"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
"Un viaggio di ritorno, un libro scritto a metà, una comunità di pensiero" (26 giugno - 3 luglio 2024). Il racconto.
di Domenico Sartori
Emozioni e paure
Partiamo dalla fine. “La mia follia è rimanere qui”. Incontriamo Darko Cvijetic al motel Le Pont. Insieme al “condominio rosso” dove ancora abita è il suo rifugio quando ritorna a Prijedor, in quella parte di Bosnia Erzegovina chiamata Republika Srpska. Poeta, scrittore, drammaturgo, attore, Cvijetic ha appena pubblicato l’ultimo romanzo della trilogia aperta con L’ascensore di Prijedor (uscito in Italia con Bottega Errante Edizioni). Il protagonista è un criminale di guerra, che ritorna dopo venticinque anni di galera. “Il criminale è cambiato, tutto il resto è rimasto come prima”. E la comunità non può accettarlo: è uno specchio che ne riflette l’immagine. “Perché” dice il romanziere “il criminale di guerra è un potenziale che ognuno di noi ha dentro”. Michele sorride, ne parla spesso nelle sue riflessioni sulla guerra.
E’ il tema, enorme, dell'elaborazione del conflitto. Senza, le guerre non finiscono mai. Elaborare. Conoscere. Guardarsi dentro. E’ fatica, dolore. Qui sta la tragedia. Il passato che non passa. Lo scontro solo “congelato” dagli accordi di Dayton (fine 1995) che hanno fermato le granate e la guerra in Bosnia Erzegovina. Un equilibrio precario dentro la geopolitica globale, l'altra guerra mai risolta fra Serbia e Kosovo, quelle in Ucraina e in Palestina, l’Europa dove risorgono sovranismi, fascismi e nazionalismi, gli Usa a rischio guerra civile. Un “equilibrio” che pare stare bene a tutti i principali attori. Se non altro perché, dentro la tregua, il grande business nei Balcani continua: quello delle privatizzazioni e delle delocalizzazioni, dell’energia e delle materie prime, dei traffici e del real estate. Ne è emblema la cementificazione del lungofiume di Savamala a Belgrado, voluta dall’attuale presidente della Repubblica, Aleksandar Vucic. Dalla fortezza di Kalemegdan, l’imponenza del gigantesco affare immobiliare, il progetto Belgrade Waterfront, taglia l’orizzonte: hotel di lusso, il più grande centro commerciale dei Balcani, 10 mila appartamenti riservati alle élite, 4 miliardi di euro di investimento, la Eagle Hills Company di Abu Dhabi protagonista.
Il passato che non passa, tra rassegnazione e fatalismo. E l’andarsene, la defezione, come unica via d’uscita. “Il sistema educativo è tale” ci spiega Cvijetic “che ogni nuova generazione è preparata per una nuova guerra”. Occorre allora chiedere al poeta quale futuro riesca ad immaginare per i Balcani occidentali, traditi nel loro progetto di adesione all’Unione Europa, coltivato e alimentato nel dopoguerra. “Se io sono rimasto qui è per cantare e scrivere poesie” ci risponde Cvijetić “la nostra, dal Triglav (la montagna simbolo della Slovenia, ndr) alla Macedonia, è una società proto-fascista. La gente è infelice, non sorride. Slovenia e Croazia, con l’ingresso in Europa, hanno una qualche prospettiva di futuro, il resto dei Balcani vacilla, oscilla tra essere pro Russia e pro Europa. E’ terribile la mancanza di volontà di uscire da questa situazione”.
I poeti vedono lontano, più degli economisti. “Non sono né ottimista, né pessimista: semmai sono lunatico” dice sorridendo il nostro romanziere di Prijedor. “Io penso che tra 30-50 anni qui non ci saranno né serbi, né croati, ma algerini o tunisini. Diventeremo un corridoio tra il Mediterraneo e l’Unione Europea. Anche la lingua sparirà, la useranno solo gli scrittori, tutti gli altri parleranno inglese”.
Il disincanto verso l’Unione Europea ti viene sbattuto in faccia anche nella sede del Kvart, l'associazione che ha contribuito a dar vita al Movimento delle Fasce bianche, qui rappresentata da Edin Ramulić, Fikret Bacić e Branko Culibrk. “La gente non ci crede più, spera solo che non ci sia di nuovo guerra. Ma noi non ci sentiamo sicuri” dice Edin ricordando i “numeri” di Prijedor: 3.176 vittime civili, 265 donne e ragazzi uccisi, 102 bambini vittime della pulizia etnica, 53 mila profughi, 32 mila nei diversi campi di concentramento. E’ per fare memoria di quei 102 bambini che le Fasce bianche chiedono da tempo di erigere un monumento a Prijedor. Basterebbe poco. Ma il sindaco non degna il movimento neanche di un incontro. Porte chiuse, altro che riconciliazione.
A Prijedor, in centro, ci accoglie l’enorme murale realizzato sull’edificio della scuola dalla compianta Paola de Manincor nel 1998. Poco distante, la Galleria d’arte moderna: una scommessa culturale che ha visto il coinvolgimento dello Studio Andromeda di Trento. E, vicino, la bottega di prodotti enogastronomici locali dove si può acquistare un buon formaggio i cui produttori hanno potuto beneficiare del contributo formativo della Fondazione Mach di San Michele all’Adige. Solo alcuni esempi della miriade di iniziative, rapporti, collaborazioni attivate a partire dalla metà degli anni Novanta con l’Associazione Progetto Prijedor e con la costituzione dell’ADL, l’Agenzia della democrazia locale coordinata nei primi anni da Annalisa Tomasi.
Michele Nardelli è stato il primo promotore, all’epoca, delle relazioni tra Trento, il Trentino e Prijedor dove, come ha concluso la Commissione d’indagine sui crimini di guerra della Nazioni Unite, “la distruzione sistematica della comunità bosniaca nell'area di Prijedor merita il nome di genocidio”1.
L’incontro con Jasna Dedić, Refika Alisković e Adila Alisković, dell’associazione delle donne della “Lijeva Obala” – la riva sinistra del fiume Una – dove si contarono nel 1992 circa 1.500 vittime, lascia il segno. Emozione e paura, negli sguardi che si incrociano dopo molti anni, sono reciproche. L'emozione del reincontrarsi, la paura dell'aver tradito le aspettative. Eppure rimane, fortissimo, in queste donne di Prijedor – vedove, profughe, poi attive in progetti di ricostruzione e riconciliazione – un sentimento di gratitudine per le relazioni profonde che il tempo e la distanza non hanno scalfito. Emozioni, qualche lacrima, ma vivere qui non è facile, quando può capitare di incontrare per strada i tuoi aguzzini. Sentimenti che alimentano la paura che tutto possa ricominciare. “C’era, c’è ancora e rimarrà, io me la sento addosso; la nostra associazione non è sciolta, ma molti sono migrati, la popolazione è meno interessata a partecipare, e chi rientra a Prijedor investe le energie per sopravvivere” racconta Jasna, che dopo aver cresciuto i figli per qualche mese all'anno fa la badante in Baviera. Non c’è altro modo di garantirsi un pezzo di futuro: accumulare un po’ di risparmi in un paese dove il welfare è collassato e ai licei si preferiscono gli istituti di formazione professionale per creare operatori socio-sanitari che poi migreranno in Italia, Austria, Germania, Svezia, a tenere in piedi sistemi di welfare sempre più in affanno.
Dopo trent’anni, tra gli edifici ricostruiti di Prijedor, la riconciliazione è ancora tutta da costruire. “La nostra associazione non ha avuto il successo che speravamo. Siamo deluse per la situazione che qui non cambia. Forse la paura è dovuta al fatto che il tempo scorre inesorabile, forse alla delusione raccolta” dice Jasna. “Da una parte” aggiunge Refika “c’era il progetto per la cura degli anziani, che ci ha dato competenze utili; dall’altra, la ricerca delle persone scomparse. Io, a questo progetto, ho contribuito gratuitamente: il mio compenso sarebbe trovare quel che rimane del corpo di mio marito, ucciso nel primo mese di guerra, per poterlo seppellire”.
Il vento di destra che spazza l'Europa
In realtà il primo appuntamento di questo tour balcanico lo abbiamo a Zagabria, con Snjezana Djuricić, che ci accompagnerà, come persona interessata prima ancora che come interprete, in tutto questo nostro viaggio. Una persona squisita, attenta e di rara competenza linguistica che verrà messa alla prova anche nelle traduzioni letterarie.
Quando la incontriamo lei è già con Paul Stubbs, che ha avuto in passato come docente. Professore di origine britannica ma che da molti anni ha messo radici profonde a Zagabria, ci parla del clima pesante che si respira oggi in Croazia, di revisionismo, di falsificazione della storia, del silenzio rispetto ai crimini del regime degli Ustaša, della crescita della destra radicale, simile all’AfD in Germania. A Zagabria, ogni primo sabato del mese una piazza si riempie per pregare in favore dei diritti degli uomini sulle donne. La chiesa cattolica, qui, non è quella di Francesco. “Rispetto a quindici anni fa” riconosce Stubbs “è stato fatto un grande passo indietro. Dopo l’ingresso nella Unione Europea e alcune sentenze assolutorie di criminali di guerra, le barriere rispetto al nazionalismo radicale sono cadute”. Dell’Europa interessano i fondi che possono arrivare, non il progetto politico. Tuttavia, Stubbs si dice ottimista: “La destra croata collabora con Fratelli d’Italia, che pensa ancora alla Dalmazia italiana, e con gli ungheresi di Orban che hanno in mente una cartina geografica dove l’Ungheria si mangia mezza Croazia. Tra loro, questi sovranismi non possono collaborare a lungo. L’Europa è un’idea così forte, come la democrazia, che potrà risorgere. La dimensione etica sopravviverà”. Ne viene un confronto molto interessante. Paul scriverà sulla sua pagina fb: “Una splendida, seppur pessimista, discussione”.
Ci spostiamo a casa di Zoran Pusić, figura storica dell'antifascismo in questo paese. Ottant'anni portati bene gli permettono di essere fra i protagonisti della Lega antifascista fondata in diverse città croate proprio per frenare la deriva di estrema destra. “Mi sorprende” ci dice Zoran “che quel che abbiamo vissuto nel corso del Novecento non abbia sedimentato sufficienti anticorpi per evitare tutto questo. Ma il peso del revisionismo e della falsificazione della storia svolgono un ruolo importante. E l'idea che hanno i nazionalisti oggi non è più quella di starsene fuori dall'Europa, bensì di far venir meno l'Europa come progetto politico, attraverso uno svuotamento dall'interno a favore degli Stati nazionali. La balcanizzazione dell'Europa? “L'Europa a destra potrebbe accadere”. Eppure malgrado tutto Zoran Pusić si dice ottimista: “l'inchiostro della storia non si è ancora seccato” afferma. Ritornano le parole di Paul Stubbs, l'Europa come attrazione di tipo etico.
In Croazia, il partito di destra estrema, il Movimento Patriottico, dopo le elezioni di aprile è parte della coalizione di governo, mette al primo posto l’euroscetticismo. “La Croazia non ha bisogno di altri capi” è il suo slogan, ci spiega il Drago Hedl, vicepresidente dell'Ordine dei giornalisti della Croazia, “ed è contro le tre B: Budapest, Belgrado, Bruxelles”. Lo incontriamo ad Osijek in un caffè lungo la Drava.
Hedl è un testimone privilegiato per capire l’aria che tira nel Paese e nella sua parte più ad est, nella Slavonia. La crisi demografica batte in larga parte dei Balcani, qui più che altrove. “Vi sono villaggi semi abbandonati, e non si lavora più la terra: importiamo prodotti agroalimentari da Spagna, Italia, Germania, persino piselli dal Canada”. In questo assaggio di Balcani, da Osijek Held tratteggia uno scenario che altri interlocutori, tra Serbia e Bosnia Erzegovina, confermeranno. L’Europa che non c’è, al più buona per fare cassa: “Una volta entrati nel club, è il liberi tutti”. Il paradosso dei giovani: “Non sono coscienti dei valori europei, ma quando possono se ne vanno all’estero, in Irlanda o altrove. In Croazia i loro talenti sembrano non valere nulla se non sono del partito di governo”.
Chi lascia e chi arriva: “Cresce l’immigrazione, 300 mila persone da India, Bangladesh, Pakistan… Saranno 500 mila entro due anni”2. E con l’immigrazione cresce il populismo: “La destra offre soluzioni facili e veloci, il sentimento di rivincita del dopoguerra verso i serbi ha un nuovo obiettivo: ora gli stranieri, che ci rubano il lavoro e riducono il valore degli stipendi, sono i nuovi nemici”. E poi la corruzione: “In Croazia la corruzione è molto diffusa, fino al governo. In otto anni, due mandati, sono stati ‘licenziati’ trenta ministri, coinvolti in appalti di opere pubbliche. Va avanti chi è legato al partito. Il sistema giudiziario è il punto delicato. La struttura mafiosa si è formata durante la guerra. I clan non sono strutturati come in Serbia, qui sono ancora principianti. Ma vale la regola del non chiedermi come ho guadagnato il primo milione”.
Al contrario di Stubbs, Hedl non è affatto ottimista sul futuro: “La Croazia non ha una strategia di sviluppo, una produzione strategica su cui puntare. Non basta il turismo a breve termine. L’agricoltura è arretrata. L’industria, dopo il crollo dei giganti del passato, è il punto debole”. Anche questo spiega la nostalgia della Jugoslavia: “Ci si sentiva più sicuri. Allora, una donna con due figli non veniva licenziata. Oggi è una cosa normale”. E nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo in Croazia ha votato il 21,35% degli aventi diritto.
Defezione
A Belgrado sono i giorni del “Mirëdita, dobar dan”, il festival culturale che dal 2014 riunisce artisti e attivisti per i diritti umani provenienti da Kosovo e Serbia, simbolo di pezzi di società civile ancora vitali. Momenti di confronto e dibattito. Ma per la prima volta il festival viene stoppato dal Ministro degli Interni, ufficialmente per evitare gli scontri con i tifosi della Stella Rossa e gli estremisti di destra che contestano l’evento e, alla fine, brinderanno alla mano dura del governo. “Questo è lo scenario. Questa è la Serbia di Vucić, che comanda su tutto: una dittatura, più della Turchia, che l’Europa non vuole vedere” analizza Jovan Teokarević, già docente alla facoltà di Scienze politiche di Belgrado “Un regime clientelare, con un padrone. E non c’è libertà dei media”.
Il fenomeno nuovo, a Belgrado, sono i 50-100 mila russi scappati da Putin dopo i bombardamenti dell’Ucraina. “Per i serbi nazionalisti e tradizionalisti, questi nuovi russi, educati e competenti, molto esperti di informatica, che non vogliono più vivere in uno stato fascista, sono una sorpresa, perché non sanno comprendere come si possa lasciare un ‘paradiso’ come la Russia” dice ironicamente Teokarević, per il quale oggi nella società serba c’è una spaccatura che non si è mai vista: “Nessuna meraviglia, se scoppiasse una guerra civile” azzarda. Disincanto. Rassegnazione. O, semplicemente, realismo. “Non è possibile, in questo contesto, una transizione pacifica con le elezioni” ne è convinto Teokarević. Per non perdere le comunali di Belgrado, i nazionalisti di Vuić hanno fatto arrivare elettori anche dalla Republika Srpska. Pullman carichi, per un pugno di dinari e un panino: pagati per votare. L’opposizione, che si è divisa, ha denunciato brogli e irregolarità. Si capisce la defezione.
Il passato che non passa, anche qui. Massimo Moratti, corrispondente dell’Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa, riconosce che la società civile serba è molto polarizzata. Ma non crede che “la Belgrado ruspante, da bere, degli ultras e dei traffici strani sia a rischio guerra civile”. Piuttosto coglie un accresciuto sentimento, misto di arroganza e vittimismo. Il clima, nella Serbia di Vucić che, disinvolto, strizza l’occhio contemporaneamente alla UE, alla Russia e alla Cina, è cambiato. “Ora, il generale Mladić, da prigioniero in Finlandia, si collega on-line e tiene lezioni a scuola sui valori in battaglia. Una tale glorificazione dei criminali di guerra non si vedeva da quindici anni”.
Belgrado, dove il vive il 25 per cento della popolazione del Paese, è caotica, trafficata, rumorosa. Ad un tiro di schioppo dalla centralissima Piazza della Repubblica, l’aria che tira è nella gigantesca scritta che avvolge l’angolo di un vecchio edificio: “The only genocide in the Balkans, was against the Serbs”3. Non è stata cancellata. Ed è in inglese, perché tutti capiscano che siamo ancora lì, ai maledetti anni Novanta. Vittimismo e risentimento, propellenti per altri conflitti e future tragedie. Un incubo. Solo la musica soave di una giovane arpista di strada attenua lo sconforto ed il pensiero che i medesimi sentimenti albergano nelle contrade di tutta Europa, dalla Francia alla Germania, dall’Italia alla Svezia, alimentando nuovi fascismi.
“La Jugoslavia è stata una anticipazione di quanto poi è successo nel mondo” racconta Sonja Biserko. Sì, come sostiene Michele Nardelli, i Balcani sono un caleidoscopio privilegiato per leggere il presente e il nostro futuro. Sonja Biserko lavorava al Ministero degli Esteri della Jugoslavia. Nel 1991, aveva annusato l’aria che stava tirando. Si dimise dall’incarico e iniziò a lavorare per il movimento contro la guerra. Oggi presiede il Consiglio di Helsinki per diritti umani in Serbia. Ad accompagnarla, nel nostro incontro a Belgrado, è Lenka Rabasović, impegnata in progetti di integrazione culturale tra serbi e albanesi in Kosovo. “La Serbia sostiene la Grande Albania per poter fare la Grande Serbia” dice Biserko. E Vucić non è interessato al dialogo con il Kosovo, come chiede la UE.
L’ottimismo che ad inizio anni Duemila ha accompagnato l’avvio del processo di adesione alla Unione Europea è venuto meno. “Oggi” spiega Biserko “la Russia riempie il vuoto strategico degli Stati Uniti e della UE, qui e in Montenegro. E, tra Russia e Unione Europea, il partito nazionalista di Vucić sceglie Putin”. “Meloni, in Italia, non parla di Stato ma di Nazione. E’ il rovesciamento del Manifesto di Ventotene” osserva Nardelli. “Le stesse basi del diritto internazionale non funzionano più. Se il Kosovo è nel limbo è anche perché due princìpi sovraordinati del diritto internazionale, la sovranità e l’autodeterminazione nazionale, si dimostrano contraddittori. La stessa Carta nell’Onu andrebbe ripensata. Occorre cambiare paradigma e immaginare una Costituzione della Terra fondata sugli ecosistemi”.
“Purtroppo” interviene Biserko “la maggior parte della gente la pensa diversamente. Con la crisi demografica nei Balcani, sono gli immigrati a diventare un problema, e non c’è una strategia di integrazione. Belgrado ha una potenzialità enorme, potrebbe essere il centro culturale della regione, ma i politici si curano solo degli aspetti economico-finanziari”. La discussione con Sonja si allarga al Mediterraneo e ai suoi attraversamenti lungo la storia. Sintonie profonde. Oltre agli sguardi s'intrecciano riferimenti letterari fra persone che s'incontrano per la prima volta. Tanto che il confronto potrebbe proseguire ben oltre il tempo che abbiamo a disposizione.
E’ forse la questione ambientale il campo di gioco che nei Balcani occidentali apre più spazi di azione civica, mobilitazione politica, scenari di cambiamento. A Niš, nel sud della Serbia, ce ne parla Rastislav Dinić. E’ attivista del partito sinistra-verde che fa parte della coalizione che si è raccolta attorno al candidato sindaco Dragan Milić, un cardiologo molto popolare. “La priorità, oggi in Serbia, è far crollare l'attuale regime. Si parla di autoritarismo competitivo, perché la Serbia è un paese semi-totalitario. L’obiettivo è evitare che diventi totalitario del tutto” dice Dinić. Uno dei cinque municipi della città è conquistato, per gli altri – causa denuncia di brogli – si attende la decisione del tribunale. Niš è la punta più avanzata dell’opposizione al regime nazionalista di Vucić. Da una parte, c’è il contratto con il colosso francese Vinci per la gestione dell’aeroporto di Belgrado: una clausola prevede di limitare i voli di quello di Niš per ridurre la concorrenza della terza città del Paese. “Ma qui c’è un forte sentimento anticentralistico nei confronti di Belgrado” spiega Dinić. L’opposizione, che non si è sfarinata come nella capitale, lo ha intercettato; dall’altra c’è la questione del litio. Due anni fa, il governo era stato costretto dalle proteste popolari a sospendere il progetto della multinazionale anglo-austrialiana Rio Tinto di sfruttamento a Jadar, nell’ovest della Serbia. Ora, il governo intende far ripartire il progetto da 2 miliardi di euro: le 58 mila tonnellate di litio all’anno prodotte sarebbero in grado di alimentare 1,1 milioni di auto in Europa, il 17% del fabbisogno. La mobilitazione contro il progetto di devastazione ambientale è ripartita. Anche a Niš.
Riprendiamo la strada per Kraljevo, città in cui la comunità trentina avviò a partire dall'estate 1999 un progetto di cooperazione comunitaria. Erano trascorse solo poche settimane dai bombardamenti “umanitari” della Nato, per stabilire che il Kosovo doveva essere indipendente. Sono trascorsi 25 anni e stando al diritto internazionale, il Kosovo è ancora una regione meridionale della Serbia. Da quel tempo Michele e gli altri volontari del Tavolo trentino con la Serbia hanno percorso questa strada fino a farla diventare abituale. Eppure siamo nella regione della Šumadija, nella Serbia centromeridionale, a più di millecento chilometri di distanza dal Trentino. Con ogni tempo e Michele ci dice che ogni volta che è venuto a Kraljevo ha trovato pioggia. Neanche il tempo di dirlo e si scatena una bomba d'acqua che ci costringe a fermarci. A quel punto andiamo direttamente a Bogutovac, un piccolo villaggio lungo il fiume Ibar dove, alla Kafana za Mira, ci aspettano Lazar Nisavić, Slobodan Camagić e Predrag Matović. Gli abbracci e le loro parole ci raccontano di quanto le relazioni possano lasciare tracce profonde, nella comunità come nelle persone. Qui poi le parole s'intrecceranno con i sapori del migliore kaymak (un formaggio “intero” di origine turca) e della proja (la focaccia che in quest'area viene fatta con il mais bianco). Nemmeno Snjezana è mai stata da queste parti e lei è la prima ad essere stupita dalla qualitù della cucina di Predrag.
La BiH entrerà nell'Unione Europea quando la UE non ci sarà più...
L'ironia bosniaca è proverbiale. Ma la realtà ne è la conferma. E poi, il passato che non passa, ancora. A Mostar, il boulevard trafficato è un muro etnico: croati cattolici da una parte, bosgnacchi musulmani dall’altra. Nelle parole di Dario Terzić, giornalista e animatore culturale, c’è tutto lo sconforto di chi non coltiva più illusioni: “Ci parlavano della Bosnia Erzegovina in Unione Europea nel 2000. Siamo nel 2024! La gente si è stancata, non ci crede più, e ci si paragona alla Turchia che attende da 27 anni… Da qui i giovani se ne vanno, restano i vecchi. E gli investimenti culturali pubblici sono nella ‘tradizione’, che poi è quel pezzo di passato voluto dal potere, nel mentre vengono eliminati i luoghi di incontro. All'opposizione sono quattro gatti. Chi fa politica, la fa per sistemare il proprio figlio”. Nel corso della guerra e anche nel dopoguerra (tranne qualche breve periodo) Dario è sempre stato qui a Mostar, amando la sua città e, anche per questo, tradendo ogni appartenenza fino a rischiare la vita. E malgrado tutto senza mai perdere la sua proverbiale ironia. Ma oggi, tale è lo sconforto, che sembra più affidarsi alla congiunzione astrale che alla possibilità reale di cambiare le cose.
A Sarajevo ci aspetta l'incontro con uno dei più grandi giornalisti contemporanei. E l’analisi di Zlatko Dizdarević, nella sua severità, lo conferma. Il giornalista che ha diretto e fatto uscire il quotidiano Osloboenje durante i quattro anni di assedio della città, il diplomatico che ha rappresentato il suo paese in varie parti del mondo, nelle parole che raccogliamo sotto il grande tiglio di Morica Han, non lasciano scampo: “I giovani se ne vanno, i vecchi tacciono, la comunità internazionale è per lo status quo. Trent’anni di nazionalismo e corruzione ed il terreno è pronto ad ogni manipolazione”. Lì si torna: a Dayton: “Una catastrofe per la Bosnia Erzegovina” dice il giornalista-diplomatico. Perché ha ratificato quello che con la guerra i nazionalisti – profittatori di guerra volevano ottenere, ovvero la divisione “etnica” del paese, come condizione perfetta per il grande imbroglio che scarica sugli “altri” il proprio malaffare.
Non crede che una nuova guerra sia realisticamente possibile, per due ragioni: “perché non c’è interesse nella comunità internazionale; e perché l’indicazione che viene dai potenti è fare tutto il necessario per difendere lo status quo. L'esito di tutto questo è che allo stato civile, non puoi dichiararti bosniaco, ma devi scegliere tra bosgnacco, croato o serbo. Così, la gente non crede più all’ingresso in Europa. L’Unione Europea era molto più popolare vent’anni fa. Oggi la UE parla di transizione verde, ma qui andiamo per l’80% a carbone ed i cinesi sono pronti a dare credito per ricostruire le centrali termoelettriche”. C'è rammarico nella parole di Zlatko. Perché il suo è il racconto di una città, della sua tragedia, delle sue speranze, del suo disincanto. E del prevalere della mediocrità.
“Il nostro problema” dice Faruk Šehić, poeta, scrittore e giornalista bosniaco “è che da noi, di solito, chi pensa in modo diverso, è un nemico. Manca una cultura del dialogo. La guerra non è scoppiata all’improvviso, è stata preparata con la de-umanizzazione dell’altro attraverso i mass media. Ed è la fine della società civile quando si arriva al ‘nulla è proibito, tutto è lecito’. Ora, non vedo speranza attorno. Tanti giovani se ne vanno. Avessi vent’anni, me ne andrei pure io. Ma sono legato al mio Paese, alla natura, al fiume”. Faruk è conosciuto in Italia per il suo libro “Il mio fiume” (Mimesis, 2017), una forma intima di elaborazione del conflitto che diviene collettiva nel suo racconto perché “scrivere significa parlare davanti ad un pubblico invisibile, e questa è la mia piccola cattedra”.
Nerzuk Curak, originario di Prijedor, è un politologo che insegna alla facoltà di scienze politiche di Sarajevo. Riconosce che Dayton ha congelato la situazione (“Dopo gli accordi non ci sono stati cambiamenti”) ma è proprio questa immobilità di pensiero oltre che istituzionale a rendere tutto più difficile. Altre sintonie, come a Belgrado. Nerzuk e Michele s'incontrano per la prima volta, ma è come si fossero parlati da sempre. Nerzuk una chance la vede nell’agire comunitario. “C’è un proverbio che dice: non ci possiamo salvare, ma non possiamo sparire”. Lo cita, Curak, per spiegarci che “la gente di Bosnia sa cooperare a livello comunitario, ragione per cui anche nelle peggiori condizioni il Paese ha continuato ad esistere. La Bosnia “civile” è più forte della Bosnia “stato”. Il problema è che ad occuparsi di politica sono i peggiori, come Dodik (premier della Repubblica Serba della Bosnia, ndr) che ancora oggi parla di secessione e di de-umanizzare i bosgnacchi”.
Anche Rada Zarković, femminista e pacifista delle Donne in nero di Sarajevo, concorda: “Sì, credo che la Bosnia potrà sopravvivere oltre lo Stato. Ma la situazione dalle proteste che scoppiarono nel 2014 a partire dalla città di Tuzla è peggiorata. Qui, oggi, si parla più di armi e secessione della Republica Srpska che del lavoro che manca, delle fabbriche sparite, del welfare che non c'è, dei giovani che se ne vanno”. La situazione è tale che Rada non nasconde la propria “jugonostalgia”, un totem facile cui aggrapparsi. “Anche durante la guerra, c’era la speranza che prima o poi sarebbe finita, ma ora di speranza non ce n’è più. Noi un po’ di energia ancora la conserviamo, ma siamo in pochi”. Forse ci si dovrebbe interrogare collettivamente, ma i luoghi non ci sono o sono logorati e le persone sempre più sole.
Andiamo a cena con Kanita Focak, quasi un simbolo della resistenza civica nella Sarajevo assediata. Nei suoi occhi sembra esserci oggi più malinconia che fierezza, che pure non l'ha mai abbandonata. Michele ci racconterà della sua storia, ad un tempo incredibile, dolorosa e affascinante.
E' proprio nel centro delle proteste di dieci anni fa che incontriamo Damir Arsenijević, intellettuale, docente all’Università di Tuzla. Nel 2014 fu uno degli animatori dei Forum dei cittadini che raccolsero le proteste della popolazione per la chiusura delle fabbriche: “In Bosnia Erzegovina perdiamo ogni anno 60.500 vite a causa dell’inquinamento dell’aria. Rifiuti tossici sono nascosti in tutto il paese. I capitali si sono presi la terra, l’aria, l’acqua. Per cambiare il paradigma di pensiero, nelle condizioni socio-ecologiche date, occorre però partire dalla dimensione micro, dalla prossimità e dalla cura, dai beni comuni”. Le mobilitazioni per fermare le esplorazioni minerarie per riattivare le miniere di carbone si sono diffuse anche in altri centri. Arsenijević ricorda anche l’azione delle Donne di Krušica, villaggio nei pressi di Vitez, che hanno guidato la mobilitazione per fermare la costruzione di due centrali idroelettriche, ad un tempo minaccia alle condizioni di vita degli abitanti e compromissione del possibile sviluppo turistico del territorio.
Il colloquio con Damir è molto intenso come lo sono le sintonie. Michele ha portato con sé qualche copia dell'Angelus Novus, l'acquerello realizzato nel 1920 da Paul Klee, e dello “scritto filosofico” che ne fece Walter Benjamin. Un riferimento sufficiente ad aprire le porte al pensiero che per quasi tre ore si svilupperà fra di noi, un reciproco racconto sulle nostre isole di ricerca culturale e politica che vorremmo sapessero incontrarsi. Qualcosa di più che un auspicio.
A sera, nella piazza centrale di Tuzla, il cielo non promette nulla di buono. Non si tratta solo della pioggia torrenziale che sferzerà la città nella notte. Prima della pioggia assistiamo alle ultime battute di una manifestazione culturale di inizio estate. Tamburi, antiche divise da combattimento, grida di battaglia, scimitarre. Scopriamo trattarsi di un evento finanziato dal Ministero della Difesa della Turchia, non esattamente quello che ci saremmo aspettati da una città che durante la guerra – con la sua interetnicità – cercò in tutti i modi di tenersi fuori dalla guerra.
Mondi connessi
Una pioggia intensa ci accompagna al mattino seguente fino a Banja Luka, l'altra capitale di questo paese diviso. “Noi parliamo di quarta transizione. Dopo la privatizzazione delle aziende pubbliche, privatizzano anche la natura” ci dice Tihomir Dakić, ricercatore e attivista del Centro per l’ambiente di Banja Luka. Il Centro Czzs opera in tutta la Bosnia Erzegovina sui temi della biodiversità e delle aree protette, dell’energia e del cambiamento climatico, della protezione dei fiumi, della mobilità urbana e degli spazi pubblici. “Supportiamo le persone su come influire nelle decisioni, garantendo anche sostegno giuridico. Il tema più impegnativo e grave degli ultimi due anni” spiega Dakić “è quello delle materie prime critiche, come il litio, il cadmio, il boro, dopo che l’Unione Europea ha deciso di rendersi autonoma da Russia e Cina. Vucić ha rinnovato il contratto con Rio Tinto. Ma sono coinvolti anche quattro siti nella Repubblica Srpska di BiH, dove è all’opera la Adriatics Metals PLC, capitali inglesi, statunitensi e norvegesi”. La multinazionale sta portando avanti il Progetto Zinko-Argento a Raska in Serbia e l’Operazione Vareš in Bosnia Erzegovina. “E’ un “neocolonialismo democratico” che ha il supporto di Vucić e Dodik”, commenta il ricercatore del Centro per l’ambiente.
Michele omaggia Tihomir con una copia di “Inverno liquido” e accenna della necessità di comprendere come si stia assistendo al rovesciamento del rapporto fra tempi storici e tempi biologici, quale esito di “Antropocene”, ovvero di un modello di sviluppo insostenibile. Qui, in questo limes, dove tutto appare più complesso per la triste eredità degli anni '90, l'ambiente sembra aver poca cittadinanza. E quanto la questione ambientale ed il cambiamento climatico costituiscano un concreto effetto leva per disegnare nuovi, possibili e auspicabili scenari politici nei Balcani occidentali, è difficile dire. Ma il fatto che entrino nell’agenda dei cittadini e inneschino processi di partecipazione e mobilitazione è una piccola luce nel buio dell'inganno nazionalistico.
Lasciamo Banja Luka per Prijedor, di cui abbiamo parlato. Forse per Michele e Snjezana la tappa emotivamente più intensa. In serata raggiungeremo Dubica, a pochi passi dal confine fra la Bosnia Erzegovina e la Croazia. Il confine è segnato dai fiumi (Una e Sava) ma soprattutto dal Campo di Jasenovac che gli Ustaša croati, alleati dei Nazisti, utilizzarono per il massacro di serbi, rom, ebrei, omosessuali, oppositori politici, intellettuali nel corso della seconda guerra mondiale. Il fatto è che senza elaborazione non c'è memoria e senza memoria la storia è destinata a ripetersi all'infinito.
A questo dovrebbe servire la cooperazione fra comunità. Per gli altri e per noi.
1Luca Rastello, La guerra in casa. Einaudi, 1998
2Gli abitanti della Croazia sono sulla carta meno di 4 milioni.
3“L’unico genocidio nei Balcani è stato contro i serbi”
La lettera che illustra le ragioni del viaggio
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