"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Questa riflessione è recentemente apparsa sulla rivista altoatesina-sudtirolese "Il Cristallo"
di Michele Nardelli
Prologo
E' la sera del 22 marzo scorso. Migliaia di persone affluiscono per un concerto al Crocus City Hall di Krasnogorsk, nella moderna periferia nord occidentale di Mosca, ignare che di lì a poco in quel luogo si sarebbe scatenato l'inferno. Qualche ora più tardi, sugli schermi di tutto il mondo, appariranno le immagini di un peraltro esiguo gruppo di terroristi che – incontrastati – sparano ad ogni cosa che si muove intorno a loro, entrano nell'immenso auditorium dove si dovrebbe svolgere il concerto (e dove dieci anni prima si era esibito Joe Cocker) e vi danno fuoco. Dalle immagini non sembra un commando particolarmente addestrato, questi uomini sembrano piuttosto avere l'aspetto dimesso e improvvisato di mercenari non certo animati da fanatismo religioso, non uno slogan, non una qualche simbologia, solo armi che uccidono a casaccio. Considerazione che trova conferma anche nei video delle stesse persone che fuggono con una piccola utilitaria e poi catturate il giorno successivo. Uno di loro, secondo le informazioni ufficiali, dirà che gli erano stati promessi 500 mila rubli, il corrispettivo di 5 mila euro. Come sappiamo la Federazione Russa era stata allertata per possibili attentati che avrebbero potuto colpire luoghi affollati e, ciò nonostante, la polizia interverrà solo ad azione terroristica compiuta. Senza bisogno di cadere nel complottismo, la vicenda puzza di bruciato. Fra le macerie annerite i corpi senza vita di oltre 140 persone, moltissimi i dispersi. Diverse centinaia i feriti.
Vidovdan
Nei giorni successivi diversi commentatori assoceranno l'attentato di Mosca a quel fatidico 28 giugno 1914 – il Vidovdan che la chiesa ortodossa serba celebra nella commemorazione degli antenati sconfitti e fatti a pezzi dai turchi a Kosovo Polje il 28 giugno 1389 – quando nelle strade di Sarajevo l'assassinio dell'arciduca ereditario d'Austria Francesco Ferdinando e della signora Sofia per mano di Gavrilo Prinzip mise in moto una successione di avvenimenti che portarono rapidamente alla prima guerra mondiale. Che a parole nessuno voleva, né credeva possibile. E infatti quando accadde l'eccidio di Sarajevo la cosa non sembrò allarmare più di tanto: i regnanti europei erano tutti imparentati fra loro ed una eventuale ritorsione asburgica contro la Serbia (che pure con i fatti di Sarajevo non centrava più di tanto) veniva considerata plausibile ma circoscritta. Aggiungo la considerazione che l'imperatore Francesco Giuseppe non sembrava particolarmente colpito dall'assassinio, perché in cuor suo si era liberato di un successore che non amava e di una consorte destinata alla corona asburgica ingombrante e morganatica1. Malgrado ciò, dopo solo sei settimane l'Europa sarà in guerra: lasciò sul campo circa dieci milioni di soldati, altri sei milioni e mezzo rimasero invalidi e mutilati. Più di tre milioni furono i morti civili e oltre 21 milioni i feriti. Migliaia di soldati sfiniti dalla guerra vennero condannati alla fucilazione per diserzione. Gli accordi pace (il Trattato di Versailles), con il loro carico di ritorsioni, riparazioni, indennità e debiti di guerra, spartizioni territoriali e migrazioni forzate, lasciarono il segno, creando i presupposti materiali, istituzionali e culturali che di lì a poco fecero piombare una parte significativa dell'Europa nelle mani del fascismo e del nazismo e, successivamente, nella seconda guerra mondiale.
La lezione che non abbiamo saputo imparare
Un effetto di scivolamento verso la guerra che ritroveremo spesso nel corso del Novecento. Dei paesi dell'est europeo, la Jugoslavia era quella che si era liberata praticamente da sola dal giogo nazifascista, aveva avuto il coraggio e la determinazione di rompere con l'Unione Sovietica cercando una propria strada, era parte importante del grande movimento dei paesi non allineati e, dell'area balcanica, era certamente quella che aveva il migliore tenore di vita. La guerra sembrava impossibile: malgrado quanto già stava avvenendo in Slavonia (la regione lungo il confine fra Croazia e Bosnia Erzegovina) e che si stessero scavando le trincee nei dintorni di Sarajevo, i cittadini dell'antica capitale della Bosnia Erzegovina consideravano la guerra improbabile. Come sappiamo andò in modo diverso: 1560 giorni di assedio e oltre dieci mila morti. Poi fu la volta del Kosovo, per quella che sarà ricordata come “la guerra dei dieci anni”. In realtà mai finita. Tanto da convincere l'Unione Europea – nel clima che oggi si respira di potenziale estensione della guerra verso occidente – ad accelerare un processo di allargamento ai paesi dei Balcani Occidentali prima apertamente avversato ed ostacolato e che da tempo appare nelle sue aree critiche in buona parte pregiudicato dai processi di radicalizzazione nazionalista e di deregolazione criminale. Del resto è stato così anche per la Turchia e il Caucaso, aree di grande rilievo strategico verso le quali l'Unione Europea non ha saputo sviluppare una propria strategia di avvicinamento.
L'Angelus Novus
Quelli che attraversiamo sono giorni di grande inquietudine. Come se non bastasse una pandemia che in poco più di due anni ha lasciato sul campo milioni di morti, come se la nostra casa comune non stesse già bruciando per effetto di una crisi climatica esito a sua volta di un modello di sviluppo insostenibile, la guerra sta entrando nell'immaginario collettivo in maniera devastante, reclutandoci più o meno consapevolmente verso la terza guerra mondiale. Quanto accade ai margini dell'Europa, in Ucraina come in Palestina (ma lo sguardo potrebbe allargarsi alla Siria come alla tragedia che si consuma quotidianamente nel Mediterraneo) pone l'urgenza di un ravvedimento profondo, un cambiamento tanto rapido quanto radicale di prospettiva. Invece preferiamo seguire come automi il pifferaio magico che ci sta portando sull'orlo del precipizio.
In questo addensarsi di nubi la mia bussola è stata l'Angelus Novus, un quadro di Paul Klee e la descrizione che ne fece proprio cent'anni fa Walter Banjamin.
«C'è un quadro di Klee che s'intitola “Angelus Novus”.
Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa
su cui fissa lo sguardo.
Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.
L'angelo della storia deve avere questo aspetto.
Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi,
egli vede una sola catastrofe,
che accumula senza tregua rovine su rovine
e le rovescia ai suoi piedi.
Egli vorrebbe ben trattenersi,
destare i morti e ricomporre l'infranto.
Ma una tempesta spira dal paradiso,
che si è impigliata nelle sue ali,
ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro,
a cui volge le spalle,
mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo.
Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta». 2
«Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe» scrive Benjamin. Potremmo raccontare così la policrisi, quel mare in tempesta che attraversiamo senza bussola, incapaci di cogliere l'inedito di Antropocene e la rapidizzazione di cui ci parla Francesco nella “Laudato si'”. Richiederebbe un cambio di paradigmi, uno scarto di pensiero rispetto a quello fondato sulle magnifiche sorti progressive che ci ha portati sin qui e che ha accomunato pur nella contrapposizione gran parte del pensiero politico moderno: la fede cieca nel progresso, lo sviluppo senza limiti, l'antropocentrismo e il rapporto di dominio verso la natura, la divisione del mondo in stati-nazione, il potere di genere, un approccio cognitivo che frammenta i saperi in un contesto sempre più complesso e connesso, la guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi.
“Se vuoi la pace, prepara la pace”
Due anni fa, di fronte all'invasione russa dell'Ucraina e alla chiamata alle armi dell'Occidente, ponemmo l'esigenza di “disertare la guerra”, ovvero di uscire dal motto dei latini “Vis pacem, para bellum” che è alla base di una deterrenza che ha riempito il mondo di strumenti di morte. Era questa la strada più radicale per opporsi tanto all'ossessione delirante della Grande Russia, quanto ad un'Alleanza Atlantica concepita come contenimento dell'Europa politica. La vera forza della popolazione ucraina avrebbe dovuto essere la resistenza nonviolenta, «la capacità di proporre un diverso terreno di confronto di fronte ad uno degli eserciti più potenti del mondo. Quest'ultimo avrebbe anche potuto rivelarsi più fragile di fronte ad un popolo capace di guardare negli occhi i propri fratelli. Quella forza nonviolenta che evitò il bagno di sangue in quel tragico agosto 1968 e che avrebbe liberato Praga vent'anni dopo con la rivoluzione di velluto»3.
In altre parole, cambiare il terreno di confronto, disertare la guerra unilateralmente. Non è facile, ma sarebbe stata l'unica strada per evitare il bagno di sangue che ne è venuto e che ancora prosegue in Ucraina, più di mezzo milione di vittime. Analogamente per quanto sta avvenendo in Palestina, ultimo atto di una tragedia che prosegue dal 1948 e che negli ultimi sei mesi di guerra ha provocato oltre 35 mila morti, in grande maggioranza civili e bambini. E non lasciare che terre tanto fertili e ricche di storia e cultura divenissero lande desolate, avvelenate, talvolta non più abitabili per decenni.
Per far tacere le armi, alzare unilateralmente le mani, sventolare bandiera bianca. Significa arrendersi? Accettare il sopruso? Niente affatto. Significa rispondere al sopruso con la forza della ragione: “non ci avrete mai”. L'insegnamento più profondo della resistenza di Sarajevo negli anni '90 è stato proprio questo, il saper contrapporre all'assedio la forza della cultura, dei rapporti umani fra le persone a prescindere dal proprio credo religioso o nazionalità, la vita che si svolgeva malgrado la mancanza di elettricità, acqua, cibo e informazione. La nonviolenza è questo, resistenza verso ogni sopruso, senza diventare come chi ti aggredisce. Richiede formazione, capacità di dialogo, autocontrollo. Anche saper immaginare scenari diversi, status istituzionali talvolta inediti, vie di uscita reciprocamente vantaggiose. Questo significa “preparare la pace”. L'esatto contrario del prepararsi alla guerra di cui sentiamo parlare in queste ore nelle istituzioni europee.
L'Europa come proposta di pace
L'Europa politica nasce come proposta di pace. Nel Manifesto di Ventotene come nelle aspirazioni di chi ha cercato di immaginare, dopo due guerre mondiali nate nel cuore prometeico del continente, una soluzione permanente che superasse la divisione dell'Europa in stati nazionali. Come già nel suo nome, che nella mitologia greca rappresenta una principessa che nasce nella Mezzaluna fertile del Mediterraneo e dunque oltre i confini di anacronistici stati nazionali, «allergica alle frontiere» come scrive Zygmunt Bauman4, l'Europa è prima di ogni altra cosa una proposta di pace. Se ciò non è ancora avvenuto è perché nella lotta fra spirito mediterraneo e ideologia tedesca, «fra meriggio e mezzanotte» per dirla con Albert Camus5, è prevalsa la cultura prometeica6.
Il fatto è che la fine di una storia (questo è stato l'89) avrebbe richiesto da parte dell'Europa politica una ben diversa capacità di ridisegnare il mondo, di porsi come soggetto di dialogo e di relazione con particolare attenzione verso la sua parte orientale, il Mediterraneo e il vicino Oriente. Ma il vulnus delle malintese radici culturali dell'Europa, che semmai risiedono nell'attraversamento del Mediterraneo7, oltre che a far fallire l'iter per la Costituzione Europea (che vale la pena di ricordarlo ancora non c'è), ha generato nuove chiusure identitarie, nuovi nazionalismi e nuovi progetti egemonici. In questo non ha certo aiutato affermare con enfasi retorica che dopo la seconda guerra mondiale per l'Europa ci sarebbe stata una stagione di pace. Non è andata così. La guerra è stata presente in molteplici forme, quella fredda fatta di muri e di arsenali sempre più distruttivi, quelle nell'ambito delle sue vecchie geografie (Cipro, Balcani occidentali, Moldavia, Cecenia e Caucaso meridionale, Ucraina), quelle determinate dal ruolo coloniale e neocoloniale mai nemmeno elaborato dall'Occidente. L'incapacità di riconoscere la tragedia del Novecento e di fare i conti con la propria falsa coscienza a cominciare dalle pagine più oscure del proprio recente passato, hanno lasciato un vuoto nel quale è riapparsa l'insana idea dello scontro di civiltà. Ed oggi, di fronte al riesplodere di vecchi e nuovi conflitti, l'Europa per l'ennesima volta si ritrova impreparata e incapace di proporsi come portatrice di un nuovo disegno.
“Conosci te stesso”
Sarebbe interessante che nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo di tutto questo se ne parlasse. Temo invece che sentiremo cantare a squarciagola inni nazionali che invocano la superiorità di nazioni e civiltà. Dovremmo essere “pronti alla morte” perché ci educhiamo alla cultura del limite, non per ridicoli patriottismi costati nel corso della storia milioni di vite. Per “preparare la pace” dovremmo indagare la guerra che accompagna da sempre il genere umano come una sorta di presenza archetipica. Indagandone, certo, gli interessi che la inducono come quelli che genera. Ma anche gli aspetti inconfessabili, quel terribile amore per la guerra ben rappresentato dalle immagini che accostano Ares e Afrodite di cui ci parla con straordinaria intensità James Hillman8. E dunque indagare la natura umana, il delirio di onnipotenza che viene dall'arbitrio nel decidere della vita e della morte di un'altra persona, la zona d'ombra che ognuno di noi si porta dentro e di cui dovremmo avere consapevolezza e capacità di contenimento. Ed infine indagare la pace, perché non sia un rituale e vuoto richiamo «dell'ignoranza travestita da innocenza».
All'ingresso del tempio di Apollo a Delfi i greci scolpirono a caratteri cubitali la scritta γνθι σ(ε)αυτν, «conosci te stesso». Cui aggiunsero μηδν γαν, «nulla di eccessivo». Ben più di un programma elettorale.
(aprile 2024)
1Gilberto Forti, A Sarajevo il 28 giugno. Adelphi, 1984
2Walter Benjamin, Angelus Novus. Einaudi, 2014
3Michele Nardelli - Francesco Prezzi, Immersi nel Novecento. In https://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4749
4Zygmunt Bauman, L'Europa è un'avventura. Laterza, 2004
5Albert Camus, L'uomo in rivolta. Bompiani, 1981
6«Goethe definì prometeica la cultura europea. Prometeo rubò il fuoco agli dèi e ne tradì il segreto consegnandolo agli uomini. Ma una volta strappato alle mani degli dèi, il fuoco sarebbe stato ricercato avidamente da ogni nucleo umano, e poi trionfalmente acceso e accudito da quanti l'avevano trovato» Zygmunt Bauman, Opera citata
7Maria Rosa Menocal, Principi, poeti e visir. Il Saggiatore, 2003
8James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2005
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