"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Una legge civetta e l'autogol del referendum

Il Monte Peralba, visto dalla Val Visdende. Un monte simbolico delle geografie ecosistemiche

A fine luglio si è svolto a Dosoledo (BL) l'incontro di un folto gruppo di persone provenienti dal Trentino, dall'Alto Adige Südtirol, dal Friuli, dalla provincia di Belluno e da altre aree marginali del Veneto per riflettere sulla Regione che non c'è, la regione ecosistemica delle Dolomiti (https://www.michelenardelli.it/diario-di-bordo/2024/07/). Fra le varie questioni ci si è confrontati anche sul tema della riforma Calderoli e sulla proposta di referendum abrogativo che ne è seguita, proponendoci di avviare una discussione per uscire dalla dimensione propagandistica e manichea con cui si sta affrontando questo delicatissimo tema. Con l'intervento dell'amico Giorgio prende dunque il via la pubblicazione su questo blog di una serie di interventi intorno alla questione.

di Giorgio Cavallo*

Quale sia il progetto politico a breve-medio termine dell’attuale maggioranza politica che governa l’Italia appare evidente. L’approvazione della legge sulla autonomia differenziata spalanca le porte al più rapido possibile percorso parlamentare per la modifica costituzionale relativa al Premierato e quindi alla definitiva trasformazione della Repubblica. Il progetto Renziano di accentramento del potere governativo troverà così una ben più radicale soluzione e, con molte probabilità il corpo elettorale in un referendum avrà perso molti degli anticorpi di difesa democratica che hanno portato al risultato del 2016 e tutto sommato potrebbe non disdegnare di identificarsi nella semplificazione del “capo”. D’altronde è dagli anni 90 del secolo scorso che abbiamo imparato a votare il leader o la persona (Sindaco, Governatore, preferenza unica, collegi uninominali) e non una proposta politica o amministrativa.

Oggi la sinistra immagina la battaglia contro l’autonomia differenziata come il primo tempo di una partita che poi forse giocherà fino ai supplementari per poter difendere i valori base della democrazia e della Costituzione. Per fare questo però ritiene che il consenso popolare possa derivare da una accentuazione propagandistica dei limiti di una legge squilibrata e di fatto inattuabile, in contenuti e in procedure, attraverso la mitizzazione di conflitti (nord contro sud, ricchi contro poveri) e la riproposizione garantista della efficienza di un percorso di centralizzazione della amministrazione dello stato.

Ne nasce così, anche nel cosiddetto “campo largo”, un giudizio netto di fallimento della esperienza regionale dello stato repubblicano che non tiene conto dei risultati reali delle diverse storie, che interpreta le “specialità” come privilegi dispendiosi, che attribuisce ai sistemi istituzionali locali i dati di fatto del peggioramento di molti servizi pubblici e magari della loro privatizzazione quando questo è il prodotto di politiche generali dell’intero stato (e dell’intero arco politico) verso percorsi di liberalizzazione e di creazione di mercati dei servizi pubblici stessi.

L’emergere di questa cultura politica a mio parere porta a considerare l’iniziativa della sinistra come un vero e proprio autogoal che nulla oppone alla organica visione sovranista dello stato di Fratelli d’Italia. Per adesso si incassa il via libera della Lega per l’attivazione di sentieri perigliosi in aree paludose, poi sarà il Premier a illuminare il giusto cammino.

C’è un ulteriore elemento che riguarda il Friuli-Venezia Giulia al di là della contingente floridezza di bilancio. Una analisi disincantata della condizione della Regione, nei suoi aspetti economici, sociali, demografici, porta a giudizi di insufficienza legati sia a pratiche limitate (in termini di visioni di prospettiva) ma anche ad una vera e propria crisi di identità rispetto al senso della specialità stessa. C’è, ma nulla dice che dovrà sempre esserci. Di fronte ad un passato sentito come glorioso, oggi ci si continua a riavvitare sulla incapacità di costruire un sistema territoriale di enti locali. E incredibilmente in 10 anni ci si rivolge per due volte al Parlamento chiedendo soccorso in contraddittorie modifiche costituzionali. Quello che serve è un ricco confronto di idee e di prospettive politiche che ridiano un senso ad un percorso autonomista che vada al di là della riduttiva interpretazione di una Piccola Patria e dei destini della città porto-emporio di Trieste.

Purtroppo una vittima sicura dell’attuale confronto politico sulla autonomia differenziata, è proprio determinata dall’ormai granitica convinzione nella opinione pubblica italiana che le cosiddette “specialità regionali” storiche sono un “privilegio” da annullare e non uno strumento da utilizzare ed aggiornare. Neanche Zaia ricorda che nel 2017 l’elettorato della Provincia di Belluno votò quasi unanimemente (con valide motivazioni) la richiesta di una propria particolare autonomia.

La specialità del Friuli – Venezia Giulia non è solo quindi la possibile vittima di un Veneto che “rapinerà” 24 possibili materie di competenza di cui gran parte il Friuli – Venezia Giulia non dispone (pur se in realtà non potrà che trattarsi di funzioni legislative ed amministrative specifiche), ma è soprattutto un possibile capro espiatorio oggi considerato dotato di privilegi ingiustificati. Priva di difese e di strumenti di ricatto, la nostra autonomia ben poche possibilità avrà di costringere governi e parlamenti nel definire le forme aggiornate della sua eventuale futura “specialità”. E la finora misera applicazione delle “norme di attuazione” pur evitando le insidie del Parlamento non ha avuto e non ha certo prospettive gloriose.

Come modesto interprete di una “critica” cultura autonomista che la storia ha sedimentato nelle terre che oggi fanno parte della Regione Friuli-Venezia Giulia non posso quindi né condividere le dovute esternazioni a favore della Legge Calderoli da parte di esponenti di maggioranza dell’attuale potere politico (per i limiti ed i rischi che può creare nella approssimata applicazione dell’art. 116 della Costituzione), né aderire ad un percorso di una gioiosa “macchina da guerra” messa in piedi dal fronte di opposizione proprio perché stravolge anche quanto di buono la vicenda repubblicana ha permesso di attuare sul terreno delle autonomie territoriali. Non mi alletta né il nazional-sovranismo né il giacobinismo populista, particolarmente in un momento in cui gli eventi storici dell’attualità inducono a diffidare delle iniziative degli stati e chiedono ampie cooperazioni condivise e maggiore consapevolezza e capacità di decisione democratica delle comunità territoriali.

* Giorgio Cavallo è stato Consigliere regionale del Friuli – Venezia Giulia ed è fra i fondatori del movimento politico “Patto per l'Autonomia” in Friuli

 

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