa vivacità (e nemmeno i vaporetti che la collegano via fiume con la capitale ungherese, ormai rarefatti e che pure riusciamo a prendere), di quel paese oggi chiuso su se stesso Budapest è la capitale. Capiamoci, scrollarsi di dosso il peso della storia e il grigiore dei vecchi regimi non è così agevole. Non basta la cosmesi dei palazzi, ci vuole l'anima. E quella non la si può inventare, richiede il riconoscimento del passato e un progetto di futuro. Che forse c'era di più quando Budapest era la capitale minore rispetto a Vienna ma pur sempre la terza città dell'impero, che appariva lugubre nella subalternità al nazismo e che accolse Hitler a furor di popolo nella speranza di riannettersi quel che l'esito della prima guerra mondiale le aveva sottratto, oltremodo annichilita nel contesto delle cosiddette democrazie popolari (se escludiamo i giorni della rivolta del 1956), che è ben presto svanita dopo la caduta del muro di Berlino, in quel turbocapitalismo che tra l'altro ha trasformato la capitale ungherese nel regno europeo dell'industria del porno, che pure non tarda a manifestarsi nei centralissimi boulevard della movida turistica come nelle vicinanze degli hotel stellati.
A vedere questa città che mi appare oggi così anonima mi viene nostalgia delle Csarde, le tipiche locande popolari che animavano le periferie e le campagne ungheresi con la musica tzigana e i piatti della tradizione contadina. Anche in questo caso mi passano davanti vecchi ricordi di piatti fumanti di gulash che costavano pochi fiorini e di osterie che, a dispetto della cupezza del regime, mostravano comunque gioia di vivere. Mi chiedo se non siano invece i miei occhi ad avere questa particolare rifrazione.
Difficile in ogni caso associare Budapest a quella città che ebbe il coraggio di ribellarsi al potere sovietico, di abbattere la statua di Stalin e di uscire dal Patto di Varsavia. Fu l'ultimo atto del presidente Imre Nagy prima di rifugiarsi nell'ambasciata jugoslava, senza sapere che nel frattempo Krusciov era volato da Tito per negoziarne la cattura.
A proposito del 1956. Penso a quel particolare passaggio della storia quando, nei giorni della rivolta, l'Ungheria divenne il centro del mondo. Quei carri armati che nei primi giorni di novembre invasero l'Ungheria rappresentarono per una generazione di persone un trauma profondo. Era la plastica dimostrazione dell'eterogenesi dei fini. Il 4 novembre 1956, Radio Budapest lanciava un messaggio degli scrittori ungheresi agli intellettuali in ogni parte del mondo, chiamandoli per nome come combattenti dello spirito libero, chiedendo loro di agire per fermare l'invasione. Fra questi Albert Camus, che da subito si metterà alla testa di un vasto movimento internazionale fino alla tragica fine dei suoi giorni. Anni di impegno estenuante nei quali non smise mai di denunciare la tirannia staliniana, indicando nomi e cognomi dei mandanti dell'occupazione e i sofismi dei chierici che la sostenevano in Europa e nel mondo, a cominciare dal suo vecchio amico Jean Paul Sartre con il quale aveva da tempo rotto definitivamente. La figura di Camus rappresentava una spina nel fianco del potere sovietico e non solo. Può sembrare stravagante che una sola persona, di fronte all'immensa Unione Sovietica, potesse anche solo infastidire un paese tanto potente. Ma Camus, di cui già si parlava come possibile premio Nobel, pur nella solitudine di una elite «praticamente esclusa dall'azione politica»18, rappresentava un “resistente incondizionato” come lui stesso ebbe a definirsi. Pertanto da ridurre al silenzio. E così avvenne il 4 gennaio 1960.
Albert Camus morirà in un incidente stradale rientrando verso Parigi da Lourmarine le cui cause non sono mai state accertate. Il poeta praghese Jan Zabrana, vent'anni dopo, scriverà nel suo diario che l'auto sulla quale viaggiava Albert Camus venne manomessa dai servizi sovietici «in modo così perfetto che il mondo fino ad oggi ha creduto che Camus sia morto a causa di un banale incidente stradale»19. “Pravda vitezi”, scriveva Zabrana, la verità vincerà.
Siamo così tornati a dove siamo partiti, a quel piccolo cimitero della Provenza dove riposano le spoglie di uno dei pensieri più fervidi e scomodi del Novecento. Mi piace pensare che i nostri viaggi si tengano per mano20.
Rientriamo a Szentendre per riprendere il giorno successivo la rotta del nostro viaggiare, questa volta seguendo a ritroso l'andamento del fiume, verso Bratislava e Vienna.
Bratislava e poi Vienna
A differenza di Budapest e contrariamente a quel che si potrebbe immaginare, l'antica Pressburg (uno dei tanti nomi che Bratislava annovera a testimonianza delle sue molteplici radici tedesche, magiare, slave, romanze ed ebraiche) mantiene ancora una propria fisionomia almeno non totalmente omologata. Malgrado le vicende della storia abbiano teso a “semplificarla” (è quello che è avvenuto con il quartiere ebraico di cui praticamente non c'è più traccia), la città mostra qualcosa di suo.
A metà strada fra il sogno europeo e il richiamo sovietico, un po' moderna e un po' sgangherata, la piccola capitale della Slovacchia risente infatti delle dominazioni subite. Pensiamo che all'inizio del XX secolo – sono i dati dell'ultimo censimento austro-ungarico del 1910 – risultava che il 40% della popolazione parlasse come lingua madre l'ungherese, il 42% il tedesco e appena il 15% lo slovacco. Nel 2011, cent'anni dopo, un nuovo censimento racconterà un'altra storia: il 90,85% si è dichiarato di madrelingua slovacca, il 3,42% ungherese, l'1,32% ceca, lo 0,23% tedesca. Una metamorfosi certamente dolorosa, fatta di pulizie etniche e spostamenti di popolazioni, guerre e migrazioni.
Rimangono i segni della storia, dal passato barocco dell'impero al grigio anonimato dei palazzoni sovietici, ma anche i tratti più recenti di una post modernità che accomuna i quartieri finanziari e commerciali di ogni area metropolitana nel mondo, a testimonianza di quel pensiero unico che tutto appiattisce. Ci rifugiamo nella città vecchia che, a dispetto del tempo, conserva un suo fascino, un po' sbiadito e forse volgarizzato ma che ci accoglie con le sue birrerie che mi costringono ad una per quanto momentanea conversione alla buona birra. E poi ancora lui, il grande fiume che l'accarezza. Quell'ecosistema che disegna un'altra geografia possibile. Oltre i confini degli Stati ad indicare nuove cittadinanze laddove incombono vecchi (e non meno pericolosi) nazionalismi.
Una sera e via, di buon mattino verso Vienna che dista da qui una manciata di chilometri, dove vorremmo dedicarci almeno una sontuosa colazione in nome della Sachertorte. Ci immaginiamo la morbidezza del pan di Spagna al cioccolato, la marmellata di albicocche, la glassa di cioccolato fondente per un dolce diventato simbolo della pasticceria viennese e che deve il suo nome ad un giovane pasticcere che si trovò per caso in un anonimo giorno del 1832 a sostituire lo chef ammalato che avrebbe dovuto preparare un dolce al cioccolato per il cancelliere von Metternich, la cui ricetta dicono sia custodita in una cassaforte presso l'Hotel Sacher di Vienna. Purtroppo il prestigioso Café Mozart, nei pressi dell'Albertina e del Burggartner, si rivelerà molto al di sotto delle aspettative.
Per il resto Vienna è una città che sembra fuori dal tempo. All'inizio del Novecento – con i suoi 2.100.000 abitanti – era la grande capitale del secondo (come vastità territoriale) impero europeo dopo la Russia, che vantava undici lingue ufficiali, cinque religioni riconosciute, un vasto numero di nazioni più o meno riconosciute con le proprie vulgate. Per comprendere cosa fosse quella città all'inizio del Novecento sotto il profilo culturale basterebbe scorrere i nomi dei compositori che ne magnificavano i concerti o i grandi protagonisti della letteratura europea. Oggi, nonostante i processi di inurbamento e l'impennata della popolazione mondiale, Vienna ha circa 120.000 residenti in meno di allora e i territori dell'impero asburgico sono disseminati in tredici diversi Stati europei.
L'implosione dell'impero, così magistralmente raccontata da Robert Musil nel suo capolavoro di una vita, L'uomo senza qualità21, nel corso di un secolo ne ha di molto ridimensionato il ruolo e l'immagine. Un processo di lungo declino, malgrado per queste strade di notte potremmo incontrare i fantasmi di Franz Kafka o di Sigmund Freud, di Ludwig van Beethoven e di Franz Liszt, di Gustav Klimt e Wolfgang Amadeus Mozart.
Con il cosiddetto Anschluss, il Terzo Reich al comando di un uomo mediocre e ambizioso (cui peraltro diede i natali nel villaggio di Braunau sull'Inn nel 1889) ridusse Vienna ad una città stanca e vanitosa, devastata culturalmente e moralmente per la sua adesione al nazifascismo, assediata politicamente da una campagna che non ha saputo ancora fare i conti con il proprio passato.
L'epilogo. Austria felix e il passato che non passa.
Vindobona, com'era chiamata Vienna dai latini, l'antica “città bianca”, è già alle nostre spalle. E' ancora il corso del Danubio ad accompagnarci, insieme ad un'intensa pioggia. Per il brutto tempo e per l'ora tarda, contrariamente al programma iniziale non ci fermeremo al Castello di Artstetten, la dimora dell'erede al trono Francesco Ferdinando e di Sofia Chotek prima del loro assassinio il 28 giugno 1914 per le strade di Sarajevo22. Proseguiamo il nostro cammino verso Melk, una piccola cittadina famosa per l'imponente abbazia benedettina che la sovrasta, abbastanza lontani da Vienna da poter trovare senza difficoltà rifugio per la notte e più vicini a Salisburgo, l'ultima meta prima del ritorno.
Melk non si rivelerà una semplice sosta tecnica. La cittadina ci sorprende per la sua armonia, per l'austera raffinatezza delle sue case e del suo cibo, per l'imponenza dell'abbazia che getta il suo sguardo verso il centro storico e il suo fiume, ancora il Danubio. Scopriremo in seguito che Melk fu anche la sede dal 1944 al 1945 di un sotto-campo del Lager di Mauthausen, dove furono internati per ragioni politiche 10.352 persone costrette ai lavori forzati, metà dei quali finirono la propria esistenza nel forno crematorio che nella periferia di Melk ancora testimonia l'immensa tragedia del Novecento. L'abbazia, l'armonia delle case, il forno crematorio: c'è di che riflettere.
Sarà l'epilogo dell'Austria Felix, la formula attribuita a Mattia Corvino per descrivere la politica matrimoniale dell'impero asburgico nell'espandere la propria potenza, immaginando un regno sul quale non “tramonta mai il sole”, versione di quel Leviatano che raggiunse il proprio abisso nella “grande mezzanotte” del secolo scorso.
Salisburgo non aggiungerà nulla di diverso, lo sguardo rivolto al passato e poi niente. Con i segni plastificati di una modernità che, un secolo dopo, ci racconta di un passaggio di tempo che per certi versi è ancora di là da venire. Con buona pace di Robert Musil.
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Non è stato un viaggio facile. Ma alla fine è stato un bel viaggio, grazie – come ha scritto Micaela nei giorni immediatamente successivi (https://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4994) – alla gentilezza dei gesti e ad un farsi carico collettivo tutt'altro che scontato. Non so dire quanto delle motivazioni che ci eravamo proposti con questo viaggio siamo riusciti ad esaudire. Ragion per cui vorrei proporvi di ritrovarci. Per il piacere dell'amicizia, per uno scambio di pensieri e, perché no?, per immaginare una prossima nuova rotta.
1 www.zerosifr.eu
2 Albert Camus, L'uomo in rivolta. Bompiani, 1957
3 Quella del film Casablanca. Quando i militari tedeschi la cantano al Rick's Cafe e gli avventori francesi la interrompono con l'esecuzione della Marsigliese https://youtu.be/vIxwG51bLFs
4 Claudio Magris, Danubio. Garzanti
5 Jozsef Attila è considerato uno dei grandi poeti ungheresi del Novecento. Morì suicida nel 1937 a soli 32 anni.
6 Vaclav Havel fu presidente della Cecoslovacchia dall'89 al '92 quando non volendo ratificare la divisione fra Repubblica Ceca e Slovacchia decise di dimettersi.
7 Guido Crainz, Il sessantotto sequestrato. Donzelli editore, 2018
9 Per questi riferimenti i due grandi libri di Primo Levi, “Se questo è un uomo” e “I sommersi e i salvati”. Einaudi
10 Importante a questo proposito il lavoro di Silvano Falocco e Carlo Boumis “Roma coloniale”. Le Commari, 2022
11 Karl Jaspers, La questione della colpa. Raffaello Cortina editore, 1996
12 Il Corpo di sicurezza trentino (CST) o Trientiner Sicherungsverband (TSV), milizia istituita nel 1944 dalle autorità di occupazione nell'ambito dell'Alpenvorland, impiegata massicciamente anche fuori provincia in operazioni antipartigiane e di rappresaglia di cui facevano parte almeno 3200 trentini.
13 Adam Michnik, La seconda rivoluzione. Sperling & Kupfer editori, 1993
14 Figura controversa, quella di Jaruzelski. Secondo alcuni osservatori con il colpo di stato militare del 1981 impedì l'invasione della Polonia da parte dell'Unione Sovietica e della DDR e successivamente garantì la transizione pacifica alle libere elezioni.
15 Paolo Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi. Feltrinelli, 2014
16 Il riferimento è al viaggio “Danubio, l'Europa s'incontra” che organizzammo come Osservatorio Balcani dal 12 al 21 settembre 2003 da Vienna, facendo tappa a Bratislava, Szentendre/Budapest, Vukovar e Novi Sad, per giungere a Belgrado, primo battello a solcare il Danubio malgrado i ponti abbattuti dalla guerra.
17 Ne parla così Melita Richter Malabotta nel racconto dedicato a quel viaggio. Melita Richter Malabotta, Guarire mondi in crisi, a cura di Marija Mitrovic e Sanja Roic. Vita Activa, 2023
18 Albert Camus – Nicola Chiaromonte, In lotta contro il destino. Neri Pozza, 2021
19 Giovanni Catelli, Camus deve morire. Nutrimenti, 2013
20 «Il 23 ottobre 1955 [Camus] commemorò con un discorso alla Sorbona i trecentocinquant'anni dalla pubblicazione del libro di Cervantes. Il testo dell'intervento apparve il 12 novembre su Le Monde libertaire con il titolo “La Spagna e il donchisciottismo”». Il Don Chisciotte, «un compagno di strada ideale per Camus». Giovanni Catelli, ibidem.
21 Robert Musil, L'uomo senza qualità. Einaudi, 1972
22 Interessante a questo proposito la lettura di “A Sarajevo il 28 giugno” di Gilberto Forti (Adelphi, 1984).
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