"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini *
Affermava Voltaire che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. E’ una massima che – da quando ho memoria – viene richiamata a mo’ di monito per sottolineare la condizione di precarietà (per usare un eufemismo…) delle carceri italiane.
La si trova utilizzata per denunciare l’inaccettabile sovraffollamento delle strutture detentive (l’Unione Camere penali Italiane ci dice che sono 60.637 le persone oggi detenute a fronte di 51.347 posti ufficiali, dei quali però alcune migliaia indisponibili) o per far riferimento all’alto tasso di recidiva – attorno al 70% per chi transita per le celle italiane – che è il prodotto del fallimento della dimensione rieducativa della pena, che invece è il cuore dell’art.27 della Costituzione.
Parlare della crisi del sistema detentivo italiano diventa ancora più doloroso e urgente nel momento in cui si fanno i conti con il numero di suicidi (l’associazione Antigone ne conta 24 da inizio anno, tre nelle ultime 72 ore, due di ragazzi poco più che ventenni) a cui vanno aggiunti un numero infinitamente più alto di atti di autolesionismo che pratica chi si trova costretto dietro le sbarre.
Che fare allora se la fotografia della situazione è così evidente ed esposta, tanto da rischiare denunciandola senza agire di conseguenza per un suo miglioramento di scivolare nella sterile retorica?
In primis sarebbe utile tornare a condividere l’idea che il carcere va inteso come l’ultima soluzione lì dove ci siano condizioni tali da necessitare una netta e continuativa separazione tra la società e chi commette un reato. Per le altre fattispecie – la stragrande maggioranza dei casi – vale invece la già richiamata tensione primaria al reinserimento sociale, alla capacità di utilizzare la durata della pena come spazio per la riconnessione tra l’individuo temporaneamente privato della libertà con le sue comunità di riferimento.
Meno detenuti/e e migliori percorsi sociali loro dedicati/e dovrebbe essere la stessa polare verso cui orientare l’impegno politico e amministrativo.
Peccato da questo punto di vista che l’idea del Governo in carica si ponga esattamente all’antitesi, guidata com’è dall’illusione che il moltiplicare il numero di reati punibili (per i rave party, per le manifestazioni ambientaliste, ecc.) e il conseguente aumento di persone a cui sia ristretta la libertà possano produrre maggiore sicurezza. Se concentriamo l’osservazione ad esempio alla questione delle fragilità e delle conflittualità giovanili, tema di grande attualità negli ultimi mesi, abbiamo oggi il numero più alto di minori reclusi da diversi decenni a questa parte – più di 500, in costante crescita dopo il cosiddetto decreto Caivano. Ragazzi e ragazze su cui lo Stato applica una sorta di “vendetta sociale” invece che dedicarsi nella costruzione di percorsi di sviluppo individuale e collettivo orientati alla legalità e alla partecipazione attiva alle dinamiche comunitarie.
Cura, accompagnamento e opportunità devono essere gli elementi fondamentali dell’intervento collegato (e poi alternativo) all’esecuzione della pena e per questo la storia che Michele Rho inserisce nel suo documentario Benvenuti in galera è esemplare e utile. La storia è quella di un ristorante – In Galera, appunto – a scavalco del muro perimetrale dell’istituto penale di Bollate. Cuochi e camerieri sono i detenuti, che trovano in questo impiego portato ad un livello necessariamente professionale il modo di migliorare competenze lavorative e relazionali che potranno applicare alla fase successiva – al ritorno in libertà – della loro esistenza.
Prepararsi al dopo – al fine pena – avendo già un rapporto costante con il fuori produce parallelamente tre effetti. Migliora la sopportabilità e “utilità” dell’esperienza detentiva (la più dura e faticosa a cui si possa essere costretti), decostruisce lo stigma legato al carcere rendendolo aperto a cittadini e cittadine, favorisce percorsi dedicati alla coesione sociale, contribuendo al crollo del dato della recidiva sotto la quota del 20%.
Se proviamo però ad andare oltre il racconto della buona pratica applicata (Bollate è da tempo modello, sfortunatamente poco replicato) ciò che deve interrogarci è come riuscire a rendere un luogo migliore per vivibilità e capacità generativa il carcere presente sul territorio della città di Trento, nato quindici anni fa con la promessa – purtroppo in larga parte tradita – di essere struttura moderna e socialmente all’avanguardia.
L’impegno di un’amministrazione comunale, pur conscia di avere competenze limitate e non primarie in merito, è in primis quello di non dimenticare ai margini del proprio territorio il carcere e i suoi ospiti ma di dedicargli un’attenzione particolare, uno sguardo attento e costante.
Organizzando momenti di confronto, approfondimento che favoriscano la conoscenza della realtà carceraria. Stimolando le altre istituzioni territoriali (ogni riferimento a Provincia e Regione è voluto ed esplicito) perché tentino di riportare dentro i confini dell’Autonomia competenze legate alla parte educativa e lavorativa dell’ambito penitenziario. Lavorando con generosità per la costruzione di reti sociali ed economiche – mondo imprenditoriale e cooperativo possono essere partner importanti in questo – volte a moltiplicare le opportunità per detenuti e detenute di trovare sbocchi formativi e occupazionali. Mettendosi a disposizione per implementare progetti che trasformino l’approccio alla giustizia penale (saremmo pronti a un grande investimento culturale prima che economico in giustizia riparativa?) o alla sperimentazione di sistemi diversi di uscita dalla pena, come proposto dal deputato Riccardo Magi tramite le cosiddette “case di reinserimento sociale” dedicate a chi ha residui di pena non superiori ai 12 mesi.
Sarà pure un contributo piccolo quello che possiamo offrire, ma potrebbe risultare a suo modo decisivo – se figlio di buone alleanze sul territorio – per poter immaginare e costruire un carcere diverso, per davvero.
* da https://pontidivista.wordpress.com/
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